Ipse Dixit
Il giornalismo tra la gente, Salvo Sottile si racconta
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Il suo nome è anche sull’enciclopedia on line della Treccani, così come i grandi giornalisti e conduttori televisivi di primo piano. Un posto meritato sul campo dopo tanti anni di intensa e dura gavetta. Nel periodo in cui ha cominciato, Salvo Sottile, ha letteralmente consumato le suole delle scarpe per accaparrarsi una notizia, indagando anche nel sottobosco della propria realtà territoriale. E non solo. Si incontravano persone, si verificavano le situazioni. In occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, Papa Francesco lo ha sottolineato più volte: “la crisi dell’editoria rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada…” Purtroppo è l’amara realtà dei giorni nostri.
Partiamo proprio dai tempi che furono.
Hai cominciato la tua brillante carriera quando avevi appena 16 anni. Cosa ti ha spinto ad intraprendere quella che poi sarebbe stata la tua professione?
“La possibilità di poter portare, mano nella mano, i telespettatori nei luoghi che vedevo e di far conoscere, attraverso una telecamera, le persone che incontravo”.
Era il 1989 quando hai cominciato a muovere i primi passi con La Sicilia e con Telecolor Video 3. Cosa ricordi di quel periodo?
“Che guadagnavo 100 mila lire al mese. Facevo tutto, dalle fotocopie all’accoglienza ospiti. Ma sopratutto guardavo i colleghi più grandi e cercavo di imparare o di “rubare” con gli occhi”.
Possiamo definirti un figlio d’arte? Cosa ti ha insegnato tuo padre Giuseppe, già capocronista del Giornale di Sicilia?
“Mi ha insegnato il rigore e la disciplina insieme alla curiosità. Senza la curiosità non avrei potuto fare il mio mestiere”.
A livello nazionale, la gente ha cominciato a conoscerti su Canale 5. Per l’allora telegiornale diretto da Enrico Mentana, avevi la mansione di “informatore” dalla Sicilia, soprattutto in tema di cronaca nera. Com’è nata la collaborazione?
“Facevo dei servizi per Telecolor e uno di quei servizi finì a Roma in mezzo a tanti altri provenienti dalla Sicilia. A Mediaset rimasero colpiti dalla mia voce e mi offrirono un ruolo di informatore”.
La tua corrispondenza del 19 luglio del 1992, in via D’Amelio, a Palermo, teatro dell’assassinio del giudice Borsellino e degli agenti di scorta, rimane tuttora un “pezzo” di alto giornalismo per come la strage mafiosa è stata raccontata. Cosa hai provato in quella circostanza?
“Paura, smarrimento. Molti di quei ragazzi della scorta li avevo conosciuti di persona. Fare una diretta lunga una notte assieme a Mentana mi costrinse a crescere in fretta. Avevo 18 anni, dovevo sembrare più grande della mia età e mi trovai a raccontare da “palermitano” una tragedia che aveva colpito la mia città”.
Un giornalista è un uomo e come tale prova delle sensazioni/emozioni che difficilmente farà trasparire dinnanzi ad una telecamera o nella realizzazione di un articolo di giornale. E’ stato così anche per te in quel funesto pomeriggio di trent’anni fa?
“Questo l’ho imparato col tempo. Essendo sensibile e molto passionale all’inizio facevo fatica, l’esperienza ti aiuta a schermarti davanti al dolore e alle tragedie”.
La mafia aveva alzato il tiro, la Sicilia perdeva due uomini di altissimo valore. A distanza di anni, credi che la strada tracciata da Falcone e Borsellino sia stata percorsa da chi è deputato a combattere la criminalità?
“Credo di sì, anche se oggi di mafia non si parla più, anzi sembra che la mafia non esista più. Invece esiste solo che ha cambiato strategia: ora si è inabissata, non fa rumore, illude tutti che sia stata sconfitta”.
Quando riusciremo ad eliminare del tutto l’equazione Sicilia=mafia?
“È’ già così, chi arriva in Sicilia si rende subito conto che la nostra isola non è luogo di cui avere paura ma una certa “cultura” , un certo modo di pensare, purtroppo, è’ ancora radicato, retaggi del passato”.
Torniamo alla tua brillante carriera che include anche le mansioni di corrispondente di guerra durante il conflitto in Afghanistan e la cronaca dell’attentato terroristico alle Torri Gemelle. Non solo Tg5, ma collaborazione anche con la Rai ed in particolar modo con il Tg1 e il Tg3. Quali le differenze sostanziali che hai notato tra il servizio pubblico e quello privato?
“Sono due aziende diverse. Mediaset nel periodo in cui ho lavorato con loro era un’azienda agile e mi ha permesso di imparare un mestiere e di farmi crescere. La Rai e’ la tv di stato e anche se talvolta tutto è’ più lento, è un traguardo per chiunque voglia fare il mio mestiere”.
Abbiamo letto la tua firma anche per i settimanali Epoca e Panorama e per il quotidiano Il Tempo. Ti manca il contatto con la carta stampata?
“A volte si ma purtroppo i giornali sono destinati a sparire, si comprano sempre meno. Ormai sappiamo tutto attraverso i cellulari”.
Hai lavorato come corrispondente dalla Sicilia anche per Rds e Rtl 102.5 e hai scritto tre romanzi. Se ad un esordiente nel campo giornalistico dovessi illustrare le differenze tra TV, radio e giornale, cosa diresti?
“Sono tre ambiti diversi. In radio devi sostituire le immagini coi suoni, sui giornali devi essere l’occhio del lettore, sulla tv devi sapere raccontare per immagini”.
Parlaci delle tue esperienze su Sky TG24. Non solo conduzione del tg ma anche il format mattutino “Doppio Espresso” e il settimanale di approfondimento “La scatola nera” “
“È’ stata una bella esperienza. Ho condotto io il primo telegiornale su Sky”.
Possiamo dire che la conduzione di Quarto Grado su Rete 4 (record assoluto nel 2010 con 18,33 di share con 4 milioni e 665 mila telespettatori) ti ha dato un’enorme popolarità?
“Certo, enorme!”
Qual’è stato il caso di cronaca che durante Quarto Grado ti ha particolarmente colpito e perché?
“L’omicidio di Melania Rea, una donna uccisa dal marito, un militare, Salvatore Parolisi. Lui si era sembra proclamato innocente ma quando lo ospitai in studio, ebbi la sensazione che volesse confessarmi il delitto. Non lo fece alla fine ma nei suoi occhi lessi la voglia di togliersi un peso”.
Sempre a proposito di Quarto Grado, in tanti sottolineano che i processi si svolgono in un’aula di tribunale e non dinnanzi alle telecamere perché ciò potrebbe compromettere il lineare svolgimento dello stesso.
“Che mai la tv si deve sostituire al tribunale. La tv deve raccontare storie. I processi si fanno da altre parti e chi fa un mestiere come il nostro deve pensare principalmente alle vittime”.
Ti abbiamo visto anche a Ballando con le stelle nelle vesti di concorrente. Come ti sei trovato?
“È’ stato puro divertimento. Amo le sfide e amo mettermi in gioco. Avevo una maestra tosta che mi faceva allenare 6 ore al giorno”.
Cosa ti hanno lasciato le conduzioni di”Estate in diretta” con Eleonora Daniele e “Domenica In” con Paola Perego?
“Sono due grandi professioniste e con tutte le donne con cui ho lavorato mi sono divertito molto”.
“Mi manda Raitre” possiamo definirlo un vero e proprio format di denuncia?
“Si, un programma di servizio pubblico. Aiutare i cittadini a risolvere dei problemi era qualcosa che mi faceva sentire utile”.
Come ti spieghi la decisione assunta dal direttore di rete, Franco Di Mare, di rimuoverti dalla conduzione dopo quattro stagioni consecutive in cui “Mi manda Raitre” andava per la maggiore?
“Invidia personale. Di Mare è’ stato il peggiore direttore di Raitre, umanamente una delusione. Mi ha tolto un programma al massimo del successo solo per ripicca e senza mai incontrarmi o spiegarmi le motivazioni. Ora vedo che si trova al centro di una brutta storia di molestie tirata fuori da Striscia la notizia, e a uno che tocca il fondoschiena di una collega in tv e dice che è uno scherzo, cosa vuoi dire? Provi solo umana pietà”.
Perché è stato deciso di non mandare più in onda le tue conduzioni, già registrate, di Palestre di vita su Rai tre?
“Non ne ho idea, per ripicca credo”.
Hai esplorato l’universo notturno in tutte le sue sfaccettature attraverso la conduzione del programma “Prima dell’alba”. Che esperienza è stata?
“Incredibile! Raccontare la notte e i lavori notturni era un mio pallino. Programma bellissimo ma faticoso, non ho dormito per settimane ma mi sono divertito molto ed e’ stato un grande successo”.
Da due anni, assieme ad Anna Falchi, conduci i “Fatti Vostri” su Rai 2, lo storico programma ideato da Michele Guardì e Giovanna Flora.
“I Fatti Vostri e’ un vestito che ho cercato di cucirmi addosso. Con Michele e Giovanna c’è un rapporto di grande stima e di amicizia ed e’ anche quella una grande palestra. Il programma mi stupisce perché ogni giorno racconti una storia diversa e ti affezioni a tutte”.
Ti piace l’imitazione che fa di te il tuo compaesano Sergio Friscia?
“Molto ma anche quella di Fiorello. Non mi prendo mai troppo sul serio”.
Che Sicilia immagini nel prossimo futuro? “Un posto dove godermi la pensione”.
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Angelo Famao, il neomelodico gelese che canta l’amore
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1 Giugno 2023
Un calendario fitto di impegni che lo vedrà indiscusso protagonista fino al prossimo 10 settembre, data in cui si esibirà a Montemurro, in provincia di Potenza. Basilicata, Campania, Lazio, Molise, Calabria e Sicilia figurano nel tour “Un’altra estate insieme!”, partito lo scorso 25 aprile da San Marco Argentano, nel Cosentino. E le date sono in continuo aggiornamento.
Si profila, nuovamente, il tutto esaurito per vedere dal vivo l’astro nascente della musica neomelodica napoletana, dopo i successi ottenuti lo scorso autunno/inverno in Germania, Svizzera e Francia. Il gelese Angelo Famao, 27 anni, spopola anche sul web con più di 90 milioni di visualizzazioni su Youtube con il brano “Tu si a fine do munno” e oltre 30 milioni di ascolti su Spotify. Su Instagram ha da poco superato i 325 mila follower. Un successo che ultimamente gli ha portato in dote il disco di platino per avere raggiunto il traguardo delle 100 mila copie vendute, dopo avere conquistato, anni prima, il disco d’oro.
“Tutto meritato, perché ho sempre creduto a quello che facevo. I sacrifici che ho fatto sono stati ampiamente riconosciuti…Certe volte mi stupisco di me stesso ma guardando indietro penso a tutto ciò che ho messo in campo per ottenere il giusto riconoscimento. Notti insonni, scrivere e riscrivere un brano, trovare le parole giuste. Beh, non è stato facile ma sono stato testardo e ce l’ho fatta. La meritocrazia paga sempre”.
Quando si ottiene qualcosa, c’è sempre una dedica particolare
“Assolutamente si. Dedico tutto quello che faccio ai miei genitori, i quali hanno sempre creduto nelle mie potenzialità canore, e ai miei più stretti collaboratori”.
Qual è l’emozione più grande?
“Vedere il pubblico che canta con me e che di me è innamorato. Li abbraccio uno ad uno…”
Con un diploma tecnico di meccatronico in tasca, avresti potuto fare altro nella vita ed invece hai scelto la musica. Come è scattata la scintilla?
“Ho sempre avuto la passione per la musica ed in particolar modo per quella napoletana. Fin da piccolo, mio padre mi faceva ascoltare i brani neomelodici e nella nostra casa, nel quartiere Settefarine, era una festa continua. Cantavamo a squarciagola, non ci fermavamo mai. Uno spettacolo”.
Chi dei cantanti partenopei ti piaceva ascoltare, in quegli anni?
“Uno su tutti: Gianni Vezzosi. Io ero completamente pazzo delle sue canzoni. Un idolo”.
Ma la tua carriera, come e dove nasce?
“Cinque anni fa, mi sono trasferito a Catania e ho avuto la fortuna di conoscere numerosi impresari del settore. C’è chi ha puntato ad occhi chiusi su di me e adesso siamo qui”.
Bravura o fortuna?
“La fortuna aiuta gli audaci. Io non ho mai smesso di crederci. Poi una mano è giunta anche da lassù…”
Credente?
“Da sempre. Prego continuamente!”
Ci sono canzoni neomelodiche che esaltano la malavita, in una sorta di Sanremo che strizza l’occhio ai criminali. Perché accade anche questo?
“E’ un ambito che non mi interessa. Io canto l’amore, quello sano, genuino. Poi ognuno è libero di fare ciò che vuole. Posso dire con assoluta sincerità che io non lo faccio…”
Come prendono forma le tue canzoni?
“Non c’è un vero e proprio standard da seguire. Personalmente mi colpisce un episodio, un tema, un fatto e da li prendo spunto per scrivere. Per non andare molto lontani: una personale relazione sentimentale interrotta, mi ha dato l’input per mettere su un pezzo…I testi musicali nascono cosi, anche e soprattutto quando attraversi un periodo assai difficile della tua vita”.
Accennavi ai sentimenti. Fidanzato?
“Diciamo che ho diverse storie….(ride)”
La tua ragazza ideale?
“Devo ancora capirlo”.
I tuoi video clip, sono girati prevalentemente a Gela…
“Credo che sia giusto e doveroso nei confronti della mia città. Io a Gela ci abito (sta ultimando di ristrutturare casa, ndr) e sono attorniato da belle persone. E’ vero che ci sono dei difetti, ma quest’ultimi li trovi dappertutto. A Gela, purtroppo, sono più vistosi. Sfido chiunque però ad avere un mare ed una spiaggia come quelle nostre. Sono un incanto”.
Dicevi dei difetti, delle problematiche che interessano Gela. Rivolgendoti alla classe politica che ci amministra, cosa vuoi dire?
“Uno degli interventi che bisognerebbe portare a compimento, riguarda il porto. Renderlo fruibile, sarebbe un toccasana per tutti. Cosi facendo, si incrementerebbe il turismo e ci sarebbe più lavoro per chi opera nel settore alberghiero e della ristorazione e tanti giovani non lascerebbero la propria città perché impegnati a lavorare in quegli ambiti”.
Economicamente, cantare è redditizio?
“Non posso lamentarmi”.
Qual è il rammarico più grande che ti porti dietro?
“Ogni esperienza ti fa crescere, ti rende forte, ti rende uomo. Ci sono stati episodi, in ambito professionale, che ti lasciano il segno ma l’importante è non ricadere negli stessi errori”.
Cosa consigli ai ragazzi che vogliono entrare a far parte del mondo musicale?
“Di non arrendersi mai, di insistere e di credere in se stessi. Così come ho fatto io. I sacrifici saranno ricompensati. Bisogna avere fede”
Buongustaio?
“Mangio di tutto ma la pizza rimane al primo posto”.
Come ti vedi tra dieci anni?
“Più rilassato, più maturo. Attualmente mi definisco molto vivace, un’anima libera…Spero di mettere su famiglia”.
Nelle tappe del tuo tour, al momento, non c’è Gela. Come mai?
“Ci stiamo lavorando e se tutto andrà bene, sarà a “fine do munnu…”
I suoi fans locali non vedono l’ora. Intanto lo lasciamo alla sua pizza napoletana sfornata a Gela. Il binomio perfetto è servito.
Ipse Dixit
Il giudice Tona: a Gela la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia
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1 mese fail
1 Maggio 2023
Da quasi 10 anni a questa parte, compone la prima sezione penale della Corte d’Appello di Caltanissetta, svolgendo il suo lavoro con maniacale attenzione ai dettagli e in ossequio alle procedure previste dal codice.
“Lo Stato è di chi lo vive. Conoscere per scegliere liberamente e con consapevolezza”. Quasi come un monito, perentorio, il giudice Giovanbattista Tona, lo ripete spesso e volentieri, soprattutto quando incontra i giovani studenti.
In magistratura dal 1996, oltre ai numerosi procedimenti giudiziari che portano la sua firma, ha svolto seminari e lezioni nelle università di Palermo, Messina, Reggio Calabria, Cosenza, Bologna e Milano. E continua ad essere invitato per disquisire sul tema del diritto penale. Svolgendo le funzioni di coordinatore per la corte d’Appello, si occupa inoltre di formazione dei magistrati e dei giovani laureati in tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari.
Dottore Tona, come sta la magistratura italiana?
“Sta in cammino lungo strade impervie e dalle direzioni incerte. Cerca di fare bene con i mezzi limitati che ha e quando non ci riesce deve essere pronta ad essere accusata di tutto. Nel frattempo in questi anni non ha mancato di farsi male da sola”.
D’accordo con la riforma Cartabia?
“Non è un giudice a dover essere d’accordo con leggi. Devono essere le leggi a riuscire ad andare d’accordo con gli obiettivi che vogliono perseguire e soprattutto con la Costituzione che è la Legge fondamentale. Semmai il giudice, applicando le leggi, deve cercare tutti i modi possibili per farle andare d’accordo con quegli obiettivi e con questa Costituzione. Con la riforma Cartabia non sarà sempre facile ma ci dobbiamo provare”.
Da Cartabia a Nordio. Qual è il suo giudizio sull’attuale ministro della giustizia?
“Dare un giudizio su un Ministro significa dare un giudizio politico. E un magistrato è sempre opportuno che si astenga dal dare giudizi politici, anche se finiscono per riguardare comunque un altro magistrato”.
Cosa ne pensa di quei magistrati che hanno svestito la toga per sposare la politica?
“Mi stupisco che se ne parli tanto con scandalo come se fosse un problema dei tempi nostri. Ci sono magistrati passati alla politica e partiti politici che hanno candidato magistrati sin dall’Unità d’Italia, con tutti i regimi e con tutte le maggioranze. E mi pare che la cosa accada in molti altri paesi del mondo, anche molto ben orientati in tema di separazione dei poteri. Tuttora – se si guardano le cose senza pregiudizi – si possono vedere frequenti situazioni in cui forze politiche, pur preoccupate dei rischi di politicizzazione della magistratura, candidano magistrati o ex magistrati o affidano loro compiti di governo. Questo mi fa pensare che finché il problema viene affrontato così o non è un problema o non si può risolvere”.
Le hanno mai chiesto di entrare in politica?
“È capitato più spesso che negli ambienti delle nostre periferie sia circolata la voce che entrassi in politica, senza che nessuno me lo avesse chiesto. E già questo è un buon motivo per sottrarsi ad esperienze per le quali comunque non è detto che si sia all’altezza”.
Per dieci anni (dal 2000 al 2010), ha svolto sia la funzione di Gip che di Gup al tribunale di Caltanissetta. Quale dei due incarichi è più difficile e per quale motivo?
“Non ci sono funzioni giurisdizionali che si possano dire facili o meno difficili se non peccando di superficialità. Ma senz’altro il giudice per le indagini preliminari svolge il delicato ruolo del giudice terzo nella fase in cui il processo non è ancora iniziato; le sue scelte possono dare un indirizzo di equilibrio alle attività del pubblico ministero quando ancora le indagini non sono concluse ma si può incidere sulla tutela dei diritti delle persone coinvolte e si deve preservare l’utilità degli accertamenti. È un chirurgo con i ferri in mano mentre la diagnosi si sta ancora facendo a cuore aperto”.
Dal 2013 è componente della prima sezione penale della corte d’appello di Caltanissetta. Di cosa si occupa prevalentemente?
“Ci si occupa di tutti i processi penali relativi a reati gravi e meno gravi delle province di Caltanissetta e di Enna, senza alcuna distinzione di materia o di complessità; quelli che i media ritengono importanti al pari di quelli che comunque noi siamo abituati a considerare importanti perché tali sono per le persone coinvolte. In un mondo in cui sembra che per essere bravi bisogna essere specializzati noi dobbiamo imparare ad essere bravi senza essere specializzati. E ci conforta quella famosa frase di George Bernard Shaw: “lo specialista è colui che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di niente”.
Come, in alcuni contesti territoriali, può essere definitivamente debellato il patto di ferro tra politica e criminalità?
“Mai la criminalità finirà di cercare accordi con la politica. Solo quando e se la politica li rifiuterà non ci saranno più questi accordi. Ma se sopravvivono i patti di ferro di cui lei parla, bisognerà attivarsi, con leggi ben fatte e con le necessarie iniziative giudiziarie, perché si arrugginiscano e si inceppino”.
Perché il giovane è appetibile dalle famiglie mafiose?
“Perché i giovani sono energia e passione; averli a loro servizio per le famiglie mafiose significa incatenare le loro energie e le loro passioni e alimentare con esse il proprio potere. Se i giovani invece riescono ad essere liberi dal bisogno e dai miraggi che il mondo criminale propone, allora possono impiegare i loro talenti per il loro futuro e per quello delle loro comunità”.
Con il Pnrr arriveranno tantissimi soldi. Si sa, quando c’è denaro, la criminalità accende i fari…Come e dove bisogna intervenire per evitare tutto ciò?
“Mi piacerebbe dare una risposta semplice ma il problema è complesso. Nel dibattito pubblico da una parte c’è chi reclama l’intensificarsi dei controlli e dall’altra chi lamenta che troppi controlli costano e ostacolano la realizzazione delle opere pubbliche. L’esperienza giudiziaria invece mostra che il cuore del problema non sta in quanti controlli si fanno ma nel come si fanno”.
Lei conosce bene l’ambiente di Gela per averci lavorato sia in fase inquirente che giudicante. Perché si delinque?
“Nel 2004 il prof. Stefano Becucci, sociologo dell’università di Firenze, svolse un’analisi accurata sul territorio di Gela e intitolò il suo saggio “La città sospesa”. Sintetizzava così la condizione di una città che rimaneva a mezz’aria in un’evoluzione che non riusciva mai a compiersi del tutto: da centro agricolo ad area altamente industrializzata, da luogo di storia e archeologia a scenario di stabilimenti ed impianti chimici, da terra di mafia a terra di antimafia, prospettive di trasformazione spesso promesse e mai del tutto realizzate. In questa sospensione in cui spesso non si trova una sintesi si alimentano contraddizioni, inefficienze, arroganze e frustrazioni. Mi pare che questa chiave di lettura spieghi molte cose anche oggi, in cui tante promesse che vent’anni fa sembravano ancora un orizzonte raggiungibile, ora hanno lasciato nei cittadini gelesi tanta disillusione”.
Nonostante, in tutti questi anni, le innumerevoli operazioni di polizia giudiziaria e le successive condanne penali, i clan mafiosi gelesi (è quanto emerge dalle cronache) sono sempre attivi. Come se lo spiega?
“Se si taglia la gramigna senza mai bonificare il terreno, si continuerà sempre a tagliare gramigna. Senza purtroppo potere raccogliere altro di buono. Se le cosche, nonostante non abbiano il potere di un tempo, nonostante non garantiscano gli ingenti guadagni di una volta e nonostante non offrano concrete prospettive di impunità, trovano sempre persone disponibili alla militanza, alla mera alleanza o compiacenza, forse allora bisogna ammettere che per sconfiggere la mafia ci sono anche altri fenomeni di cui occuparsi. A Gela, come anche in tutta Italia e in diversi Stati europei, la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia e vi prospera; segue le prassi già distorte della vita sociale e del mercato, intuisce prima degli altri le opportunità, offre servizi, promette appoggi, semplifica con la violenza le complessità, crea alleanze opache e informali per risolvere conflitti e con il suo agire quotidiano alimenta relazioni in cui nemmeno più si riconosce il confine tra l’illegalità diffusa e la mafia vera e propria, in un sistema comunque efficiente e attraente capace di sopravvivere agli interventi repressivi e di sostituire velocemente i singoli che incappano nella costante attività repressiva dello Stato. Che purtroppo, nonostante l’impegno di molti suoi uomini e la crescita della consapevolezza in ampi strati della società gelese, laboriosa e ricca di intelligenze, non riesce ancora ad intercettare la fiducia dei cittadini”.
Perché a Gela è così frequente il fenomeno degli incendi dolosi?
“È il segno di una delle debolezze della società di cui parlavamo prima. L’incapacità di dare sfogo civile, oltre che legale, ai conflitti genera fenomeni come questi. L’incendio doloso diventa strumento di regolamento di conti, dalle questioni private alle contese sugli affari illeciti. Spesso non sono opera di mafia ma sono modalità di cui la mafia si può avvalere più facilmente se le sa usare chiunque”.
Nel 2010, un gruppo di fuoco della mafia gelese era pronta ad ucciderla, “colpevole” di avere comminato pene agli affiliati del clan. Tempestivi, in quell’occasione, furono gli arresti immediati eseguiti dalla Polizia, che scongiurano l’episodio. Quando è venuto a conoscenza del progetto criminoso, cosa ha provato?
“Sulle prime i sentimenti sono stati di sorpresa. Si sa che sono cose che con il nostro lavoro possono succedere ma quando succedono veramente ci si rende conto che, senza mai dirlo a se stessi, si era sempre pensato che non sarebbero mai accadute. Subito dopo sono subentrati pensieri di gratitudine per chi ha svolto le investigazioni ed è intervenuto tempestivamente, e soprattutto per tutti coloro i quali hanno perso la vita per noi quando ancora il contrasto alla criminalità mafiosa non aveva raggiunto livelli tali da riuscire ad impedire per tempo le sue azioni violente”.
Lei vive costantemente sotto scorta. Cosa si sente di dire ai suoi angeli custodi?
“A loro dico sempre due cose: “grazie” e “bisogna avere pazienza”. La seconda la dico anche a me stesso”.
Ha mai avuto paura?
“Mi basta pensare alle tante persone che ne potrebbero avere ben più di me e non la fanno mai prevalere, per capire come devo comportarmi”.
Denunciare conviene?
“Non denunciare certamente crea più danni e più rischi di quelli che, non denunciando, si crede di evitare”.
La giustizia è proprio giusta?
“Se si riferisce alla giustizia amministrata nei tribunali, quella è una giustizia umana e come tale vive anche di limiti e di errori. Quindi spesso può dare l’impressione di non essere giusta o può effettivamente non esserlo. Però se la giustizia pretende di non essere umana, ma di essere infallibile, formale, rigida, efficientista, perfezionista e insomma, in una parola, sovrumana, allora sì che potremmo avere la certezza che sarà sempre ingiusta”.
Ipse Dixit
“In Sicilia più salite che discese”. Gino Astorina punta sull’energia dei giovani
Pubblicato
2 mesi fail
1 Aprile 2023
Da oltre trent’anni è protagonista incontrastato della scena teatrale siciliana. La sua comicità è sempre influente e i temi che porta in scena rispecchiano la realtà di quel preciso momento. Attuale, contemporaneo, senza retorica. E senza bavaglio. Disquisendo con Gino Astorina, si tocca con mano la minuziosa sottigliezza che lo caratterizza. Da sempre.
Com’è nata la passione (poi trasformatasi in lavoro) per lo spettacolo?
“Casualmente come tutte le cose. Già in oratorio ho cominciato a muovere i primi passi (classica compagnia amatoriale della parrocchia), poi al liceo, quando ho scoperto che in classe c’erano altri “folli” che amavano il teatro come me”.
Hai pure creato un teatro che prende il nome del gruppo “Il Gatto blu”. Ma cos’è “Il Gatto blu” e perché la scelta di questo nome?
“Il Gatto blu nasce come nome di un gruppo cabarettistico (ultimo anno poco prima del diploma, nel 1976) per poi diventare il nome della sala (Hàrpago in verità) dove ci esibiamo. Il nome è quanto di più strano poteva accaderci. La nostra prima sala aveva bisogno di una imbiancata, la classica bella mano di colore per non far vedere i buchi e le macchie sul muro. Comprammo il colore che costava meno e durante la prima passata, notammo di avere dimenticato la latta aperta…Bene, un gatto ha pensato di macchiarsi le zampine lasciando le orme per tutto il pavimento. Invece di scoraggiarci, trovammo il nome del gruppo”.
Sei d’accordo se scrivo che il teatro, così come un campo da calcio, una palestra, una sala di incisione, deve rappresentare un punto di riferimento, soprattutto per i giovani?
“Certissimamente! Questi luoghi hanno il dovere di accogliere l’energia dei giovani affinché possano esprimersi al meglio”.
Rimanendo in tema di giovani: perché in tanti (troppi), dopo avere conseguito il diploma, scappano via dalla Sicilia?
“La risposta potrebbe essere ovvia e scontata: per mancanza di prospettive e di futuro, non ultima l’assenza di strutture che consentano di poter realizzare i propri sogni. Ma non è sempre così. A volte si ha voglia di cambiare aria, di scoprire qualcosa di diverso, ma se riusciamo a non essere provinciali si va via dalla Sicilia perché ci sono più salite che discese”
Perché è ancora così evidente la differenza (soprattutto in ambito occupazionale) tra Nord e Sud Italia?
“Questa è una domanda dalle mille risposte e tutte plausibili. Perché conviene, per poter gestire meglio il parco voti, per avere un’area sviluppata ed una depressa è così che funziona l’economia, perché come dicevano i latini divide et impera!”
La Sicilia potrebbe vivere solo di turismo, avviando un connubio tra diretto e indotto. In pochi, però, si spendono per questo. Qual è secondo te il motivo?
“Copia ed incolla la risposta che ti ho dato prima!”
Dopo fiumi di parole, adesso c’è il via libera del governo sulla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Favorevole?
“Si, purché si faccia! E non rimanga solo un progetto da rivangare o eliminare col prossimo governo”.
Per la prima volta c’è una donna alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Qual è il tuo giudizio su Giorgia Meloni?
“Troppo poco tempo per giudicare, posso solo dire che dev’essere molto brava a difendersi dal fuoco… amico!”
Cosa provi quando la Sicilia viene etichettata solo ed esclusivamente come terra di mafia?
“Meschinità per chi fa di tutta l’erba un fascio. E’ senza dubbio un disagiato”.
Sei stato più volte a Gela per una serie di spettacoli. Cosa ti ha colpito in particolare della città e dei gelesi?
“Che rappresenta in pieno la Sicilia nel bene e nel male, nella bellezza, nella solarità, nell’indolenza, nell’attesa che qualcuno venga a risolvere i propri problemi. Nella genialità di fare di necessità virtù”.
Se tornassi indietro nel tempo, rifaresti le stesse cose in ambito professionale?
“Credo di si, non perché abbia fatto tutto bene, anzi!!! Ma non conoscendo le conseguenze…”
Cosa avresti voluto portare in scena ma per una serie di circostanze, non sei riuscito?
“Avevo programmato per i trent’anni della nostra sala, uno spettacolo di trenta ore consecutive, con l’intervento di tutti quegli amici che ci avevano onorato della loro presenza durante questi anni. Avevo già preso i contatti e le ore di esibizione… l’anniversario cadeva a marzo del 2020 (in piena pandemia)…vuol dire che festeggeremo per 35 ore!”
Chi ritieni sia stato negli anni il migliore attore teatrale siciliano e perché?
“Dovremmo fare un distinguo per epoca… Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro… non mi sento di nominarne solo uno, è come dire del miglior giocatore al mondo parlando di Maradona senza ricordare Pelè”
Qual è il rapporto che hai con i tuoi omologhi?
“Terapeutico! Racconto delle mie ansie, delle mie fobie, perciò se il pubblico ride vuol dire che non sono solo ed in più ho risparmiato soldi dell’analista”.
Com’è nata la collaborazione cinematografica con Ficarra e Picone?
“C’eravamo conosciuti anni prima a Palermo perché facevamo una trasmissione curata da Gianni Nanfa ed Ignazio Mannelli dal nome Grand’hotel cabaret, poi loro hanno avuto l’opportunità di girare il primo film “Nati stanchi” ed io l’opportunità di interpretare un sindaco a metà tra il sognatore l’imbonitore”.
Divertente la tua interpretazione del commissario di Polizia nel film “La Matassa”. Esilaranti soprattutto le gag con Gaetano Pappalardo, nelle vesti del poliziotto tuttofare. Si percepisce che tra voi due c’è una vera e propria amicizia…
“Si, ma anche tanti anni di televisione fatta insieme. Poi, quando ci si diverte tutto viene più semplice e facile. Ed in quel film ci siamo divertiti veramente tanto”.
Nella serie “Incastrati” su Netflix, sei il dottor Tantillo, medico al servizio del boss. Sovente, le cronache raccontano che tutto ciò accade anche nella realtà. Come ti spieghi questa commistione?
“Nella vita purtroppo la realtà supera la fantasia e quando scrivi una sceneggiatura, stai attento a non esagerare per rendere credibile la storia, ma poi sei puntualmente smentito dai fatti di cronaca che superano in grottesco e di gran lunga l’inventiva”.
Con chi ti sarebbe piaciuto lavorare?
“Avrei un elenco telefonico di nomi con i quali avrei voluto lavorare, ma l’età anagrafica non me l’ha consentito. E poi chi l’ha detto che loro avrebbero voluto lavorare con me???”
Che genere musicale ascolti?
“Tutti, amo la musica in generale, però se devo rilassarmi, pensare, cominciare a scrivere qualcosa, non trovo niente di meglio che ascoltare i Beatles nella versione della London Symphony Orchestra”.
Il Catania ha stravinto il campionato di serie D. Dopo tante amarezze, adesso c’è un’alba nuova. L’effetto Pelligra ha funzionato. Sarai strafelice, credo…
“E’ chiaro, spero che questo successo calcistico possa fungere da volano per un’altra promozione…”
Quale?
“Quella della mia città. Catania, in questo momento, si trova nei bassifondi di una classifica che mortifica tutti noi. E c’è poco da ridere. Anzi…”

Centrodestra tutto da costruire. Ascolta #2minuti2 di Maria Concetta Goldini

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