Ipse Dixit
Il mondo incantato di Alberto Ferro, nella magia della musica
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5 mesi fail

Pochi giorni addietro, ha deliziato la platea del teatro comunale Eschilo in una performance coinvolgente. Gli applausi scroscianti e sinceri lo hanno emozionato. Perché – è risaputo – quando un gelese perbene ritorna nella propria città d’origine, è accolto come una star. Alberto Ferro, prossimo ai 27 anni, è un ragazzo schivo, umile e senza fronzoli per la testa. Innamorato della propria famiglia (papà Giovanni e mamma Marisa) e della sua terra, in ogni concerto dà il meglio di sé, riscuotendo innumerevoli consensi, abbondantemente meritati. Chi lo ascolta, entra in un mondo incantato, assoluto protagonista di un viaggio senza fermate, accompagnato solo dalle note. E dalla magia. Il suo nome circola da parecchi anni nel firmamento internazionale della musica colta: dal Copenaghen Summer Festival alle Settimane Musicali di Ascona in Svizzera; dal Kissinger Sommer al Brussels Piano Festival; dal teatro La Fenice di Venezia al Museo d’arte di Tel Aviv, solo per citarne alcune, è stato un crescendo di entusiasmo. Ha lavorato, tra gli altri, con i più grandi direttori d’orchestra: Arvo Volmer, Christian Zacharias, Paul Meyer e Marco Parisotto. Sempre accanto a quello che lui stesso definisce il “suo interlocutore diretto”: il pianoforte.
Come vengono scelti ed elaborati i brani che proponi al pubblico?
“Generalmente, scelgo composizioni stilisticamente diverse, prediligendo in particolare la scelta di una sonata classica, almeno una composizione romantica e una moderna, a volte anche qualche trascrizione”.
Cosa ti lega alla musica colta?
“Tutto, la mia vita si svolge intorno alla musica e al pianoforte. Grazie alla musica sto maturando esperienze, esplorando il mondo, conoscendo tanta gente. Ho scelto di vivere con la musica perché essa è il miglior modo per esprimere le mie emozioni e le mie sensazioni. Penso che la musica colta sia il genere artistico più formativo nell’educazione umana, perché permette di studiare e approfondire il periodo storico del compositore e ciò che il compositore stesso voleva trasmettere. Inoltre la musica colta fa avvicinare l’uomo alla natura”.
Custode del diploma accademico di secondo livello con il massimo dei voti e la lode, conseguita all’istituto Superiore di Studi Musicali “Vincenzo Bellini” di Catania, hai frequentato numerosi corsi di perfezionamento con pianisti di grosso calibro quali Richard Goode, Vladimir Ashkenazy e Dina Yoffe. Perché hai scelto proprio il pianoforte tra un’infinità di strumenti musicali?
“Mia madre si è diplomata in pianoforte, quindi ho avuto da sempre un approccio naturale allo studio. Attraverso il pianoforte posso manifestare una varietà di stati d’animo e sfumature”.
Qual è stato il momento in cui hai capito che la strada intrapresa era quella giusta?
“Quando vinsi il Secondo Premio al Concorso Busoni di Bolzano nel 2015. È stato un importantissimo trampolino di lancio che mi ha fatto intraprendere una carriera internazionale”.
Ci sono stati passaggi in cui hai pensato di mollare tutto?
“Soltanto da bambino ho avuto qualche volta dei momenti di demotivazione, ma attraverso lo stimolo dei miei genitori e grazie alla guida del mio maestro sono riuscito a superare questi momenti, che penso abbiano avuto in molti”.
Qual è il brano a cui sei più affezionato e perché?
“Il Concerto n. 2 di Bartók. Mi piace tantissimo la varietà tecnica e tematica all’interno di questo concerto. Sono presenti tanti episodi resi particolari da elementi ritmici e percussivi nel primo movimento, da atmosfere estatiche e sonorità fredde nel secondo. Infine nel terzo movimento predominano temi popolari ungheresi e filastrocche”.
C’è un concerto a cui sei particolarmente legato?
“Il mio recital alla Cappella Paolina del Palazzo del Quirinale di Roma del 5 marzo del 2017. Il concerto è stato trasmesso in diretta su Rai Radio 3 e attraverso i collegamenti Euroradio in molti paesi d’Europa. Cinque minuti prima di iniziare è arrivato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per assistere al mio concerto ed è stato ancora più emozionante esibirmi davanti a lui. Quando ho finito di suonare, si è alzato ed è venuto a complimentarsi, ringraziandomi per il concerto che avevo donato a lui e al pubblico”.
Non dirmi che in auto con la moglie Erika ascoltate Beethoven, Scriabin, Fauré…
“In realtà (ride) io e mia moglie ci spostiamo sempre con i mezzi pubblici, che funzionano molto bene a Palermo, dove viviamo…”
Con chi in tutti questi anni hai intessuto vere amicizie in ambito musicale?
“Vere amicizie sinceramente con nessuno. In generale conoscenze varie con altri strumentisti e direttori d’orchestra. Sono in ottimi rapporti anche con i miei colleghi di conservatorio a Palermo”.
Con chi ti piacerebbe suonare?
“Con i Berliner Philharmoniker”.
Perché un gelese riesce ad esplodere e ad affermarsi solo quando mette piede fuori dalla propria città?
“Perché purtroppo questa città può dare ben poco ai giovani. Sulla formazione scolastica non ci sono aspetti negativi; io personalmente mi vanto di aver studiato al Liceo Classico “Eschilo”, che penso sia uno dei licei più importanti in Italia. Il problema è che non ci sono sedi distaccate di Università statali, Conservatori, Accademie di Belle Arti. Certamente se Gela fosse provincia, le cose potrebbero cambiare in meglio. Pertanto, il gelese dopo gli studi scolastici è quasi costretto ad emigrare per specializzarsi e lavorare altrove”.
Qualcuno, in ambito locale, ti ha chiesto di entrare in politica?
“Fortunatamente nessuno!”
Il tuo auspicio per l’anno che è appena cominciato?
“Mi auguro di continuare a tenere concerti in tutto il mondo, con l’obiettivo di condividere la mia passione per la musica con il pubblico che mi segue”.
Il consiglio che rivolgi ai giovani della tua età?
“Ai miei coetanei consiglio di avere coraggio, di studiare tanto e di avere sempre fiducia in se stessi”.
Cosa dicono di Gela i tanti che incontri nei tuoi numerosi spostamenti in giro per l’Europa?
“In Europa Gela non è abbastanza conosciuta. Chi la conosce mi dice che a Gela c’è il mare più bello della Sicilia, e io confermo al 100%!”
Come te la immagini Gela nel prossimo futuro?
“Me la immagino più pulita, più ricca di cultura e più stabile dal punto di vista lavorativo. Ma forse io vivo di sogni…”
Ah proposito: il tuo sogno ricorrente?
“Debuttare alla Filarmonica di Berlino, alla Carnegie Hall di New York e al Teatro alla Scala di Milano”.
Mi auguro che nella tua vita frenetica in ambito musicale, possa trovare spazio e tempo per concentrarti sulla lettura. L’ultimo libro che hai letto?
“La musica è un tutto. Etica ed estetica” di Daniel Barenboim”.
Quasi fisiologico, aggiungiamo…
Invece in cucina sei una buona forchetta? “Sì, da sempre. Mangio di tutto!”
E il tuo piatto preferito?
“Le lasagne alla bolognese”.
Hai vinto numerosi premi in concorsi nazionali ed internazionali. Ricordiamo il 1’ premio a Venezia nel 2015, il 6’ premio e il premio del pubblico al “Regina Elisabetta di Bruxelles” nel 2016, il premio come finalista e il premio Children’s Corner al “Clara Haskil” di Vevev e il 1’ premio e il premio del pubblico al “Telekom – Beethoven” di Bonn. Nel 2016 e nel 2017, hai ricevuto la medaglia della Camera dei Deputati, quale riconoscimento per il tuo talento artistico e per i successi ottenuti. Per tutto questo e per tutto quello che avverrà nel prossimo futuro, c’è un grazie che vuoi estendere?
“Si! A mia moglie, ai miei genitori e al mio maestro Epifanio Comis che mi sostengono sempre”.
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Ipse Dixit
Il giudice Tona: a Gela la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia
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4 settimane fail
1 Maggio 2023
Da quasi 10 anni a questa parte, compone la prima sezione penale della Corte d’Appello di Caltanissetta, svolgendo il suo lavoro con maniacale attenzione ai dettagli e in ossequio alle procedure previste dal codice.
“Lo Stato è di chi lo vive. Conoscere per scegliere liberamente e con consapevolezza”. Quasi come un monito, perentorio, il giudice Giovanbattista Tona, lo ripete spesso e volentieri, soprattutto quando incontra i giovani studenti.
In magistratura dal 1996, oltre ai numerosi procedimenti giudiziari che portano la sua firma, ha svolto seminari e lezioni nelle università di Palermo, Messina, Reggio Calabria, Cosenza, Bologna e Milano. E continua ad essere invitato per disquisire sul tema del diritto penale. Svolgendo le funzioni di coordinatore per la corte d’Appello, si occupa inoltre di formazione dei magistrati e dei giovani laureati in tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari.
Dottore Tona, come sta la magistratura italiana?
“Sta in cammino lungo strade impervie e dalle direzioni incerte. Cerca di fare bene con i mezzi limitati che ha e quando non ci riesce deve essere pronta ad essere accusata di tutto. Nel frattempo in questi anni non ha mancato di farsi male da sola”.
D’accordo con la riforma Cartabia?
“Non è un giudice a dover essere d’accordo con leggi. Devono essere le leggi a riuscire ad andare d’accordo con gli obiettivi che vogliono perseguire e soprattutto con la Costituzione che è la Legge fondamentale. Semmai il giudice, applicando le leggi, deve cercare tutti i modi possibili per farle andare d’accordo con quegli obiettivi e con questa Costituzione. Con la riforma Cartabia non sarà sempre facile ma ci dobbiamo provare”.
Da Cartabia a Nordio. Qual è il suo giudizio sull’attuale ministro della giustizia?
“Dare un giudizio su un Ministro significa dare un giudizio politico. E un magistrato è sempre opportuno che si astenga dal dare giudizi politici, anche se finiscono per riguardare comunque un altro magistrato”.
Cosa ne pensa di quei magistrati che hanno svestito la toga per sposare la politica?
“Mi stupisco che se ne parli tanto con scandalo come se fosse un problema dei tempi nostri. Ci sono magistrati passati alla politica e partiti politici che hanno candidato magistrati sin dall’Unità d’Italia, con tutti i regimi e con tutte le maggioranze. E mi pare che la cosa accada in molti altri paesi del mondo, anche molto ben orientati in tema di separazione dei poteri. Tuttora – se si guardano le cose senza pregiudizi – si possono vedere frequenti situazioni in cui forze politiche, pur preoccupate dei rischi di politicizzazione della magistratura, candidano magistrati o ex magistrati o affidano loro compiti di governo. Questo mi fa pensare che finché il problema viene affrontato così o non è un problema o non si può risolvere”.
Le hanno mai chiesto di entrare in politica?
“È capitato più spesso che negli ambienti delle nostre periferie sia circolata la voce che entrassi in politica, senza che nessuno me lo avesse chiesto. E già questo è un buon motivo per sottrarsi ad esperienze per le quali comunque non è detto che si sia all’altezza”.
Per dieci anni (dal 2000 al 2010), ha svolto sia la funzione di Gip che di Gup al tribunale di Caltanissetta. Quale dei due incarichi è più difficile e per quale motivo?
“Non ci sono funzioni giurisdizionali che si possano dire facili o meno difficili se non peccando di superficialità. Ma senz’altro il giudice per le indagini preliminari svolge il delicato ruolo del giudice terzo nella fase in cui il processo non è ancora iniziato; le sue scelte possono dare un indirizzo di equilibrio alle attività del pubblico ministero quando ancora le indagini non sono concluse ma si può incidere sulla tutela dei diritti delle persone coinvolte e si deve preservare l’utilità degli accertamenti. È un chirurgo con i ferri in mano mentre la diagnosi si sta ancora facendo a cuore aperto”.
Dal 2013 è componente della prima sezione penale della corte d’appello di Caltanissetta. Di cosa si occupa prevalentemente?
“Ci si occupa di tutti i processi penali relativi a reati gravi e meno gravi delle province di Caltanissetta e di Enna, senza alcuna distinzione di materia o di complessità; quelli che i media ritengono importanti al pari di quelli che comunque noi siamo abituati a considerare importanti perché tali sono per le persone coinvolte. In un mondo in cui sembra che per essere bravi bisogna essere specializzati noi dobbiamo imparare ad essere bravi senza essere specializzati. E ci conforta quella famosa frase di George Bernard Shaw: “lo specialista è colui che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di niente”.
Come, in alcuni contesti territoriali, può essere definitivamente debellato il patto di ferro tra politica e criminalità?
“Mai la criminalità finirà di cercare accordi con la politica. Solo quando e se la politica li rifiuterà non ci saranno più questi accordi. Ma se sopravvivono i patti di ferro di cui lei parla, bisognerà attivarsi, con leggi ben fatte e con le necessarie iniziative giudiziarie, perché si arrugginiscano e si inceppino”.
Perché il giovane è appetibile dalle famiglie mafiose?
“Perché i giovani sono energia e passione; averli a loro servizio per le famiglie mafiose significa incatenare le loro energie e le loro passioni e alimentare con esse il proprio potere. Se i giovani invece riescono ad essere liberi dal bisogno e dai miraggi che il mondo criminale propone, allora possono impiegare i loro talenti per il loro futuro e per quello delle loro comunità”.
Con il Pnrr arriveranno tantissimi soldi. Si sa, quando c’è denaro, la criminalità accende i fari…Come e dove bisogna intervenire per evitare tutto ciò?
“Mi piacerebbe dare una risposta semplice ma il problema è complesso. Nel dibattito pubblico da una parte c’è chi reclama l’intensificarsi dei controlli e dall’altra chi lamenta che troppi controlli costano e ostacolano la realizzazione delle opere pubbliche. L’esperienza giudiziaria invece mostra che il cuore del problema non sta in quanti controlli si fanno ma nel come si fanno”.
Lei conosce bene l’ambiente di Gela per averci lavorato sia in fase inquirente che giudicante. Perché si delinque?
“Nel 2004 il prof. Stefano Becucci, sociologo dell’università di Firenze, svolse un’analisi accurata sul territorio di Gela e intitolò il suo saggio “La città sospesa”. Sintetizzava così la condizione di una città che rimaneva a mezz’aria in un’evoluzione che non riusciva mai a compiersi del tutto: da centro agricolo ad area altamente industrializzata, da luogo di storia e archeologia a scenario di stabilimenti ed impianti chimici, da terra di mafia a terra di antimafia, prospettive di trasformazione spesso promesse e mai del tutto realizzate. In questa sospensione in cui spesso non si trova una sintesi si alimentano contraddizioni, inefficienze, arroganze e frustrazioni. Mi pare che questa chiave di lettura spieghi molte cose anche oggi, in cui tante promesse che vent’anni fa sembravano ancora un orizzonte raggiungibile, ora hanno lasciato nei cittadini gelesi tanta disillusione”.
Nonostante, in tutti questi anni, le innumerevoli operazioni di polizia giudiziaria e le successive condanne penali, i clan mafiosi gelesi (è quanto emerge dalle cronache) sono sempre attivi. Come se lo spiega?
“Se si taglia la gramigna senza mai bonificare il terreno, si continuerà sempre a tagliare gramigna. Senza purtroppo potere raccogliere altro di buono. Se le cosche, nonostante non abbiano il potere di un tempo, nonostante non garantiscano gli ingenti guadagni di una volta e nonostante non offrano concrete prospettive di impunità, trovano sempre persone disponibili alla militanza, alla mera alleanza o compiacenza, forse allora bisogna ammettere che per sconfiggere la mafia ci sono anche altri fenomeni di cui occuparsi. A Gela, come anche in tutta Italia e in diversi Stati europei, la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia e vi prospera; segue le prassi già distorte della vita sociale e del mercato, intuisce prima degli altri le opportunità, offre servizi, promette appoggi, semplifica con la violenza le complessità, crea alleanze opache e informali per risolvere conflitti e con il suo agire quotidiano alimenta relazioni in cui nemmeno più si riconosce il confine tra l’illegalità diffusa e la mafia vera e propria, in un sistema comunque efficiente e attraente capace di sopravvivere agli interventi repressivi e di sostituire velocemente i singoli che incappano nella costante attività repressiva dello Stato. Che purtroppo, nonostante l’impegno di molti suoi uomini e la crescita della consapevolezza in ampi strati della società gelese, laboriosa e ricca di intelligenze, non riesce ancora ad intercettare la fiducia dei cittadini”.
Perché a Gela è così frequente il fenomeno degli incendi dolosi?
“È il segno di una delle debolezze della società di cui parlavamo prima. L’incapacità di dare sfogo civile, oltre che legale, ai conflitti genera fenomeni come questi. L’incendio doloso diventa strumento di regolamento di conti, dalle questioni private alle contese sugli affari illeciti. Spesso non sono opera di mafia ma sono modalità di cui la mafia si può avvalere più facilmente se le sa usare chiunque”.
Nel 2010, un gruppo di fuoco della mafia gelese era pronta ad ucciderla, “colpevole” di avere comminato pene agli affiliati del clan. Tempestivi, in quell’occasione, furono gli arresti immediati eseguiti dalla Polizia, che scongiurano l’episodio. Quando è venuto a conoscenza del progetto criminoso, cosa ha provato?
“Sulle prime i sentimenti sono stati di sorpresa. Si sa che sono cose che con il nostro lavoro possono succedere ma quando succedono veramente ci si rende conto che, senza mai dirlo a se stessi, si era sempre pensato che non sarebbero mai accadute. Subito dopo sono subentrati pensieri di gratitudine per chi ha svolto le investigazioni ed è intervenuto tempestivamente, e soprattutto per tutti coloro i quali hanno perso la vita per noi quando ancora il contrasto alla criminalità mafiosa non aveva raggiunto livelli tali da riuscire ad impedire per tempo le sue azioni violente”.
Lei vive costantemente sotto scorta. Cosa si sente di dire ai suoi angeli custodi?
“A loro dico sempre due cose: “grazie” e “bisogna avere pazienza”. La seconda la dico anche a me stesso”.
Ha mai avuto paura?
“Mi basta pensare alle tante persone che ne potrebbero avere ben più di me e non la fanno mai prevalere, per capire come devo comportarmi”.
Denunciare conviene?
“Non denunciare certamente crea più danni e più rischi di quelli che, non denunciando, si crede di evitare”.
La giustizia è proprio giusta?
“Se si riferisce alla giustizia amministrata nei tribunali, quella è una giustizia umana e come tale vive anche di limiti e di errori. Quindi spesso può dare l’impressione di non essere giusta o può effettivamente non esserlo. Però se la giustizia pretende di non essere umana, ma di essere infallibile, formale, rigida, efficientista, perfezionista e insomma, in una parola, sovrumana, allora sì che potremmo avere la certezza che sarà sempre ingiusta”.
Ipse Dixit
“In Sicilia più salite che discese”. Gino Astorina punta sull’energia dei giovani
Pubblicato
2 mesi fail
1 Aprile 2023
Da oltre trent’anni è protagonista incontrastato della scena teatrale siciliana. La sua comicità è sempre influente e i temi che porta in scena rispecchiano la realtà di quel preciso momento. Attuale, contemporaneo, senza retorica. E senza bavaglio. Disquisendo con Gino Astorina, si tocca con mano la minuziosa sottigliezza che lo caratterizza. Da sempre.
Com’è nata la passione (poi trasformatasi in lavoro) per lo spettacolo?
“Casualmente come tutte le cose. Già in oratorio ho cominciato a muovere i primi passi (classica compagnia amatoriale della parrocchia), poi al liceo, quando ho scoperto che in classe c’erano altri “folli” che amavano il teatro come me”.
Hai pure creato un teatro che prende il nome del gruppo “Il Gatto blu”. Ma cos’è “Il Gatto blu” e perché la scelta di questo nome?
“Il Gatto blu nasce come nome di un gruppo cabarettistico (ultimo anno poco prima del diploma, nel 1976) per poi diventare il nome della sala (Hàrpago in verità) dove ci esibiamo. Il nome è quanto di più strano poteva accaderci. La nostra prima sala aveva bisogno di una imbiancata, la classica bella mano di colore per non far vedere i buchi e le macchie sul muro. Comprammo il colore che costava meno e durante la prima passata, notammo di avere dimenticato la latta aperta…Bene, un gatto ha pensato di macchiarsi le zampine lasciando le orme per tutto il pavimento. Invece di scoraggiarci, trovammo il nome del gruppo”.
Sei d’accordo se scrivo che il teatro, così come un campo da calcio, una palestra, una sala di incisione, deve rappresentare un punto di riferimento, soprattutto per i giovani?
“Certissimamente! Questi luoghi hanno il dovere di accogliere l’energia dei giovani affinché possano esprimersi al meglio”.
Rimanendo in tema di giovani: perché in tanti (troppi), dopo avere conseguito il diploma, scappano via dalla Sicilia?
“La risposta potrebbe essere ovvia e scontata: per mancanza di prospettive e di futuro, non ultima l’assenza di strutture che consentano di poter realizzare i propri sogni. Ma non è sempre così. A volte si ha voglia di cambiare aria, di scoprire qualcosa di diverso, ma se riusciamo a non essere provinciali si va via dalla Sicilia perché ci sono più salite che discese”
Perché è ancora così evidente la differenza (soprattutto in ambito occupazionale) tra Nord e Sud Italia?
“Questa è una domanda dalle mille risposte e tutte plausibili. Perché conviene, per poter gestire meglio il parco voti, per avere un’area sviluppata ed una depressa è così che funziona l’economia, perché come dicevano i latini divide et impera!”
La Sicilia potrebbe vivere solo di turismo, avviando un connubio tra diretto e indotto. In pochi, però, si spendono per questo. Qual è secondo te il motivo?
“Copia ed incolla la risposta che ti ho dato prima!”
Dopo fiumi di parole, adesso c’è il via libera del governo sulla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Favorevole?
“Si, purché si faccia! E non rimanga solo un progetto da rivangare o eliminare col prossimo governo”.
Per la prima volta c’è una donna alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Qual è il tuo giudizio su Giorgia Meloni?
“Troppo poco tempo per giudicare, posso solo dire che dev’essere molto brava a difendersi dal fuoco… amico!”
Cosa provi quando la Sicilia viene etichettata solo ed esclusivamente come terra di mafia?
“Meschinità per chi fa di tutta l’erba un fascio. E’ senza dubbio un disagiato”.
Sei stato più volte a Gela per una serie di spettacoli. Cosa ti ha colpito in particolare della città e dei gelesi?
“Che rappresenta in pieno la Sicilia nel bene e nel male, nella bellezza, nella solarità, nell’indolenza, nell’attesa che qualcuno venga a risolvere i propri problemi. Nella genialità di fare di necessità virtù”.
Se tornassi indietro nel tempo, rifaresti le stesse cose in ambito professionale?
“Credo di si, non perché abbia fatto tutto bene, anzi!!! Ma non conoscendo le conseguenze…”
Cosa avresti voluto portare in scena ma per una serie di circostanze, non sei riuscito?
“Avevo programmato per i trent’anni della nostra sala, uno spettacolo di trenta ore consecutive, con l’intervento di tutti quegli amici che ci avevano onorato della loro presenza durante questi anni. Avevo già preso i contatti e le ore di esibizione… l’anniversario cadeva a marzo del 2020 (in piena pandemia)…vuol dire che festeggeremo per 35 ore!”
Chi ritieni sia stato negli anni il migliore attore teatrale siciliano e perché?
“Dovremmo fare un distinguo per epoca… Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro… non mi sento di nominarne solo uno, è come dire del miglior giocatore al mondo parlando di Maradona senza ricordare Pelè”
Qual è il rapporto che hai con i tuoi omologhi?
“Terapeutico! Racconto delle mie ansie, delle mie fobie, perciò se il pubblico ride vuol dire che non sono solo ed in più ho risparmiato soldi dell’analista”.
Com’è nata la collaborazione cinematografica con Ficarra e Picone?
“C’eravamo conosciuti anni prima a Palermo perché facevamo una trasmissione curata da Gianni Nanfa ed Ignazio Mannelli dal nome Grand’hotel cabaret, poi loro hanno avuto l’opportunità di girare il primo film “Nati stanchi” ed io l’opportunità di interpretare un sindaco a metà tra il sognatore l’imbonitore”.
Divertente la tua interpretazione del commissario di Polizia nel film “La Matassa”. Esilaranti soprattutto le gag con Gaetano Pappalardo, nelle vesti del poliziotto tuttofare. Si percepisce che tra voi due c’è una vera e propria amicizia…
“Si, ma anche tanti anni di televisione fatta insieme. Poi, quando ci si diverte tutto viene più semplice e facile. Ed in quel film ci siamo divertiti veramente tanto”.
Nella serie “Incastrati” su Netflix, sei il dottor Tantillo, medico al servizio del boss. Sovente, le cronache raccontano che tutto ciò accade anche nella realtà. Come ti spieghi questa commistione?
“Nella vita purtroppo la realtà supera la fantasia e quando scrivi una sceneggiatura, stai attento a non esagerare per rendere credibile la storia, ma poi sei puntualmente smentito dai fatti di cronaca che superano in grottesco e di gran lunga l’inventiva”.
Con chi ti sarebbe piaciuto lavorare?
“Avrei un elenco telefonico di nomi con i quali avrei voluto lavorare, ma l’età anagrafica non me l’ha consentito. E poi chi l’ha detto che loro avrebbero voluto lavorare con me???”
Che genere musicale ascolti?
“Tutti, amo la musica in generale, però se devo rilassarmi, pensare, cominciare a scrivere qualcosa, non trovo niente di meglio che ascoltare i Beatles nella versione della London Symphony Orchestra”.
Il Catania ha stravinto il campionato di serie D. Dopo tante amarezze, adesso c’è un’alba nuova. L’effetto Pelligra ha funzionato. Sarai strafelice, credo…
“E’ chiaro, spero che questo successo calcistico possa fungere da volano per un’altra promozione…”
Quale?
“Quella della mia città. Catania, in questo momento, si trova nei bassifondi di una classifica che mortifica tutti noi. E c’è poco da ridere. Anzi…”
Ipse Dixit
“Alcuni gelesi sono poco propensi al rispetto delle leggi. Bisogna avere fiducia nella Polizia”
Pubblicato
3 mesi fail
1 Marzo 2023
Buterese di nascita ma gelese a tutti gli effetti, dall’agosto scorso dirige il Compartimento della Polizia Stradale della Sicilia Occidentale. Un ruolo di prim’ordine per il Questore Gaetano Cravana, in un vasto territorio in cui bisogna garantire, tra l’altro, la scorta per la sicurezza della circolazione e la tutela e il controllo sull’uso della strada. A tal proposito, un compito particolarmente importante dal punto di vista della prevenzione è quello “dell’educazione stradale” che viene fatta con il costante incontro con i giovani, presso le scuole di ogni ordine e grado. Gli incontri sono finalizzati, mediante la visione di immagini appropriate, a mettere in rilievo l’importanza del rispetto delle regole previste dal Codice, specie quelle che stabiliscono limiti di velocità o l’uso delle cinture di sicurezza o del casco e l’assoluto divieto di uso di alcool e droga. Sessantuno anni, sposato e padre di due figli, l’alto dirigente è in possesso di una laurea in giurisprudenza e nella vita avrebbe potuto fare altro.
Perché ha deciso di indossare la divisa della Polizia?
“Non dirò che fin da piccolo volevo fare il poliziotto. Ho conseguito la laurea in Giurisprudenza perché ero appassionato al diritto inteso come quel complesso di regole che disciplinano la società affinché questa funzioni in maniera armonica. Mi è sempre piaciuto il concetto di ordine e quello connesso di libertà individuale che può esprimersi appieno solo all’interno di una società ordinata e governata dalle regole. In questo senso avrei potuto fare con il medesimo entusiasmo anche il magistrato o l’avvocato. Ho fatto il poliziotto perché ho vinto il concorso per Vice Commissario, nel lontano 1989, e sono entrato in un mondo professionale di assoluto fascino e impegno”.
Primo incarico affidatole, nel 1990, è stato quello presso l’Ufficio Prevenzione Generale della Questura di Palermo, come funzionario di turno nei servizi continuativi (h24) che venivano espletati per lo più all’esterno sulla Volante in quanto volti al coordinamento operativo delle pattuglie impiegate nel quadrante. Che ricordi ha di quella esperienza, in un contesto (soprattutto in quegli anni) contrassegnato dalla spirale mafiosa?
“Quel primo incarico mi ha dato la possibilità di imparare a gestire le emergenze e il pronto intervento che è l’attività tipica delle “Volanti”, in occasione di fatti di reato o di soccorso pubblico”.
Sempre nel capoluogo isolano, ha svolto servizio presso il Commissariato Sezionale di “Brancaccio” con le funzioni di responsabile della Squadra di Polizia Giudiziaria. Sicuramente non sarà stato facile operare in uno dei quartieri più critici di Palermo
“Il quartiere palermitano di Brancaccio all’epoca era dominio incontrastato dei Graviano. Era per molti aspetti degradato sia dal punto di vista sociale che da quello urbanistico. Era l’epoca in cui operava Padre Puglisi che assieme ad un gruppo di volenterosi cittadini voleva riscattare molti giovani del posto dall’influenza mafiosa e in genere criminale, coinvolgendoli in attività sociali e sportive e, dunque, allontanandoli dalle attività criminali quali rapine e spaccio di droga. Si batteva con le istituzioni locali per portare a Brancaccio, scuole ed altre strutture sportive che mancavano”.
Grazie al prezioso lavoro della sezione “antidroga” della Squadra Mobile di Palermo, che lei ha diretto dal 1993 al 1996, è stato accertato che lo stupefacente viaggiava sull’intero territorio nazionale e non solo nell’isola.
“L’esperienza alla Squadra Mobile di Palermo è stata tra le più belle ed esaltanti della mia carriera. Era il periodo immediatamente successivo alle stragi del 1992, e alla Squadra Mobile sentivamo totalmente il peso e la responsabilità di dare risposte decisive alla criminalità organizzata in tutti gli ambiti in cui essa operava, dalle estorsioni al traffico degli stupefacenti, all’infiltrazione e condizionamento degli appalti pubblici, alla cattura dei latitanti. Penso che in quegli anni, con le ripetute operazioni di polizia giudiziaria e la nascita di una nuova consapevolezza e presa di distanza dal fenomeno mafioso delle giovani generazioni, sia iniziato il riscatto di Palermo e della Sicilia intera dal fenomeno mafioso, che comunque ancora non si è concluso”.
Dopo l’esperienza palermitana, si è avvicinato alla sua terra e da maggio del 1996 è stato trasferito al Commissariato distaccato di Gela con l’incarico di responsabile della squadra di polizia giudiziaria. Amichevolmente i colleghi la chiamavano “Commissario Cobra”. Nei quattro anni di permanenza nell’incarico, ha diretto svariate indagini tese soprattutto al contrasto delle organizzazioni criminali locali di stampo mafioso (Cosa Nostra e Stidda). Quale ricorda in particolar modo e perché?
“Le operazioni di polizia di quel periodo sono state molteplici e tutte importanti, sia nei confronti della Stidda che nei confronti di Cosa Nostra. Era cessato il tempo dei contrasti violenti tra le due organizzazioni mafiose. Avevano raggiunto una sorte di pace. Le fibrillazioni vi erano invece all’interno delle due consorterie per il raggiungimento di posizioni di potere, tant’è che in quegli anni si sono registrati svariati fatti di sangue, quasi tutti risolti con l’individuazione dei colpevoli”.
Dopo avere diretto dal 2001 al 2004 il Commissariato di Lentini; dal 2004 al 2007 quello di Vittoria e dal 2007 al 2010 quello di Niscemi, è nuovamente tornato a Gela prendendo in mano le redini del Commissariato, dal 2011 al 2014. Oltre alla location (dagli storici edifici di via Tamigi a quelli di via Calogero Zucchetto), cosa è cambiato in tutti quegli anni?
“Il clima era decisamente mutato. Se negli anni ’90 la lotta alla mafia era esclusiva delle forze dell’ordine e della magistratura, all’inizio del 2000 era nata l’associazione antiracket per cui iniziarono le prime denunce di estorsione e quindi la collaborazione del mondo imprenditoriale che ha facilitato il contrasto alla delinquenza mafiosa. Non è che le attività criminali di stampo mafioso fossero cessate, avevano assunto un carattere – diciamo – più sottotraccia, le attività estorsive non erano più così sistematiche e avvolgenti come nel periodo precedente, i capi storici erano nelle patrie galere. Si trattava comunque di recuperare un substrato culturale, sempre presente in un certo ambito sociale, alla cultura mafiosa e criminale. In questa prospettiva, devo dire che la parte sana della società, dall’associazionismo alle scuole, ha fatto un buon lavoro per incidere nella formazione delle giovani generazioni tramite incontri proprio nelle scuole, convegni e iniziative varie alle quali le forze di polizia sono state sempre presenti per portare la propria testimonianza”.
Cosa non è riuscito a portare a compimento nella sua permanenza a Gela?
“Il lavoro del poliziotto si confronta con la realtà in cui opera. La lotta al crimine ma anche la vicinanza alla società civile per rassicurarla e infondere fiducia è la mission. Mi auguro solo di aver contribuito a rendere un po’ più sicura la città e a far crescere la fiducia dei cittadini gelesi verso la Polizia di Stato”.
Negli anni, grazie ad un laborioso lavoro investigativo, in città sono stati assicurati alla giustizia mandanti e killer spietati di numerosi fatti delittuosi. Se da un lato la criminalità mafiosa è stata colpita (anche se non del tutto affondata), dall’altra quella comune è difficile da estirpare. Come mai?
“Qui secondo me incidono fattori culturali, non solo nelle famiglie con tradizioni criminali in cui crescono le nuove leve, ma anche in alcuni ambiti della società gelese poco propensa al rispetto delle leggi”.
Perché a Gela, anche le controversie, si risolvono – purtroppo – con gli incendi delle auto?
“Per quello che ho detto prima”.
Poco fa accennava all’associazione antiracket. Avrà seguito le vicende giudiziarie e amministrative che ultimamente l’hanno coinvolta. Qual è il suo pensiero?
“E’ giusto che la giustizia faccia il suo corso. I giudizi definitivi potremmo darli allora. Purtuttavia dico che l’attività concreta dell’associazione antiracket di Gela ha dato negli anni i suoi frutti concreti a differenza di tante altre associazioni antiracket, non solo siciliane”.
Lei ha operato a Gela, Lentini, Vittoria, Niscemi: quattro territori difficili ad alta densità criminale ed in cui insiste anche una profonda omertà. La gente non denuncia perché ha paura delle ritorsioni o c’è dell’altro?
“C’è tanta paura, prima probabilmente ce n’era di più. Prima che lo Stato approvasse le leggi con cui prevedeva sostegno a chi avesse denunciato, gli imprenditori si trovavano soli con se stessi. Gli strumenti di sostegno e tutela si sono affinati e i risultati sono a poco a poco arrivati. Da non sottacere comunque che qualche imprenditore ha scelto di stare “borderline” per convenienza”.
Qual è il ricordo che porterà nel cuore della sua esperienza gelese?
“Ricordi tanti, principalmente quello di aver lavorato per una terra che mi appartiene”.
Qualche mese fa, a causa di una malattia, è venuto a mancare uno dei suoi uomini in servizio al Commissariato di Gela. Chi è stato per lei, Peppe Dispinzeri?
“L’Ispettore Dispinzeri mi ha collaborato sia negli anni novanta al Commissariato di Gela, che durante la mia direzione del Commissariato di Niscemi. E’ stato un poliziotto che ha svolto il suo lavoro con equilibrio, competenza e molta passione. Conosceva a fondo le dinamiche criminali di Gela ed è stato in prima linea nel contrastarle, subendo anche delle ritorsioni dai mafiosi locali, in conseguenza delle quali, a sua tutela, fu allontanato da Gela. Non arretrò mai di un passo e continuò sempre con la medesima spinta e determinazione a svolgere il suo lavoro con onore. Gela lo dovrebbe sempre ricordare per il suo costante impegno volto a rendere migliore la città in cui era nato e cresciuto”.
Nel 2014 è stato trasferito presso la Questura di Trapani con l’incarico di Vicario del Questore. Quando parliamo del territorio trapanese – giocoforza – la mente ci porta al boss dei boss Matteo Messina Denaro, arrestato lo scorso 16 Gennaio dai carabinieri. Anche voi gli davate la caccia?
“Certo! La cattura del latitante è stata una priorità della Polizia di Stato nella provincia di Trapani”.
Com’è possibile che per trent’anni, il latitante più ricercato è riuscito a farla franca?
“Le forze di polizia e la magistratura non hanno risparmiato impegno e risorse per la cattura. Dobbiamo tenere conto del contesto in cui si è operato e delle coperture ad ogni livello di cui ha potuto godere in una provincia, quella trapanese, in cui hanno sempre proliferato le associazioni massoniche, di cui molte “coperte”, quindi illegali”.
Dopo Trapani, nel 2018 è stato trasferito, con il medesimo incarico, alla Questura di Reggio Calabria dove ha svolto numerosi e complessi servizi sia per quanto riguarda quelli connessi agli sbarchi di immigrati clandestini, sia per ciò che concerne le manifestazioni calcistiche, politiche-sindacali e religiose. Cosa le ha lasciato la Calabria?
“Il ricordo di una bella terra soffocata dalla presenza immanente della ‘ndrangheta che ne soffoca l’economia e la possibilità di sviluppo economico”.
Nel 2020, promosso alla qualifica di Dirigente Superiore, è stato assegnato all’Ufficio Centrale Ispettivo, a Roma, dove ha svolto attività ispettiva presso molte Questure e articolazioni minori dislocate su tutto il territorio nazionale. Da più parti si sollecitano più uomini e mezzi. E’ così grave la situazione?
“La Polizia di Stato, così come tutto il settore della Pubblica Amministrazione, ha risentito del taglio degli organici, previsto dalla riforma Madia. L’attuale organico previsto è di circa 16.000 unità in meno rispetto a prima. Al momento si stanno svolgendo molti concorsi per tutte le qualifiche, per compensare le uscite dovute ai pensionamenti. Con processi di riorganizzazione, con l’utilizzo della tecnologia, si cerca di far fronte nel migliore dei modi alle esigenze e richieste di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica con risultati soddisfacenti”.
Tanti giovani pur non di meno vorrebbero entrare in polizia: cosa si sente di dire?
“Fare il poliziotto non è un lavoro comune. Deve essere svolto con onore, dignità, passione, spirito di abnegazione e di servizio”.
E’ proprio vero che alla fine la meritocrazia premia?
“Nel lavoro come nella vita premia sempre la serietà, il lavoro, l’onestà. Non vedo altre scorciatoie anche se qualcuno ogni tanto riesce a prenderle…”

Lo Sbarco della discordia va avanti

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Giovanni G.
4 Gennaio 2023 at 0:46
Seguo il Maestro Ferro dal Concorso Chopin del 2021 e devo dire che sono diventato un fan appassionato delle sue meravigliose interpretazioni. Si tratta, a mio parere, di un pianista e di un artista di livello mondiale e gli auguro una carriera degna del suo valore assoluto.