Ipse Dixit
“Il teatro, l’essenza della vita!”
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3 anni fail

Il pranzo è pronto. Lo aspettano in cucina per cominciare. “Ti dedico qualche minuto e poi corro dai miei. Il banchetto domenicale, dalle nostre parti, è un rito. Per tutti. Ed anche per me”. Come dargli torto. Gli prometto che perderemo una decina di minuti per scambiare quattro chiacchiere.
Allora caro Enrico Guarneri, come stai?
“Benone. Anche se mi manca tanto il teatro. Mi manca tanto esibirmi dinnanzi al pubblico. Siamo in piena emergenza Covid 19 e puoi immaginare quante difficoltà materiali stiamo affrontando. Il teatro è l’essenza della vita. Parallelamente, questo infausto periodo emergenziale che tarda a finire, mi è servito a riflettere. Attualmente mi dedico alla lettura”.
Cosa stai leggendo?
“Spazio da Il Contratto di Edaurdo De Filippo a La Dama sciocca di Lope de Vega. Mi sono fatto trasportare da “Il professor Unrat di Heinrich Mann, che il film “l’Angelo Azzurro” con Marlene Dietrich ha reso leggendario”
Accennavi del pubblico
“Si, il pubblico è importantissimo. E’ la base di tutto quello che noi facciamo sul palcoscenico. Attore e spettatore, due anime in simbiosi; due anime che si sentono e che si interfacciano. Nessuna delle due componenti può fare a meno dell’altra”.
In tema di divieti: per il teatro e il cinema, non si poteva scaglionare l’ingresso, ridurne la capienza invece che chiudere definitivamente così come disposto dai vari decreti presidenziali?
“Assolutamente d’accordo. Comprendo le difficoltà governative. La salute deve prevalere su tutto. Perché se l’uomo muore, è tutto inutile. Però mi chiedo: se è possibile entrare in chiesa, assistere alla messa, rispettando le regole (mascherine, distanziamento, igienizzazione delle mani) perché non è possibile farlo per il mondo dello spettacolo? Ci sono domande – credimi – alle quali non riesco a dare alcuna risposta. Si parla tanto e giustamente di bar, ristoranti, piste da sci, discoteche. E il teatro? Quando riaprirà? Ho solo un suggerimento: oltre alla scienza, che ha fatto passi da gigante, per combattere allegramente il virus, consiglierei alla politica di assistere una volta alla settimana (quando si potrà) ad alcune nostre esibizioni. Ridere ha sempre fatto bene. In ogni campo”.
Ma l’emergenza Covid è stata affrontata con criterio da chi ci governa?
“Non è facile prendere decisioni. Al governo è come se fosse caduto il mondo addosso. Chi mai aveva fatto fronte ad una situazione del genere? Tutto inaspettato. Troppe vittime. Imprevedibile. E vittima è anche l’economia a seguito delle tante chiusure. L’unica speranza è il vaccino. Io lo farò. A 67 anni, proverò anche questa…”
Quando tutto finirà (speriamo presto), cosa ci lasceremo alle spalle?
“Il non avere avuto il piacere di godere della bellezza che abbiamo accanto. A tutti noi attualmente mancano gli abbracci, i baci, il rapporto di famiglia. Mancano gli amici. Anche se vicini, siamo lontani, rispettando il distanziamento sociale. Non vedo l’ora che l’incubo finisca”. Immaginiamo per un attimo di essere sul palco del teatro. Chi tra i politici, potrebbe interpretare una delle tue tante maschere?
“Per la voce che ha, il senatore Ignazio La Russa, nostro conterraneo, è portato a svolgere ruoli grotteschi. Lo vedrei bene in Mastro don Gesualdo. Giuseppe Conte potrebbe interpretare Pappagone (personaggio immaginario ideato dal grande Peppino De Filippo, ndr) mentre Matteo Renzi potrebbe sciorinare le vesti di Bertoldo. E’ un volpino, è in gamba”.
E il governatore Musumeci?
“Il nostro presidente è un uomo saggio, savio. Comunque, se provo ad immaginare, potrebbe interpretare Don Pasquale Minedda in “Il Paraninfo di Luigi Capuana”. Un’opera grottesca, umorale ed umoristica. Sul Conte dimissionario, avrei qualcos’altro da dire…”
Dicci pure
“Non voglio girarci attorno – si fa serio – ma personalmente non l’ho mai riconosciuto come premier. Non si è mai scommesso, non è espressione degli italiani. Ha occupato la poltrona più importante, senza avere ottenuto un voto politico. E’ da 30 anni che non c’è un presidente del Consiglio eletto dal popolo e si continua su questa falsa riga. Non è corretto. Nei confronti dell’Italia intera”.
Dunque, cosa pensi della politica?
“Tutto il male possibile, mi spiace. C’è immobilismo totale su tutti i fronti. Si, è vero che adesso c’è il virus. Ma prima? Cosa ha frenato per anni il rilancio dell’economia nostrana? Bisogna far ripartire le grandi opere. Dalla costruzione delle condotte idriche ai trasporti. C’è un diretto che rischia la fame. E di conseguenza anche l’indotto. Ma non ci arrivano a pensare a tutto ciò? Ci sono resistenze? Documentandomi attraverso la televisione, vedo treni sfrecciare; vedo costruire ponti; realizzare opere di ingegneria. Qui in Italia, e soprattutto al Sud, è tutto fermo. Si parla tanto del ponte sullo Stretto. Che lo si faccia, una volta per tutte. Si ha paura della mafia che potrebbe allungare i tentacoli su un progetto così importante? Allora facciamo in modo che la realizzazione sia controllata capillarmente dall’Esercito. Ma basta più inefficienza. Siamo stanchi”.
Deduco che sul tema della politica, ti sei infiammato. E non poco. Parliamo di te. Cosa fai durante la giornata?
“Non faccio nulla – ride -. Sono pigro. Mi diletto a fare il cicloturista. Tante pedalate al giorno, tanti chilometri immerso nella mia bella Sicilia. Ho una casetta in campagna che pulisco e ripulisco. E’ la mia dimora. Il mio habitat naturale”
E il tuo sostentamento economico da dove arriva?
“Dal teatro e dalle mie esibizioni in tv e in piazza. Fare l’attore non significa avere un hobby. E’ un lavoro che ti impegna tantissimo. Devi studiare il copione, calarti nel personaggio, non dimenticare le battute. E soprattutto, quando il caso lo richiede, devi saper far ridere. Faccio l’attore proprio perché tantissimi anni fa, avevo 21 anni, una compagnia teatrale del mio paese mi propose un ruolo in una commedia. Bene, sono stato l’unico a riscuotere applausi a scena aperta. Ricordo ancora le parole che mi disse il regista: con te la gente ride caro Enrico, insisti su questa strada. Ed eccomi qui…”
E se non avessi fatto l’attore, cosa ti sarebbe piaciuto fare?
“L’agricoltore o il poliziotto. Dopo avere conseguito il diploma di geometra, ho fin da subito cominciato a lavorare. Sono stato capo cantiere per diverse imprese. Anzi, per dirla alla “Litterio”, un vero e proprio capo carriola. Il giorno lavoravo e la sera mi dedicavo al teatro”
In tante occasioni sei stato a Gela per numerosi spettacoli. Cosa ne pensi della nostra città?
“Gela possiede un teatro bellissimo, diretto e gestito con amore. Quando tocco il sipario è come se toccassi una creatura. Una sensazione bellissima. Mi piace tanto il centro storico. Ci sono alcune zone, però, che lasciano a desiderare. Conseguenze di uno sviluppo violento e rapido che ha provocato tutto questo. Bisogna intervenire, risanare. La città potrebbe vivere di luce propria: mare, reperti archeologici, clima, brava gente. Non è una polemica, ma fin quando Gela farà capo a Caltanissetta, cambierà poco o nulla”.
Perché per affermarsi in determinati ambiti, il siciliano deve allontanarsi dalla propria terra?
“Perché siamo in periferia! Se vivi di cinema, devi necessariamente spostarti a Roma o a Milano. Sono loro le capitali dello spettacolo. Penso che se il grandissimo Turi Ferro avesse fatto armi e bagagli per trasferirsi da Catania, dove ha sempre vissuto, sarebbe stato considerato ancora di più. Da tutti.”
Parliamo di un altro grande dello spettacolo: il compianto Gigi Proietti
“Un capo scuola, un punto di riferimento. Un vero e proprio faro per lo show e il varietà. Una grave perdita”.
Ritorno a parlare di politica. Ti hanno mai chiesto di schierarti?
“Si, mi è stato proposto tante volte. Sia in ambito locale che regionale. Ma sono poco tagliato e ho declinato l’invito. Non chiedermi per quale partito e da chi sono stato chiamato. Faccio scena muta…”
Qual è il tuo sogno di Sicilia?
“Avere un’isola splendida, perfetta, pulita, organizzata, serena. Un’isola in cui nessuno chieda il pizzo; un’isola in cui nessuno trasformi il proprio mare in un immondezzaio; un’isola in cui chiunque possa posteggiare la propria auto sotto casa, senza avere il timore che qualcuno possa rubargliela, nonostante abbia installati ben tre antifurti”.
E il tuo sogno nel cassetto?
“Essere riconosciuto come l’alfiere della drammaturgia siciliana nel Mondo!”
Il nuovo Pirandello. Con la scurcidda. Lo chiamano dalla cucina. Mi sa che sono giunti al dolce…
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Ipse Dixit
Don Giuseppe Cafá, il sacerdote dal sorriso contagioso
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3 settimane fail
1 Settembre 2023
Contro ogni stortura, contro ogni imbarbarimento; sempre a fianco dei giovani e con i giovani. Don Giuseppe Cafà, 51 anni, gelese, è il classico sacerdote dal sorriso contagioso. Dal 2011, guida la parrocchia Sacro Cuore di Niscemi, trasmettendo la parola di Dio perché dona la sua vita per qualcosa di veramente grande che lo realizzi in tutto, che lo fa stare bene e che soprattutto serva a rendere bella la quotidianità degli altri.
Hai conseguito il diploma di perito tecnico commerciale e quello di infermiere professionale. Nella vita, dunque, avresti potuto fare altro ed invece hai deciso di indossare l’abito talare. Qual è stato il motivo che ti ha portato a questa decisione?
“Certamente mi sarei potuto realizzare in tante altre cose, ma fu al conseguimento dei due rispettivi diplomi che entrai in una crisi profonda al centro della quale ci stava una grande domanda: “ma è davvero questo quello che voglio?”. Così mi feci aiutare dal mio parroco a capire e ad individuare la strada giusta. Scelsi il mio parroco perché già sentivo dentro di me, come quanto si sente la voce della coscienza, che diceva “vieni e seguimi”. E così, dopo un anno circa entrai nel Seminario di Piazza Armerina”
Cosa ti ha lasciato l’esperienza presso la casa di riposo per anziani e diversamente abili “Santa Lucia” di Enna, dove hai espletato l’anno di servizio militare come obiettore di coscienza?
“Durante il primo anno di Seminario, per un intoppo nella presentazione del rinvio militare per motivi di studio, fui chiamato a svolgere il servizio di leva che grazie a Dio convertii in obiettore di coscienza per potere svolgere il mio servizio con la Caritas Diocesana. Ad Enna ho trascorso uno degli anni più belli e formativi della mia vita. Il mio ruolo era quello di intrattenere gli anziani e di aiutarli in qualsiasi bisogno o richiesta. Dall’aiutarli durante i pasti o nel far loro compagnia durante una passeggiata accompagnandoli sotto braccio. Compleanni e piccole festicciole diventavano occasioni per strappare loro una risata e far dimenticare gli acciacchi dell’anzianità e della solitudine dagli affetti familiari. Ritengo fondamentale quest’esperienza perché mi ha fatto scoprire l’importanza di questi uomini e queste donne che analogamente ai nostri nonni erano alla ricerca di un abbraccio che fosse capace di non farli sentire un peso per la società e la famiglia”:
Il legame con i tuoi genitori (Vincenzo e Maria) è stato sempre forte. Quando hai comunicato che avresti scelto di intraprendere la via sacerdotale, cosa ti hanno detto?
“Non è stato facile per i miei genitori ingoiare la notizia del mio “lascio tutto e vado in seminario”. Nessuno dei due accettò all’inizio la mia scelta. Mi osteggiarono in tutti i modi. Per un breve tempo si incrinarono persino i rapporti. I nostri pranzi e le nostre cene erano divenuti luoghi di silenzi e di sguardi bassi. La discussione non doveva aver luogo. Il no dei miei genitori fu intransigente, e anche il mio si non fu da meno. Così il 19 settembre del 1994 entrai in Seminario accompagnato da due miei amici e senza salutare i miei genitori. Dopo qualche settimana, si sa come sono le mamme, mi chiama a telefono per dirmi se avevo bisogno di qualcosa e mi chiede come va. In quel momento capii che si stava sciogliendo una lastra di ghiaccio, e così piano piano ripresero i rapporti e mi vennero a trovare in seminario”.
Dal 1996 al 2002, hai studiato, su proposta del Vescovo di Piazza Armerina, Vincenzo Cirrincione, presso la Facoltà Teologica “San Tommaso d’Aquino” dell’Almo Collegio Alberoni di Piacenza dal quale sei uscito con il titolo di Baccalaureato. Come sono stati i sei anni trascorsi nel capoluogo emiliano e come i piacentini ti hanno accolto?
“Potrei definirli anni meravigliosi e difficili allo stesso tempo. Meravigliosi perché mi fecero incontrare una realtà civile e religiosa totalmente diversa dalla nostra. La totale assenza di devozioni e di manifestazioni folcloristiche (tipiche delle nostre feste religiose siciliane) mi fece scoprire un mondo fatto di oratori, attività ludico ricreative, incontri fatti per ragazzi e famiglie, attività sociali volte al recupero dei tossicodipendenti, all’accoglienza delle ragazze madri, all’adozione temporanea di bambini con disagi familiari, alle mense caritative per i senza tetto e tanto altro ancora. La novità è che ogni parrocchia faceva vivere una o più esperienze tra questa ai vari gruppi parrocchiali. Non c’era mese che almeno una volta non si organizzasse un’attività sociale. Trasmissione della fede e attenzione all’uomo che soffre, erano i due pilastri di ogni parrocchia. La difficoltà all’inizio fu legata allo studio. Da uno che usciva da un tecnico trovarsi ad avere a che fare con materie umanistiche e lingue nuove furono una vera e propria montagna da scalare. La grazia di Dio e il mio forte temperamento mi diedero la forza di non mollare mai e di giungere fino alla fine”.
La tua ordinazione presbiterale ha già…spento le 20 candeline. Era il 2003 quando sei stato nominato, dal vescovo Michele Pennisi, vicario parrocchiale e vice parroco di Monsignor Grazio Alabiso, presso la chiesa Madre di Gela. E’ chiaro che in questi lunghi anni, sono stati tanti gli episodi piacevoli che ti hanno colpito. Ne vogliano raccontare uno in particolar modo?
“Noi sacerdoti spesso viviamo momenti che rimangono impressi come un memoriale per la nostra vita. Sono tanti e tutti importanti e dire così su due piedi quale sia stato il più piacevole, diventa difficile. Certamente ricordo la festa del papà che feci organizzare ai tanti giovani che frequentavano allora la Chiesa Madre. All’inizio la proposta fu accolta con diffidenza da parte dei giovani e dalle loro famiglie, e anche Monsignor Alabiso presentò qualche perplessità, a tal punto che mi disse, sorridendo, che “queste cose del Nord, qui non funzionano”…tuttavia mi lasciò fare e il risultato fu così inaspettato che tutti si ricredettero. Ricordo ancora il pianto dei papà per la gioia nell’abbracciare i loro figli come mai avevano fatto”.
Qual è stato l’episodio che invece ti ha ferito?
“Allo stesso modo di prima ci sono altri episodi le cui cicatrici rimangono indelebili nel cuore. Mi torna in mente la storia di un giovane ragazzo, la cui mamma aveva contato su di me per aiutarlo ad uscire da una certa situazione. Forse mi addossò aspettative superiori alle mie capacità. Probabilmente sovrastata dal dolore e dall’ennesimo fallimento, mi sbattè la porta in faccia dicendomi di cambiare mestiere”.
Accennavi al compianto Monsignor Alabiso: chi è stato per te?
“All’inizio, come tutti i gelesi, conoscevo Monsignor Alabiso per la sua fama che, in certi ambienti, era positiva e in altri negativa. Mi avvicinai a lui con molto rispetto e altrettanto timore e non nego che le nostre due personalità (leader indiscusso lui, neo sacerdote emergente io in cerca di spazi propri), si scontrarono parecchie volte. Tuttavia entrambi avevamo rispetto l’uno dell’altro e ciascuno era proteso al bene di tutta la comunità. Fu questa la carta vincente che ci fece vivere insieme per quasi 9 anni. Da lui ho imparato molte cose: la gestione di una parrocchia, il rapporto con le istituzioni locali, la sempre e costante attenzione a preparare tutto con cura, ma soprattutto a tenere la mente sempre attiva con lo studio e l’aggiornamento. Furono per me un tesoro prezioso i suoi racconti della chiesa gelese e delle tante storie e vicende da lui vissute da quando cominciò a fare il parroco dell’allora nascente complesso di Macchitella”.
Nel tuo percorso, hai avuto il privilegio di conoscere ben tre vescovi: Cirrincione, Pennisi e Gisana. Quali differenze hai notato tra i tre prelati e cosa di loro tuttora custodisci nel tuo cuore?
“Più che delle differenze vorrei invece sottolineare ciò che li accomuna. Tutti e tre i vescovi hanno amato la nostra Chiesa locale con affetto paterno. Hanno dato il massimo che hanno potuto senza mai tirarsi indietro. A Monsignor Cirrincione, durante la visita Pastorale a Gela, gli chiesi una volta alla fine di una giornata, se fosse stanco e avesse bisogno di qualcosa. Mi rispose candidamente: “mi riposerò in Paradiso”. Così anche Monsignor Pennisi e l’attuale Monsignor Gisana non si sono mai fermati e sono stati sempre presenti e attenti ad ogni situazione. Di tutti e tre custodisco l’affetto paterno”.
Presso il Liceo “Leonardo da Vinci ” di Niscemi, ricopri la carica di vice preside e svolgi la professione di insegnante di religione così come già successo, anni prima, all’Istituto Sturzo di Gela (Commerciale e Alberghiero). Giornalmente hai la possibilità di colloquiare con gli studenti. Nel dettaglio, quali sono i timori e le paure che colpiscono i giovani?
“I giovani che incontro quotidianamente sono figli del loro tempo. Sono quelli che la sociologia chiama “Generazione Z”. Fortunatamente possiamo dividerli in due categorie: alla prima appartengono i figli dell’era digitale, circa l’80%, che vivono in ambienti virtuali. Passano da un social all’altro come si attraversano le stanze di una casa, senza uscire dalla loro cameretta. Desiderano qualcosa e immediatamente gli viene data, oppure se la procurano da soli con un click sul telefonino. Comprano su Amazon e guardano le serie Tv sul telefonino. Scommettono al calcio senza andare in ricevitoria o allo stadio e incontrano i loro amori spulciando sui profili dei coetanei. I giovani di questa categoria fanno le vacanze non per conoscere posti nuovi e crescere culturalmente, ma per frequentare le diverse movide notturne come quelle organizzate da Scuola Zoo. Alla domanda quali sono i timori e le paure che colpiscono questi giovani, rispondo con il perdere la connessione con il mondo virtuale. Il rimanere senza internet o senza telefonino. Il restante 20%, sono quei giovani che cercano sui libri o in generale nello studio la loro strada per essere protagonisti della storia e costruttori di una vita migliore. Si impegnano nel volontariato, nella politica e nello sport, crescendo sempre più nella cittadinanza attiva. Subito dopo il diploma scelgono sedi universitarie lontane capaci di poterli realizzare professionalmente e socialmente. Il loro timore? Essere isolati dalla massa… essere considerati uomini e donne dalla vita piatta e senza “divertimento”. Sono quelli che andando via dalla nostra amata Sicilia non torneranno più se non per visitare i familiari e trascorrere qualche settimana di vacanza”.
E i loro desideri?
“In tutti i giovani c’è comunque un senso di insoddisfazione. Hanno tutto e non sono mai contenti. Nella maggior parte di loro c’è un senso di vuoto che per colmarlo spesso ricorrono a delle bravate che spesso pagano a caro prezzo”.
Se tu avessi la bacchetta magica, cosa risolveresti in primis per garantire ai ragazzi un futuro migliore?
“Non serve una bacchetta magica per garantire un futuro migliore ai giovani. Bisogna tornare ad investire sulla cultura. Ho una mia filosofia che sicuramente non è condivisa dalla maggioranza, ma io ai miei ragazzi trasmetto sempre un concetto: più sai e più avrai. Le mete migliori le puoi raggiungere solo se porti con te uno zaino pieno di conoscenze”.
In tema di malaffare, in più di un’occasione pubblica, non hai esitato a rivolgerti direttamente agli affiliati e ai semplici “carusi” al fine di deporre le armi del crimine. Il messaggio, purtroppo, non è stato raccolto e i fatti di cronaca, nel nostro territorio, sono all’ordine del giorno. Tutto questo, è chiaro, fa male. Non credi?
“Uomini grandi come i giudici Falcone e Borsellino e il Beato Rosario Livatino ci hanno insegnato che non bisogna mai smettere di educare alla legalità, anche quando attorno a noi sembra esserci un terreno arido e incapace di accogliere anche un piccolo seme. Certo che fa male… vedere ragazzi scivolare nel crimine è una sconfitta che lacera la coscienza e indigna sempre di più. Tuttavia bisogna anche aiutare la società sana a non abbassare mai la testa a chi vuole intimorire o spadroneggiare per le nostre città”.
Ma perché una parte consistente dei giovani è predisposta a delinquere?
“C’è un peccato nell’uomo che si chiama avidità, che può essere di denaro o di potere. Soldi facili e prepotenza diventano un binomio fondante per assoldare i nostri giovani”:
Gesualdo Bufalino sosteneva che “la mafia, se un giorno sarà sconfitta, sarà debellata da un esercito di maestri elementari che comunichino e insegnino ai bambini che la mafia è qualcosa di brutto e li allontani da adulti, dalla partecipazione alle organizzazioni mafiose”. D’accordo?
“Assolutamente si, come non essere d’accordo con il grande maestro. Da anni, a Niscemi, attraverso progetti e attività mi prodigo per abbassare la percentuale dei ragazzi in dispersione scolastica. La scuola è l’unico e insostituibile luogo per combattere mafia e povertà”.
Proprio a Niscemi hai fondato assieme ad un gruppo di imprenditori, l’Associazione antiracket e antiusura dedicata alla memoria di Ninetta Burgio. L’obiettivo è quello di invitare le vittime dell’odioso ricatto di clan, ad intraprende un percorso di legalità e di presenza attiva nel territorio. I risultati ci sono?
“Fino al 2015 ho fatto parte del direttivo come socio fondatore di questa associazione e di risultati ne abbiamo conseguiti diversi. Tuttavia per ragioni che non sto qui a spiegare, da questa associazione ne siamo usciti io ed altri soci e abbiamo intrapreso un nuovo percorso con “Sos Impresa” con la quale abbiamo avviato diversi progetti. In città si avverte un senso di consapevolezza maggiore e gli imprenditori che fanno parte del nostro progetto si sentono molto più sicuri di non essere più soli”.
Per contrastare efficacemente la piaga della povertà e della ludopatia, hai aperto, sempre a Niscemi, nel 2016 un Centro di Ascolto Caritas. I fenomeni sono costanti o ci sono prospettive che vengano definitivamente estirpati?
“La piaga della ludopatia è sempre più drammaticamente dilagante. Siamo riusciti con il sindaco Massimiliano Conti e l’assessore alla Legalità Piero Stimolo a scrivere un protocollo per arginare il fenomeno, ma tuttavia è poca cosa. Anche il Centro di Ascolto della parrocchia ha individuato diversi casi aiutando le famiglie ad intraprendere un percorso riabilitativo. Purtroppo le sale slot crescono come i funghi e le strutture e il personale qualificato per disintossicarsi sono introvabili. Basti pensare che per l’intera area di Gela, Niscemi e Butera esiste un solo Sert con un ufficio e poco personale in via Parioli a Gela. Grazie ai servizi sociali di Niscemi abbiamo intrapreso un’attiva collaborazione con “Casa Famiglia Rosetta” di Caltanissetta aprendo con loro uno sportello di ascolto anche nelle scuole”.
Ritorniamo al tuo percorso sacerdotale. Cosa ti hanno lasciato i dodici anni alla guida diocesana dei gruppi ministranti e l’esperienza come membro del Consiglio Presbiterale Diocesano?
“Come dicevo prima sono stati anni meravigliosi. La realtà dei ministranti la conobbi in Chiesa Madre a Gela e da lì, grazie all’incarico datomi da Monsignor Pennsi, conobbi tutti i gruppi ministranti di molte parrocchie della Diocesi. Con essi mi divertii ad organizzare campi estivi, raduni diocesani con la partecipazione di oltre 500/600 giovani ministranti. Per due volte portai i gruppi ministranti della nostra diocesi a partecipare ai raduni mondiali a Roma che vedeva la partecipazione di circa 80 mila ministranti provenienti da oltre 175 nazioni. E ancora oggi molti di quei bambini diventati adulti (alcuni papà e mamma e altri preti) ricordano con grande entusiasmo. Diverso è stato l’incarico di membro del Consiglio Presbiterale. Questo incarico non me l’aspettavo perché è l’organo dei più stretti collaboratori che consigliano il Vescovo nelle sue scelte pastorali per l’intera Diocesi. Certamente mi ha riempito di orgoglio, ma nello stesso tempo mi ha caricato di una grande responsabilità. Chiedo ogni giorno la grazia del discernimento per meglio leggere i bisogni di tutto il popolo credente della nostra realtà”:
Quattro anni fa, sei stato promotore dell’inserimento della tua parrocchia e della cittadina di Niscemi in un grande progetto con il distretto di Gela, Mazzarino e Butera con Fondazione Sud per attuare iniziative di inclusione sociale e dispersione scolastica attivando un Centro per bambini e famiglie. Il programma funziona?
“In parte si, perché nel momento in cui abbiamo iniziato il progetto ebbe un grande successo di partecipazione, ma poi il Covid ci ha fatto fermare per tutto il tempo del lockdown. Riprendere a scaglioni con meno bambini e famiglie, non è stato semplice. Nello stesso tempo abbiamo avviato un altro progetto creando un laboratorio di teatro ed uno di cinema e fotografia per adolescenti che ha coinvolto circa 80 ragazzi di scuola media e superiore ottenendo grandissimi consensi tra i cittadini. A distanza di due anni dalla fine del progetto i ragazzi stanno continuando. Adesso sempre con il distretto Gela Niscemi Butera e Mazzarino siamo in fase di programmazione per un nuovo piano di lavoro”.
In due occasioni, hai partecipato nelle vesti di cantante al programma televisivo di Canale 5, “The winner is”. Cosa ti ha spinto a farlo?
“Preferirei non rispondere a questa domanda, ma tuttavia lo faccio per una ragione: onore alla verità. A me piace da sempre cantare. Non l’ho mai fatto professionalmente ma da dilettante. Quella volta mi spinse l’idea di voler fare qualcosa di utile per la mia città, ma quando arrivai negli studi di Mediaset mi resi conto del grande bluff che c’era dietro. L’audience valeva più delle persone. Bisognava dire e fare quello che loro dicevano. Anche le canzoni mi furono imposte senza assolutamente valorizzare i miei gusti o le mie capacità vocali”.
Qual è la canzone a cui sei più legato?
“Una vera e propria canzone non ce l’ho. Ho alcuni brani che mi piacciono più di altri: Perdere l’amore di Massimo Ranieri; Tanta voglia di lei dei Pooh; L’acrobata di Michele Zarrillo e Vivo per lei di Andrea Boccelli. Solitamente durante una festa mi diletto a cantare e animare le serate”.
Se di quelle appena elencate dovessi sceglierne una, quale sarebbe e a chi la dedicheresti?
“Scelgo Vivo per lei. La musica è come la fede. Da quando l’ho incontrata mi è entrata dentro e c’è restata. Mi fa vibrare forte l’anima ed è come musa ispiratrice per tutte le cose che faccio. Attraverso la mia voce si espande e amore produce. È la protagonista principale della mia vita e oggi la dedico alla mia meravigliosa parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Niscemi e a tutti i miei collaboratori, senza i quali forse avrei fatto meno della metà delle cose che vi ho raccontato in questa intervista”.
Ipse Dixit
“Determinati per una stampa libera”, la ricetta del presidente dell’ordine dei giornalisti siciliani
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2 mesi fail
1 Agosto 2023
Tantissima televisione, innumerevoli articoli per giornali regionali e nazionali ma, soprattutto, tanta voglia di esportare nel Mondo il vero volto della nostra Sicilia, terra bella e martoriata, attraverso l’impegno costante di chi nel giornalismo crede e ha sempre creduto. “Perché una penna “libera”, se usata bene, riesce a costruire la verità. Mattone su mattone”, ripeteva spesso il compianto Andrea Purgatori. Ne è assolutamente convinto anche Roberto Gueli, attuale presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia e vice direttore del Tgr Rai nazionale. Prossimo ai 55 anni, ha firmato articoli per “La Sicilia” e il “Corriere dello Sport”, ha lavorato a TeleRegione, Telescirocco, Canale 21, Antenna Sicilia prima di approdare in Rai. Da Palermo (sua città natale) ha commentato le gesta dei rosanero per “Tutto il calcio minuto per minuto”. Ha ricoperto i ruoli di caporedattore del Tgr Sicilia e, a Roma, del Giornale Radio. E’ consigliere nazionale dell’Ussi, l’Unione Stampa Sportiva Italiana.
Presidente, c’è un dilagante esercizio abusivo della professione di giornalista. Come bisogna contrastarlo?
“Limitando l’accesso alla professione e, in armonia con un più ampio progetto di riforma dell’Ordine, riconoscere che è giornalista chi di fatto svolge un lavoro giornalistico”.
Sovente va di moda il copia-incolla di qualsiasi comunicato arriva in redazione. Così facendo non si annulla il vero compito del giornalista?
“Si annulla il lavoro del giornalista e si rende un cattivo servizio al fruitore delle notizie, il lettore. Che però non è un soggetto passivo: penalizza testate che non riconosce attendibili”.
Troppe fake news in giro. E in tanti ci abboccano. Come e dove capire se si tratta di una notizia non “qualificata”?
“Il primo vero discrimine è quello della fonte. A questo servono le testate registrate, i direttori responsabili, i “nomi”. Anche da questi parametri si valuta la credibilità di una fonte giornalistica”.
Fino a qualche anno addietro, l’utente aspettava l’articolo pubblicato dai giornalisti per essere a conoscenza dei fatti…adesso invece, dopo pochi minuti, si trova tutto sui social. In tanti scrivono e in troppi commentano. Non crede che si tratti di una vera e propria banalizzazione del mondo dell’informazione e uno svantaggio per il cronista che su quel determinato pezzo ci stava lavorando?
“Sicuramente lo è, ma questi processi vanno a scapito dell’utenza. I social contribuiscono alla diffusione di notizie errate nella misura in cui sono una cassa di risonanza di una massa. Non vanno penalizzati, se utilizzati con criterio, i social possono essere perfino complementari rispetto al lavoro giornalistico”.
Alcuni quotidiani (nazionali e regionali), hanno apportato poche modifiche al proprio aspetto cartaceo, come se fossero legati alle antiche tradizioni. Sono veramente pochi quelli che pubblicano a colori. E’ solo un problema economico?
“È anche un problema economico. Uno dei tanti aspetti che gli editori devono tenere presente, tanto più dopo l’aumento dei costi scaturito con la guerra in Ucraina”.
Se un quotidiano cartaceo non riesce a rinnovarsi, è destinato quasi a scomparire. Non crede?
“È una valutazione che vale per tutti, non solo nel giornalismo. Se non ti aggiorni non vai avanti. Quante volte gli allenatori di squadre di calcio sono accusati di <<non essersi saputi rinnovare>>?”.
Molte realtà editoriali, non riescono a pagare i propri redattori. Perché si arriva fino a questo?
“Le ragioni della crisi del sistema editoriale sono diverse e complesse. Ma credo che più dei redattori, in questa fase storica, stiano soffrendo i collaboratori”.
Come Ordine, come state seguendo la vicenda dei giornalisti de “La Sicilia” in ritardo con i rispettivi pagamenti?
“Seguiamo con attenzione e preoccupazione. L’intero mondo del giornalismo è in sofferenza. Solidarietà piena da parte dell’Ordine regionale per i colleghi de La Sicilia che hanno scioperato nei giorni scorsi. Ci auguriamo che le problematiche vengano risolte al più presto”.
Perché tanti giornalisti cedono alla linea editoriale?
“Non si può rispondere a una domanda del genere per linee generali. Bisognerebbe circoscrivere a casi specifici. Esistono redazioni che mandano in frantumi la cosiddetta linea editoriale”.
In tema di libertà di stampa, l’Italia è regredita notevolmente. Su 180 paesi nel Mondo, occupiamo il 58′ posto, addirittura sotto il Suriname e il Gambia. E’ sicuramente un dato preoccupante, non crede?
“Lo è, in ragione del fatto che la libertà di stampa è un diritto costituzionale sancito dall’articolo 21. Quindi, se la libertà di stampa è regredita, vuol dire che la nostra democrazia non se la passa bene”.
Nella vita si sceglie di intraprendere l’attività di giornalista o tutto avviene per caso?
“Anche qui bisognerebbe valutare i casi. In più circostanze ho visto persone, colleghi, che avevano una predisposizione particolare per questo mestiere”.
Per svolgere bene il proprio compito, qual è l’aspetto caratteriale che un giornalista non può tralasciare?
“La determinazione. Oggi più che in passato”.
Quanto è importante pubblicare una foto in un determinato articolo?
“Fondamentale, se l’articolo è su cartaceo o su testate online”.
A sostegno della professione, quali azioni intende intraprendere come presidente dei giornalisti siciliani?
“Il nostro Ordine monitora e controlla, è un ente che fa da pungolo, da stimolo, alle istituzioni chiamate a legiferare. Siamo una sentinella, ma non deteniamo potere. Il solo fatto di esistere, di parlare, di stare a fianco dei colleghi spesso ingiustamente minacciati, è il nostro modo di dare sostegno alla professione”.
Quali tutele offre l’Ordine dei giornalisti ai propri tesserati?
“Essere giornalisti iscritti all’Ordine, in questo momento storico, è l’unico modo possibile per esercitare la professione giornalistica”.
Perché non tutte le amministrazioni pubbliche (Comuni e Aziende Ospedaliere in primis) non hanno un ufficio stampa ed un proprio portavoce così come prevede la legge?
“Per l’ostinazione di alcuni amministratori nel volere portare avanti metodi poco ortodossi rispetto all’ambito della comunicazione. Fare sì che le cose vadano diversamente è una nostra priorità, che ci vede coinvolti in prima linea insieme alle sigle sindacali”.
Quale consiglio dispensa ai giovani che si affacciano al mondo del giornalismo?
“Avere passione. È la passione che alimenta tutto che fa andare avanti nonostante le avversità che, inevitabilmente, si incontrano lungo il cammino”.
In più di un’occasione è stato presente a Gela. Cosa l’ha colpita della nostra città?
“La vitalità che riscontro nei giovani”.
Qual è l’articolo che non avrebbe mai voluto scrivere?
“Uno dei primi servizi. Il crollo della pensilina dello stadio di Palermo, nel 1990. Arrivammo sul posto con la troupe: sugli spalti della tribuna crollata i corpi degli operai (cinque vittime) ed il presidente del comitato organizzatore Renzo Barbera in lacrime”
E quello che sogna di scrivere?
“Mi piacerebbe raccontare di una Sicilia che funziona. Che sia volano dell’intero Mediterraneo. Al momento resta un sogno”.
Lei è un tifoso del Palermo a tutto tondo. La stagione agonistica che sta per cominciare, sarà quella giusta per ritornare in serie A?
“Mi auguro che possa tornare la serie A. La passione dei tifosi lo merita: si vede anche dagli abbonamenti sottoscritti per la nuova stagione. La squadra costruita dai dirigenti mi sembra all’altezza con il tecnico Corini che lo scorso anno ha fatto molto bene”.

Amano la musica, amano la vita. Sempre sorridenti, dietro le quinte, sul palco, dinnanzi all’obiettivo, nella quotidianità. E il pubblico apprezza, cosi come confermato, anni addietro, quando parteciparono a “Italia’s got talent” su Canale 5, approdando alle semifinali. Ottimo risultato per la loro prima esperienza artistica in tv. Loro sono i fratelli Bunetto, in arte i Bellamorea. Emanuele, musicista ed insegnante, ha 34 anni. E’ laureato in chitarra e filologia moderna. Un vero e proprio polistrumentista: suona la chitarra, il pianoforte, la zampogna, la fisarmonica, l’armonica a bocca, il basso, il banjo, il bouzouki, il flauto e il sax; Francesco e’ la voce del duo. Suona anche la tammorra. Ha 31 anni. Giornalista ed insegnante, è in possesso della laurea in scienze pedagogiche. Hanno ideato e curato il progetto “Med World Tour” che mira alla divulgazione, alla salvaguardia e alla valorizzazione della cultura e della musica popolare del Mediterraneo.
“Il gruppo – dicono – é nato dall’esigenza di raccontare, attraverso studi e ricerche di canti della tradizione popolare del Sud Italia, l’attaccamento alle nostre radici e soprattutto l’amore esuberante verso la nostra terra, la Sicilia, tanto ricca di storia e di cultura”.
Perché la scelta del nome Bellamorea?
“Il nome deriva dalla traduzione italiana di “Bukura More”, un canto nostalgico Arbëreshë che racconta il dolore e il ricordo della patria persa per sempre; Morèa è il luogo da cui arrivavano la maggior parte degli Arbëreshë che oggi si trovano nel meridione d’Italia. Abbiamo deciso di dare questo nome, quindi, in omaggio al paese in cui siamo cresciuti (seppur originari di Gela), San Michele di Ganzaria, colonizzato anche dai greci – albanesi”.
Cosa vi ha spinto a scegliere il target musicale che suonate?
“Per un artista è importante raggiungere una propria ed originale “identità”. Amiamo definire il nostro genere musicale “popular moderno e innovativo”, in cui suoni della tradizione si fondono con contaminazioni della World Music e con sonorità radiofoniche attuali; abbiamo cercato, quindi, di dare una continuità alla tradizione ma con innovazione… e questo è ciò che ci ha spinti a scegliere il target musicale che suoniamo. Inoltre, ci rende felici!”
Avete mai pensato di allargare il duo?
“Lo escludiamo! Siamo due fratelli ed il nostro non è solo un “progetto”, ma una missione di vita! Quale migliore occasione che essere legati da un legame familiare e di sangue?”
Quando suonate dinnanzi al pubblico, cosa provate?
“È sempre un miscuglio di forti emozioni, gioia ed esuberanza! Ci rende orgogliosi vedere il pubblico che reagisce, a sua volta, al nostro coinvolgimento emotivo”.
I brani sono tutti inediti o spaziate anche con altri pezzi già conosciuti?
“La versatilità musicale, generata dal dialogo tra chitarra e voci e la peculiare sonorità del nostro duo riflette la formazione acquisita nel tempo. Il repertorio, in origine, attingeva dalla cultura etnica del Mediterraneo: canti greco salentini, campani e calabresi, approfondendo antiche leggende attinenti soprattutto alle festività del Natale e della Pasqua. Successivamente, tramite la scrittura e la composizione, abbiamo dato origine a nostri brani inediti (sempre in lingua siciliana) che trattano storie che affrontano diverse tematiche legate al sociale, alla legalità e all’attualità, nate dall’unione delle nostre professioni lavorative”.
A chi vi ispirate?
“Il nostro modello principale è stata colei che è considerata la “mamma” della musica popolare siciliana: Rosa Balistreri. Ma anche a Domenico Modugno, Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber”.
Il vostro cantante preferito?
“Sting”.
I Bellamorea hanno un fitto calendario di concerti in tutto il mondo. Prossime tappe sono previste in Qatar, Argentina, Australia e Canada. Si sono esibiti in America, Giappone, Belgio, Germania, Inghilterra, Svizzera, Malta, Francia e Tunisia.
Avete girato il mondo, quale Stato vi ha colpito di più e perché?
“In ogni Stato in cui abbiamo suonato, abbiamo sempre trovato tanta ospitalità, tanta gente che ci ha accolti con tanta cura, affetto e gioia. Ma se dovessimo decidere quali Stati ci hanno lasciato un segno sono l’America e il Giappone. Due realtà cosi diverse ma allo stesso tempo uguali nell’avere dato la possibilità a tanta gente di trovare la propria fortuna!”
Come nascono i vostri tour?
“Abbiamo due tipologie di tour: in Italia e all’estero. Quest’ultimo è caratterizzato da concerti rivolti agli italiani (non solo siciliani) lontani da anni dalla propria terra e nascono dall’esigenza di farli sentire “a casa” per una sera, attraverso la nostra musica”.
Perché vi siete dedicati proprio alla musica?
“Perché, come ogni forma d’arte, ci permette di arrivare al cuore della gente e di trasmettere messaggi importanti”.
Gela è una vera e propria fucina di talenti musicali: è bello ritrovarsi ed esibirsi tutti insieme?
“Capita spesso di esibirci a Gela, in teatri o piazze, assieme ad artisti gelesi. Suonare “in casa” è sempre una gioia immensa e infinita!”
L’elenco degli artisti con cui i Bellamorea hanno collaborato è vastissimo ma merita di essere menzionato: Phil Palmer, Leo Gullotta, Nancy Brilli, Francesco Benigno, Nino Frassica, Tony Sperandeo, Roberto Lipari, Giovanni Cacioppo, Andrea Tidona, Paride Benassai, Lucia Sardo, Carlo Muratori, Domenico Centamore, Daria Biancardi, Faisal Taher, Ernesto Maria Ponte, Chris Clun, Gino Astorina. Francesco ed Emanuele hanno condiviso il palcoscenico con Roy Paci, Marco Masini, Giusy Ferreri, Mariella Nava, Lello Analfino, Irene Fornaciari, Gianni Bella, Sud Sound System, Andy dei Bluvertigo, Mario Incudine, Aldo Baglio, Manlio Dovì.
Chi di loro vi ha lasciato qualcosa e perché?
“Ogni artista con cui abbiamo collaborato ci ha lasciato qualcosa: Leo Gullotta per la sua cultura, Nino Frassica per la sua eleganza, Roy Paci per la sua esuberanza, Tony Sperandeo per la sua naturalezza, Roberto Lipari per la sua filosofica e geniale comicità, Giovanni Cacioppo per la sua simpatia, Paride Benassai per la sua generosità, Lucia Sardo per la sua straordinarietà, Carlo Muratori per il senso di essere “padre”, Domenico Centamore per la sua umiltà, Francesco Benigno per la sua semplicità, Faisal Taher per la sua ironia, Andrea Tidona per la sua accoglienza, Gino Astorina per la sua sensibilità, Manlio Dovì per la sua compostezza, Phil Palmer per la sua professionalità…e i sostantivi potrebbero continuare”.
Come riuscite a finanziarvi per le numerose tappe mondiali?
“Le spese di viaggio, vitto e alloggio, sono coperte dall’ente che ci ospita”.
Qual è stato il riconoscimento più emozionante che avete ricevuto?
“Le lettere di elogio da parte del Vaticano e dell’Ufficio del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, per l’impegno morale, professionale e civile ci rende fieri ed orgogliosi”.
In tutta sincerità, siete andati sempre d’accordo tra voi fratelli?
“No! Ma è proprio questo il bello: ci completiamo a vicenda. Le competenze sono diverse l’uno dell’altro e questo ci permette molto spesso di avere idee contrastanti ma che ci portano ad avere una più ampia visione e valutazione di ogni aspetto: dalla composizione dei brani, al montaggio dei videoclip o alla scelta della scaletta di ogni spettacolo”.
Se un giovane volesse avvicinarsi alla musica, che consiglio dareste?
“L’arte è vita! Il nostro consiglio è quello di coltivare il proprio talento, qualunque forma d’arte si decida di studiare!”
Il vostro sogno nel cassetto?
“E’ che la musica popolare di ogni regione possa avere più spazio nel campo discografico nazionale”.
Sovente, vi esibite anche all’interno delle carceri nell’ambito di iniziative sociali dedicate ai detenuti. Cosa vi colpisce di questi eventi?
“Ci capita spesso di suonare negli ospedali, nelle case di riposo e all’interno delle case circondariali. La voglia di andare avanti, ricominciare a vivere, a riscattarsi e a superare questo terribile momento ci lascia un forte segno dentro e grandi e forti emozioni”.
Cosa non ripetereste di tutti i concerti tenuti finora e perché?
“Ogni concerto ha una sua storia e ci ha profondamente lasciato tanti insegnamenti ed esperienze che sicuramente faranno tesoro al bagaglio della nostra carriera professionale!”
Dopo i successi dei loro primi due dischi (Stereotipi e Currivuci), il prossimo anno, uscirà il terzo lavoro. Lo hanno chiamato “Sospeso”. Perché in fin dei conti certe canzoni ti sollevano, ti prendono con due dita e ti tengono sospeso a mezz’aria, fuori da te. E allo stesso tempo, ti riportano giù. Dolcemente

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