Il giudice Tona: a Gela la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia

Da quasi 10 anni a questa parte, compone la prima sezione penale della Corte d’Appello di Caltanissetta, svolgendo il suo lavoro con maniacale attenzione ai dettagli e in ossequio alle procedure previ...

01 maggio 2023 11:13
Il giudice Tona: a Gela la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia -
Condividi

Da quasi 10 anni a questa parte, compone la prima sezione penale della Corte d’Appello di Caltanissetta, svolgendo il suo lavoro con maniacale attenzione ai dettagli e in ossequio alle procedure previste dal codice. 

“Lo Stato è di chi lo vive.  Conoscere per scegliere liberamente e con consapevolezza”. Quasi come un monito, perentorio, il giudice Giovanbattista Tona, lo ripete spesso e volentieri, soprattutto quando incontra i giovani studenti.

In magistratura dal 1996, oltre ai numerosi procedimenti giudiziari che portano la sua firma, ha svolto seminari e lezioni nelle università di Palermo, Messina, Reggio Calabria, Cosenza, Bologna e Milano.  E continua ad essere invitato per disquisire sul tema del diritto penale. Svolgendo le funzioni di coordinatore per la corte d’Appello, si occupa inoltre di formazione dei magistrati e dei giovani laureati in tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari.

Dottore Tona, come sta la magistratura italiana? 

“Sta in cammino lungo strade impervie e dalle direzioni incerte. Cerca di fare bene con i mezzi limitati che ha e quando non ci riesce deve essere pronta ad essere accusata di tutto. Nel frattempo in questi anni non ha mancato di farsi male da sola”.

D'accordo con la riforma Cartabia? 

“Non è un giudice a dover essere d’accordo con leggi. Devono essere le leggi a riuscire ad andare d’accordo con gli obiettivi che vogliono perseguire e soprattutto con la Costituzione che è la Legge fondamentale. Semmai il giudice, applicando le leggi, deve cercare tutti i modi possibili per farle andare d’accordo con quegli obiettivi e con questa Costituzione. Con la riforma Cartabia non sarà sempre facile ma ci dobbiamo provare”.

Da Cartabia a Nordio. Qual è il suo giudizio sull’attuale ministro della giustizia? 

“Dare un giudizio su un Ministro significa dare un giudizio politico. E un magistrato è sempre opportuno che si astenga dal dare giudizi politici, anche se finiscono per riguardare comunque un altro magistrato”.

Cosa ne pensa di quei magistrati che hanno svestito la toga per sposare la politica

“Mi stupisco che se ne parli tanto con scandalo come se fosse un problema dei tempi nostri. Ci sono magistrati passati alla politica e partiti politici che hanno candidato magistrati sin dall’Unità d’Italia, con tutti i regimi e con tutte le maggioranze. E mi pare che la cosa accada in molti altri paesi del mondo, anche molto ben orientati in tema di separazione dei poteri. Tuttora - se si guardano le cose senza pregiudizi - si possono vedere frequenti situazioni in cui forze politiche, pur preoccupate dei rischi di politicizzazione della magistratura, candidano magistrati o ex magistrati o affidano loro compiti di governo. Questo mi fa pensare che finché il problema viene affrontato così o non è un problema o non si può risolvere”. 

Le hanno mai chiesto di entrare in politica? 

“È capitato più spesso che negli ambienti delle nostre periferie sia circolata la voce che entrassi in politica, senza che nessuno me lo avesse chiesto. E già questo è un buon motivo per sottrarsi ad esperienze per le quali comunque non è detto che si sia all’altezza”. 

Per dieci anni (dal 2000 al 2010), ha svolto sia la funzione di Gip che di Gup al tribunale di Caltanissetta. Quale dei due incarichi è più difficile e per quale motivo? 

“Non ci sono funzioni giurisdizionali che si possano dire facili o meno difficili se non peccando di superficialità. Ma senz’altro il giudice per le indagini preliminari svolge il delicato ruolo del giudice terzo nella fase in cui il processo non è ancora iniziato; le sue scelte possono dare un indirizzo di equilibrio alle attività del pubblico ministero quando ancora le indagini non sono concluse ma si può incidere sulla tutela dei diritti delle persone coinvolte e si deve preservare l’utilità degli accertamenti. È un chirurgo con i ferri in mano mentre la diagnosi si sta ancora facendo a cuore aperto”. 

Dal 2013 è componente della prima sezione penale della corte d'appello di Caltanissetta. Di cosa si occupa prevalentemente? 

“Ci si occupa di tutti i processi penali relativi a reati gravi e meno gravi delle province di Caltanissetta e di Enna, senza alcuna distinzione di materia o di complessità; quelli che i media ritengono importanti al pari di quelli che comunque noi siamo abituati a considerare importanti perché tali sono per le persone coinvolte. In un mondo in cui sembra che per essere bravi bisogna essere specializzati noi dobbiamo imparare ad essere bravi senza essere specializzati. E ci conforta quella famosa frase di George Bernard Shaw: “lo specialista è colui che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di niente”. 

Come, in alcuni contesti territoriali, può essere definitivamente debellato il patto di ferro tra politica e criminalità? 

“Mai la criminalità finirà di cercare accordi con la politica. Solo quando e se la politica li rifiuterà non ci saranno più questi accordi. Ma se sopravvivono i patti di ferro di cui lei parla, bisognerà attivarsi, con leggi ben fatte e con le necessarie iniziative giudiziarie, perché si arrugginiscano e si inceppino”.

Perché il giovane è appetibile dalle famiglie mafiose? 

“Perché i giovani sono energia e passione; averli a loro servizio per le famiglie mafiose significa incatenare le loro energie e le loro passioni e alimentare con esse il proprio potere. Se i giovani invece riescono ad essere liberi dal bisogno e dai miraggi che il mondo criminale propone, allora possono impiegare i loro talenti per il loro futuro e per quello delle loro comunità”. 

Con il Pnrr arriveranno tantissimi soldi. Si sa, quando c'è denaro, la criminalità accende i fari...Come e dove bisogna intervenire per evitare tutto ciò? 

“Mi piacerebbe dare una risposta semplice ma il problema è complesso. Nel dibattito pubblico da una parte c’è chi reclama l’intensificarsi dei controlli e dall’altra chi lamenta che troppi controlli costano e ostacolano la realizzazione delle opere pubbliche. L’esperienza giudiziaria invece mostra che il cuore del problema non sta in quanti controlli si fanno ma nel come si fanno”. 

Lei conosce bene l'ambiente di Gela per averci lavorato sia in fase inquirente che giudicante. Perché si delinque? 

“Nel 2004 il prof. Stefano Becucci, sociologo dell’università di Firenze, svolse un’analisi accurata sul territorio di Gela e intitolò il suo saggio “La città sospesa”. Sintetizzava così la condizione di una città che rimaneva a mezz’aria in un’evoluzione che non riusciva mai a compiersi del tutto: da centro agricolo ad area altamente industrializzata, da luogo di storia e archeologia a scenario di stabilimenti ed impianti chimici, da terra di mafia a terra di antimafia, prospettive di trasformazione spesso promesse e mai del tutto realizzate. In questa sospensione in cui spesso non si trova una sintesi si alimentano contraddizioni, inefficienze, arroganze e frustrazioni. Mi pare che questa chiave di lettura spieghi molte cose anche oggi, in cui tante promesse che vent’anni fa sembravano ancora un orizzonte raggiungibile, ora hanno lasciato nei cittadini gelesi tanta disillusione”. 

Nonostante, in tutti questi anni, le innumerevoli operazioni di polizia giudiziaria e le successive condanne penali, i clan mafiosi gelesi (è quanto emerge dalle cronache) sono sempre attivi. Come se lo spiega? 

“Se si taglia la gramigna senza mai bonificare il terreno, si continuerà sempre a tagliare gramigna. Senza purtroppo potere raccogliere altro di buono. Se le cosche, nonostante non abbiano il potere di un tempo, nonostante non garantiscano gli ingenti guadagni di una volta e nonostante non offrano concrete prospettive di impunità, trovano sempre persone disponibili alla militanza, alla mera alleanza o compiacenza, forse allora bisogna ammettere che per sconfiggere la mafia ci sono anche altri fenomeni di cui occuparsi. A Gela, come anche in tutta Italia e in diversi Stati europei, la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia e vi prospera; segue le prassi già distorte della vita sociale e del mercato, intuisce prima degli altri le opportunità, offre servizi, promette appoggi, semplifica con la violenza le complessità, crea alleanze opache e informali per risolvere conflitti e con il suo agire quotidiano alimenta relazioni in cui nemmeno più si riconosce il confine tra l’illegalità diffusa e la mafia vera e propria, in un sistema comunque efficiente e attraente capace di sopravvivere agli interventi repressivi e di sostituire velocemente i singoli che incappano nella costante attività repressiva dello Stato. Che purtroppo, nonostante l’impegno di molti suoi uomini e la crescita della consapevolezza in ampi strati della società gelese, laboriosa e ricca di intelligenze, non riesce ancora ad intercettare la fiducia dei cittadini”.

Perché a Gela è così frequente il fenomeno degli incendi dolosi? 

“È il segno di una delle debolezze della società di cui parlavamo prima. L’incapacità di dare sfogo civile, oltre che legale, ai conflitti genera fenomeni come questi. L’incendio doloso diventa strumento di regolamento di conti, dalle questioni private alle contese sugli affari illeciti. Spesso non sono opera di mafia ma sono modalità di cui la mafia si può avvalere più facilmente se le sa usare chiunque”.

Nel 2010, un gruppo di fuoco della mafia gelese era pronta ad ucciderla, "colpevole" di avere comminato pene agli affiliati del clan. Tempestivi, in quell'occasione, furono gli arresti immediati eseguiti dalla Polizia, che scongiurano l'episodio. Quando è venuto a conoscenza del progetto criminoso, cosa ha provato? 

“Sulle prime i sentimenti sono stati di sorpresa. Si sa che sono cose che con il nostro lavoro possono succedere ma quando succedono veramente ci si rende conto che, senza mai dirlo a se stessi, si era sempre pensato che non sarebbero mai accadute. Subito dopo sono subentrati pensieri di gratitudine per chi ha svolto le investigazioni ed è intervenuto tempestivamente, e soprattutto per tutti coloro i quali hanno perso la vita per noi quando ancora il contrasto alla criminalità mafiosa non aveva raggiunto livelli tali da riuscire ad impedire per tempo le sue azioni violente”.

Lei vive costantemente sotto scorta. Cosa si sente di dire ai suoi angeli custodi? 

“A loro dico sempre due cose: “grazie” e “bisogna avere pazienza”. La seconda la dico anche a me stesso”.

Ha mai avuto paura? 

“Mi basta pensare alle tante persone che ne potrebbero avere ben più di me e non la fanno mai prevalere, per capire come devo comportarmi”.

Denunciare conviene? 

“Non denunciare certamente crea più danni e più rischi di quelli che, non denunciando, si crede di evitare”. 

La giustizia è proprio giusta? 

“Se si riferisce alla giustizia amministrata nei tribunali, quella è una giustizia umana e come tale vive anche di limiti e di errori. Quindi spesso può dare l’impressione di non essere giusta o può effettivamente non esserlo. Però se la giustizia pretende di non essere umana, ma di essere infallibile, formale, rigida, efficientista, perfezionista e insomma, in una parola, sovrumana, allora sì che potremmo avere la certezza che sarà sempre ingiusta”. 

Segui Il Gazzettino di Gela