Cogito ergo sum

Il Referendum sulla giustizia, tempi e modi di un evitabile spreco di risorse

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Votare è un diritto e un dovere civico. Lo sancisce solennemente l’articolo 48 della Costituzione. C’è da chiedersi cosa hanno provato quei pochi – pochissimi in realtà – cittadini che domenica scorsa, cuori e fegati impavidi, hanno deciso di recarsi alle urne per il Referendum sulla giustizia. Poca, pochissima l’informazione fatta per chiarire agli elettori gli aspetti salienti, almeno quelli, della consultazione referendaria. Sfidare il caldo di una domenica di giugno per ritrovarsi ai seggi e poi srotolare quegli enormi fogli di cinque colori diversi ha avuto il sapore della beffa: quesiti lunghissimi, infiniti, che solo per leggerli serviva come minimo una laurea in giurisprudenza e tanto, tantissimo coraggio.

Scherzi (ma non troppo) a parte, questo referendum passa alla storia non soltanto come un autentico flop, previsto e magari anche orchestrato fin dal principio come tale, ma soprattutto come uno spreco inutile di tempi e risorse. Secondo Money.it, la spesa pubblica per il Referendum sulla giustizia si aggirerebbe sui 400 milioni di euro (milioncino più, milioncino meno), dei quali almeno 300 in carico al Ministero dell’Interno e il resto diviso tra i Ministeri dell’Economia e della Giustizia. Bruscolini, insomma. Soprattutto in tempi di crisi, guerra, inflazione ed emergenze varie.

Per non parlare di un’organizzazione incomprensibile, anche questa già vista, che non permette a migliaia (o milioni) di fuorisede di potersi recare alle urne nelle città in cui vivono per studio o lavoro, pur non avendone la residenza. E poi, la valutazione politica. Che, senza andare per le lunghe, richiamerebbe semplicemente alle proprie responsabilità i rappresentanti eletti dal popolo alle due Camere per agire. Agire. Che nel vocabolario online della Treccani ha come significati immediati due verbi molto spesso, troppo spesso sconosciuti tanto a Montecitorio quanto a Palazzo Madama: “fare, operare”.  

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