Uno degli episodi più controversi della guerra civile combattutasi in Italia fra il 1943 e il 1945, nel periodo più caldo e decisivo della II Guerra mondiale, fu L’uccisione di Giovanni Gentile avvenuta a Firenze il 15 aprile 1944 per mano del partigiano comunista Bruno Fanciullacci dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP). Gentile, pagava con la vita la sua incondizionata adesione al Fascismo che lo aveva visto un protagonista del regime e come uomo politico e come ideologo, ma anche la sua volontà di rappacificare il Paese. La sua morte violenta divise lo stesso fronte antifascista, venendo disapprovato da buona parte del CLN.
Ottavo di 10 figli, Giovanni Gentile nacque a Castelvetrano il 29 maggio del 1875. Laureatosi in Lettere e Filosofia nel 1897 con il massimo dei voti alla Scuola Normale di Pisa, nel 1901 sposò Erminia Nudi da cui ebbe 6 figli.
Egli fu insieme a Benedetto Croce, uno dei maggiori esponenti del neoidealismo filosofico e dell’idealismo italiano. La sua aderenza al Fascismo fu cementata dall’essere stato il Ministro della Cultura, e per avere fatto nel 1923 una importante riforma della Pubblica Istruzione, conosciuta come “Riforma Gentile”. Nel 1925, dopo le sue dimissioni da ministro, pubblicò il Manifesto degli intellettuali fascisti in cui riconosceva nel fascismo una importante opportunità della rigenerazione morale e religiosa degli italiani, che trovava modello in una ideale continuazione del Risorgimento. Questo documento sancì l’allontanamento di Gentile da Benedetto Croce, con il quale c’era stata vicinanza e collaborazione per un periodo lungo 20 anni.
Nel 1934 il Sant’ Uffizio mise all’indice le opere di Gentile e dello stesso Croce, a causa del loro identificare il cristianesimo cattolico come una mera “forma dello spirito”, considerato quindi inferiore alla filosofia; concetto che Gentile bene spiegava nel discorso del 1943 La mia religione, in cui erano contenute alcune velate critiche al papato, ispirate da Dante, Gioberti e Manzoni.
Egli fu anche un convinto difensore di Giordano Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo dall’Inquisizione nel 1600, al quale dedicò un saggio, impegnandosi anche in prima persona perché la statua del frate pensatore, eretta in Campo de’ Fiori nel 1889, opera dello scultore Ettore Ferrari, non fosse rimossa, come richiesto da alcuni cattolici.
Nel 1925 Gentile promuoveva la nascita dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura (INFC), di cui fu presidente fino al 1937. E’ quello il periodo in cui il filosofo siciliano ricoprì diversi incarichi culturali, accademici e politici, che lo portarono ad esercitare durante tutto il ventennio un forte influsso sulla cultura italiana. E questo lo portò ad essere anche il direttore scientifico dell’Enciclopedia Italiana dell’ Istituto Treccani; incarico che ricoprì dal 1925 al 1938. Poi ne fu anche vicepresidente e in quella veste accolse alla Treccani numerosi “collaboratori non fascisti”. Così, è a lui che si deve l’elevato livello di quell ‘opera monumentale che è appunto la Treccani: un lavoro appassionato e metodico che il filosofo e pedagogo portò avanti chiedendo la collaborazione di ben 3.266 studiosi di diverso orientamento politico, culturale, religioso, perché con grande intelligenza e lungimiranza volle coinvolgere nella stesura dell’enciclopedia tutta la migliore cultura nazionale, compresi molti studiosi ebrei o notoriamente antifascisti.
Quando il regime crollò e Mussolini fondò la Repubblica di Salò, Gentile fedele a quello che era stato il suo sentire politico, credette in questa nuova opportunità per la nazione, e probabilmente fu questa coerenza a segnare la sua condanna a morte.
Di lui scrisse il giornalista e critico letterario Geno Pampaloni nel suo “Fedele alle amicizie” (Camunia Edizioni, 1984): «Era un omone che ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece l’impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità sull’indiscusso ruolo di patriarca.»
Sorprende il fatto che una figura importante come Gentile, un gigante della cultura italiana ed europea, non abbia ispirato più di tanto il nostro cinema. Abbiamo una eccezione nel lungometraggio di Ugo Frosi girato nel 2015, che ha per titolo “L’ospite”. Un film che, cercando di ricostruire la vicenda umana e politica del filosofo, metteva pure in evidenza la sua volontà di promuovere in quegli ultimi anni drammatici della guerra una pacificazione nazionale; una conciliazione non voluta però dai partigiani e neppure agli alleati, una ostilità che determinò di fatto la sua condanna a morte. E oggi, a pensarci bene, il dramma più grande della nostra nazione è forse quello che ancora, a distanza di 80 anni dal barbaro assassinio di Gentile, questo processo di pacificazione degli italiani non abbia trovato compimento
Nel 1985, esattamente quarant’anni fa, Federico Fellini girava al Teatro 5 di Cinecittà “Ginger e Fred”. Un film che ha avuto per me un notevole significato dal momento che per quattro settimane, fra giugno e luglio, fui uno degli assistenti alla regia del grande maestro riminese, e che di fatto quella pellicola segnò il mio esordio professionale nella cinematografia.
Un inizio carriera che un po’ tutti i ragazzi avrebbero sognato, se si considera che allora Fellini insieme ad Akira Kurosawa e Ingmar Bergman era considerato il cineasta più importante al mondo. Protagonisti del film furono Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, che interpretavano due vecchi ballerini, soprannominati appunto Ginger e Fred per il loro repertorio che si ispirava a Fred Astaire e Ginger Rogers, i quali venivano invitati dopo tanti anni dal loro ritiro delle scene ad uno show televisivo.
C’era in quel lavoro di Fellini una profetica anticipazione di quella che poi sarebbe divenuta la televisione “spazzatura” in Italia, fatta di show, quiz, turpitudini, grande fratello e chi più ne ha più ne metta. Qualcuno volle pure vederci la narrazione della nascita di Fininvest, l’azienda televisiva voluta da Silvio Berlusconi poi divenuta Mediaset. Un film pieno di ironia, sarcasmo, ma dove non mancava pure una vena di malinconia quando alla fine dell’esibizione, peraltro maldestra, i due anziani ballerini, anche amici (e forse un tempo anche amanti) si lasciano a Stazione Termini. Un saluto ultimo e struggente che faceva comprendere come i due non si sarebbero più rivisti.Musicato da Nicola Piovani, che ebbi modo di conoscere proprio sul quel set, il film fu pretesto per Fellini anche per attaccare l’uso massiccio e indiscriminato della pubblicità che interrompeva (e interrompe tutt’ora) il cinema in televisione. Una battaglia persa quella di Federico, nonostante anche altri autori negli anni abbiano sostenuto questa causa, compreso il nostro Giuseppe Tornatore. Ma la TV commerciale (e non solo quella) ha le sue regole, o forse regole non ne ha più, se quotidianamente a tutte le ore del giorno e della notte vediamo fiere della vanità, cruenti dibattiti, violenza e volgarità a go go. D’altronde, anche il dolore, la morte, le guerre sono stati spettacolarizzati. Quasi fossero videogames. E davanti a quel film di Fellini girato 40 anni fa, attraverso gli occhi ingenui di due vecchi artisti del Varietà, c’è tutto lo “sguardo lungo” del regista che fu sempre capace attraverso la fantasia e l’irrazionale di raccontare verità scomode.
Lo scorso 10 febbraio si è svolta ai più alti livelli istituzionali “la giornata del ricordo” al fine di perpetuare la memoria sugli assassinii e le stragi che riguardarono le popolazioni istriane e giuliano-dalmate a cavallo fra il ’43 e la fine della Guerra, che poi determinarono l’esodo dalle terre natìe di 350.000 italiani sino a oltre la metà degli Anni ’50.
Molte quest’anno le iniziative, ma anche le novità editoriali che hanno riguardato l’argomento. Cito per tutti la pubblicazione “Donna, eroine, martiri delle foibe” (Editore Passaggio al Bosco) della professoressa Valentina Motta di origine messinese, scrittrice, studiosa e ricercatrice, e poi il libro “10 febbraio” del senatore di Fratelli d’Italia On. Giuseppe Menia, di origini istriane. Fra questi due interessanti volumi vorrei poggiare l’accento sul saggio della professoressa Motta per la capillare ricostruzione di fatti e eventi tragici che insanguinarono fra il 1943 e il 1945 la frontiera orientale italiana, con eccidi, torture ed esecuzioni da parte dei partigiani titini dell’Osna. Un racconto che riporta in superficie soprattutto le violenze e gli abusi perpetrati contro le donne, colpevoli di essere state compagne o parenti di uomini legati al regime, o esse stesse inquadrate nei reparti femminili della Repubblica Sociale Italiana o facenti parte di corpi volontaristici e di assistenza ai malati e ai feriti. Non mancarono poi abusi su ragazze, colpevoli solo di essere belle e quindi vittime spesso di gelosie, ricatti, vendette. Su queste donne vennero perpetrati ignominiosi stupri e orribili sevizie. E chi idealmente rappresenta e simboleggia tutte queste figure (mamme, spose, sorelle, di qualsiasi età e ceto sociale) è certamente Norma Cossetto (Visinada, 17 maggio 1920), che a 23 anni, fra la notte del 4 e 5 ottobre 1943 venne sequestrata, violentata da 17 titini e poi gettata viva nella Foiba di Villa Suriani.
Il cadavere sarebbe stato rinvenuto 2 mesi dopo, alla fine di dicembre, privo di indumenti e con un paletto di legno conficcato nella vagina. Una fine orribile quella della studentessa universitaria che stava preparando la sua tesi di laurea, e che venne descritta da chi la conobbe come una ragazza solare e piena di vita, certo ignara dal crudele destino che la condusse alla più spaventevole delle morti. L’8 maggio 1949 l’allora rettore dell’ Università di Padova, prof. Aldo Ferrabino, conferì la laurea ad honorem in lettere a Norma Cossetto, mentre nel 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi insignì alla ragazza istriana della Medaglia d’oro al merito civile. Precisa, puntigliosa e scrupolosa è stata la ricostruzione dell’esecuzione della Cossetto da parte di Valentina Motta, ma anche di tante altre donne coraggiose che vennero martirizzate in nome dell’ideologia comunista, dalle bande armate del Maresciallo Tito. Fra l’altro l’autrice nel riportare alla luce tanti di questi episodi non manca di sottolineare come comunque c’è ancora molto da ricercare, e molto da indagare per riesumare (proprio come si è fatto nel recuperare i corpi infoibati) altri casi nascosti e dare una maggiore completezza a quel “film dell’orrore” tenuto per decenni così vergognosamente nascosto e vilmente tacitato.
Sebbene già nella precedente amministrazione e durante questa sua ultima trionfale campagna elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca, i comportamenti, le parole e le decisioni di Donald Trump avevano già fatto comprendere chiaramente con quale uomo avrebbe dovuto confrontarsi il mondo, adesso che dalla teoria si è passati alla pratica, è sconvolgente constatare come il nuovo Presidente degli Stati Uniti a poche settimane dalla sua rielezione abbia già destabilizzando i già precari equilibri del nostro pianeta. Le sue scelte, le sue decisioni, le sue sortite perentorie, che non ammettono dialogo o confronto perchè lui è “l’unto dal Signore”, ci dicono quanto siamo messi male se la nazione più potente del mondo è governata da un signore isterico e megalomane, irresponsabile e senza freni. D’altronde, l’altra superpotenza mondiale, ovvero la Russia, è nelle mani di un altro esaltato, il carnefice e sanguinario Vladmir Putin.
Ebbene, questi due uomini, secondo nuove logiche imperialistiche che sembravano morte e sepolte, vanno d’accordo e sembrano volersi spartire il mondo assicurandosi delle precise aeree di influenza. Così Trump, anche per avere poi dallo “zar” il via libera sui suoi progetti, sta cercando di chiudere in poche battute una pace fra la Russia e l’Ucraina, e non verrà difficile a Putin aderire a questo piano, che sembra condannare l’Ucraina a un triste destino di resa e capitolazione, nonostante il valore dei suoi generali, dei suoi soldati e del suo popolo. Non è infatti concepibile che si lavori ad un trattato di pace, unilateralmente, con una sola nazione che detta le condizioni, appoggiata da un arbitro fazioso, disposto a sacrificare Kiev, magari prendensosi poi il merito di pacificatore. E l’Unione Europea? Protesta timidamente. Non sa cosa fare e non ha personalità politiche capaci di spezzare questa diabolica intesa che sta venendosi a creare fra Stati Uniti e Russia. Lo stesso presidente francese Macron appare patetico nelle sue timide reazioni alle imprevedibili e perentorie scelte di Trump. E Giorgia Meloni? Donna intelligente e statista di razza, checché ne dicano gli avversari politici, cosa fa? La sua ostentata amicizia con Trump dovrebbe metterla in una posizione di privilegio rispetto agli altri partners europei, e quindi solo lei potrebbe fare ragionare il presidente degli USA sulle sue strategie. Qui allora si gioca tutta la credibilità della premier, non solo come Presidente del Consiglio, ma anche rispetto alle mire di divenire una leader indiscussa anche in Europa. Se la Meloni avrà coraggio e argomentazioni per opporsi a Trump (e Musk!), allora la sua leadership e la sua immagine ne usciranno potentemente rafforzate. Altrimenti, rimanendo zitta e supina davanti alle pericolose “devianze” di Trump, la Presidente del Consiglio finirà col bruciare tutta la credibilità e la stima che ha saputo conquistarsi negli anni con un puntiglioso e duro lavoro. D’altronde, la Meloni, che ha difeso a spada tratta e con i fatti il diritto ad esistere dell’Ucraina, come potrebbe accettare adesso che quella nazione, disarmata e mutilata in buona parte del suo territorio, divenisse un’ altra ragione satellite della Russia? Se Meloni ha riconosciuto la pericolosità di Putin dovrebbe pure comprendere che Trump in fondo non è altro che l’altra faccia della stessa medaglia. La verità, senza girarci troppo intorno, è che Putin e Trump, diversi eppure uguali, sono una grave minaccia per il mondo. E ad opporsi a questi due pescecani non potrà essere la debole Europa e neppure la Gran Bretagna che ambiguamente davanti ad una situazione così esplosiva se ne sta zitta nel suo isolazionismo. ma paradossalmente potrà farlo la Repubblica Popolare Cinese, il cui presidente, Xi Jinping a confronto dello zar e del tycoon, sembra essere un vecchio grande saggio. E se è vero che tra i due litiganti il terzo gode, forse allora sarà proprio la Cina a vincere la grande partita politica, strategica ed economica che ormai si sta combattendo da anni senza esclusione di colpi. Ma neppure quest’ultima prospettiva al fine ci riempirebbe di gioia.