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Parla il Questore: “Impegno costante contro la criminalità. A Gela, poca collaborazione sul fronte antiracket”

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Schietto, diretto; assolutamente poco incline al contorto. E all’artificioso. Il suo ragionamento è limpido. Con stile e garbo. Parlare col Questore di Caltanissetta, è un vero piacere. Perché quando ti trovi a conversare con un servitore dello Stato, analizzi in fondo quello che dice, frutto di innumerevoli interventi sul campo a combattere l’illegalità, purtroppo ampiamente diffusa dalle nostre parti. E non solo. Emanuele Ricifari scatta una foto limpida delle sue esperienze, entrando nel particolare, attraverso un’accurata esposizione di fatti, numeri, nomi e circostanze.

Partiamo proprio dalle radici. Lei catanese doc, finalmente è ritornato in Sicilia, dopo avere attraversato l’Italia in lungo e in largo. Possiamo definirlo il coronamento di un sogno?

“Per me, siciliano, oltre che una soddisfazione è una “restituzione” che dovevo alla mia gente e alla mia terra. Misurarmi con i problemi e le emergenze e farlo dove sono nato e cresciuto era dovuto”

Penultima tappa, è stata la Questura di Cuneo

“L’esperienza a Cuneo è stata la prima da Questore “titolare”. Si tratta di una provincia molto estesa – più della Liguria – con 247 comuni con un contesto socio economico tra i più ricchi e ben amministrati d’Italia. La disoccupazione in tempi di crisi supera di poco il 3%. Gode di un territorio molto bello. Le Alpi marittime gestite con cura dall’ente Parco, le colline delle Langhe e del Roero… terre di vini – i piemontesi – tra i più celebrati. Paesi con rocche medioevali custoditi come bomboniere. Clima temperato dalla poca distanza dal mare. Un’industria meccanica e robotica di livello internazionale e soprattutto un settore agroalimentare d’eccellenza. Il dolciario (Ferrero, Balocco, Maina, Venchi, tanto per citarne alcuni) e la produzione casearia; l’allevamento della razza fassone, la coltura e la cultura del tartufo bianco di Alba. 

Insomma, un contesto ritrovatosi poverissimo e devastato nel dopoguerra e che grazie a generazioni illuminate votate alla fatica e all’impresa familiare e di comunità hanno fatto un vero miracolo per la propria terra, rendendola una delle aree più floride del mondo. Ed in questo quadro vi è una profonda coscienza civile e senso del bene comune che di per se concorrono a realizzare sicurezza. Eppure ci sono dati che ci dicono che questo benessere attrae il malaffare. Furti in ville o aziende, truffe e tentativi di infiltrazione di consorterie criminali (soprattutto calabresi, di etnie nomadi o di origini dell’est Europa)”

Ha lavorato anche a Roma alla Direzione Centrale Anticrimine. Se non sbaglio, è un posto a cui tutti ambiscono…

“In effetti il primo incarico da dirigente superiore (è il grado per fare il Questore in una provincia) è stato di fondare il servizio anticrimine della Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato. Un servizio che da un lato svolge analisi sui vari fenomeni criminali in ambito nazionale e provinciale in ausilio e indirizzo delle questure e dall’altro sviluppa un’attività di indirizzo e impulso per le misure di prevenzione personali e patrimoniali e di contrasto e prevenzione della violenza di genere e domestica.  Il tutto all’interno della Direzione Centrale che, tramite il Servizio Centrale Operativo, coordina le squadre mobili e le attività investigative più rilevanti a livello interprovinciale e nazionale e il servizio controllo del territorio che fa da impulso e coordinamento agli uffici di prevenzione generale e soccorso pubblico: in una parola, alle volanti”.

E’ stato anche a capo della squadra mobile di Piacenza, la città più lombarda dell’Emilia Romagna così come viene definita dagli stessi piacentini. Cosa porta in sé di quel periodo?

“Ho trascorso a Piacenza ed in Emilia Romagna, tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000, uno dei periodi più emozionanti ed impegnativi della mia carriera. Indagini su consorterie albanesi che gestivano la tratta e il racket della prostituzione, indagini su infiltrazioni e traffico di stupefacenti sui cutresi e sul gruppo di Grande Aracri (broker internazionali degli stupefacenti) oggi in carcere e da me arrestato la prima volta a Piacenza nel 1996. Poi ricordo le diverse indagini su omicidi, sempre coronate con l’arresto dei responsabili ed un primato della quasi totalità delle rapine in banche e uffici postali, che in quell’epoca erano molto frequenti. Infine e con grande partecipazione, rievoco le indagini sui casi di violenza sessuale anche di gruppo e su quelli di gravi violenze domestiche nei quali, tra i primi, rivolgemmo un’attenzione mirata e di sostegno personale alle vittime che, considerati i successi ottenuti, furono determinanti per le successive modifiche legislative e la logica di rete di sostegno che si è affermata negli ultimi anni con la normativa sul codice rosso”.

Dicevamo che ha girato lo Stivale, da Nord a Sud. Tappe importanti sono state anche Catania e Reggio Calabria, zone caldissime in ambito criminale….

“Catania in realtà è stata un’esperienza brevissima e legata al X reparto mobile (ex celere) dove fui assegnato appena terminato il corso di formazione dopo il concorso nel giugno del 1989.

Fui infatti subito mandato in missione a Reggio Calabria, che era nell’occhio del ciclone per la triste stagione dei sequestri di persona e per la guerra di ‘ndrangheta che in un bagno di sangue vide consumarsi centinaia di omicidi in pochi anni. Lavorai alle volanti e non smettevo mai. Il mio entusiasmo e quello di diversi giovani colleghi, ci portava a staccare dalla direzione del turno e a continuare mettendoci a disposizione della Squadra Mobile per ogni attività operativa che ci consentisse di fare esperienza e acquisire sul campo le competenze. Fu un’esperienza ricchissima e determinante”.

A Brescia, per 9 anni consecutivi, ha ricoperto l’incarico di vice questore. Le cronache raccontano di momenti di tensione e violenza, nel 2010, a seguito della protesta di alcuni extracomunitari che avevano occupato una gru in piazzale Battisti, spalleggiati dai centri sociali della sinistra antagonista. Lei fu minacciato e diffamato e per oltre dieci mesi (assieme alla sua famiglia) fu scortato dai suoi colleghi.

“Brescia è anche la città dove poi mi sono stabilito e ho preso casa. Segno che tra la gente del capoluogo lombardo mi sono trovato bene. Paradossalmente proprio gli eventi cui conseguirono le minacce da parte della galassia anarco autonoma e dei centri sociali e delle frange più violente e pericolose dell’anarco insurrezionalismo, rese pubbliche sui social, determinarono la reazione di tutto il mondo politico democratico e liberale, di centinaia di cittadini, studenti, stranieri, dei sindacati solidali con me e i miei familiari. Questo mi ha dato la sensazione di avere la gente e le istituzioni vicine e che la campagna di fake anche violenta contro di me era un boomerang”.

Facciamo un ulteriore passo indietro: nel 94/95 ha fatto parte del gruppo di lavoro sui delitti della Uno bianca, presieduta dal Prefetto Achille Serra. Avere poi scoperto che gli esecutori dei numerosi delitti, erano dei poliziotti, cosa le ha provocato? 

“Quella di Bologna fu un’esperienza molto formativa e triste allo stesso tempo. Io arrivai subito dopo gli arresti per integrare la commissione d’inchiesta interna presieduta dal Prefetto Serra e lavoravamo in parallelo al gruppo investigativo che svolgeva l’indagine giudiziaria. Capimmo nel tempo e nell’approfondimento dell’inchiesta, che non c’erano misteri o grandi vecchi dietro, solo una personalità – quella di Fabio Savi – molto forte e capace di influenzare quella degli altri, viziata dal mito della “volontà di potenza” e da una spregiudicatezza che li fece sentire invincibili. Erano soggetti con personalità devianti e violente. Purtroppo nelle indagini delle diverse procure romagnole e marchigiane vi furono scarso coordinamento e forti contrasti tra organi inquirenti … L’inchiesta amministrativa le mise in luce chiarendo fatti e contesti. Una sequenza e una somma di inefficienze e di inutili concorrenze”.

Accendiamo i fari sulla nostra provincia. Sono ben quattro i mandamenti presenti. Come si adopera la Polizia per contrastarli?

“L’impegno nel contrasto alla presenza delle organizzazioni malavitose specie di stampo mafioso è sempre intenso. La Direzione distrettuale antimafia della Procura di Caltanissetta segue le nostre attività investigative con attenzione e coordina le indagini dei diversi organismi di polizia, guardia di finanza e carabinieri che non interrompono mai il monitoraggio e l’analisi informativa e investigativa sui diversi gruppi. Non parliamo solo dei quattro storici mandamenti di Cosa nostra (Gela, Vallelunga Pratameno, Riesi e Mussomeli, ndr) ma anche di gruppi di stiddari o di malavitosi appartenenti a gruppi di altre province che operano soprattutto nel traffico e spaccio di stupefacenti e reinvestimento dei capitali illeciti. 

Alta l’attenzione anche sui fenomeni estorsivi o sul tentativo di condizionare i mercati agricoli e la distribuzione delle risorse idriche. Purtroppo anche l’insufficiente organizzazione o talvolta l’inefficienza di alcune pubbliche amministrazioni ed enti pubblici favoriscono deviazioni che alimentano il malaffare”.

A Gela, Cosa Nostra e Stidda si sono fatte la guerra per anni (con tantissimi morti ammazzati e numerosi tentati omicidi) per poi siglare una pax mafiosa che tuttora regge. Non si spara più (fortunatamente) come una volta, ma gli episodi criminosi non mancano, purtroppo. Come e dove bisogna intervenire?

“I tempi ed il contesto della guerra dei bambini dell’assalto della Stidda a Cosa Nostra sono mutati.

Innanzitutto per la risposta forte e determinata dello Stato. Per la meritoria reazione di forze di polizia e magistratura che hanno segnato un percorso poi seguito da altre generazioni di uomini di legge.

Purtroppo i segnali degli ultimi anni, danno l’impressione di parte consistente della società civile che talvolta sembra rinunciare a produrre gli anticorpi alla illegalità e al modo “settario e familista” di gestire ciò che è comune.

Bisogna insistere nella formazione e informazione dei cittadini e dei bambini. Da piccoli si maturano valori e comportamenti fondamentali. Vedere un mondo adulto che cerca prevaricazioni o scorciatoie illecite o comunque pratiche scorrette, non educa ai valori costituzionali”.

Gela è stata definita la capitale degli incendi dolosi di auto. In tante occasioni, è stato detto che si tratta (nella maggior parte dei casi) di diatribe sfociate nel fuoco. E’ solo questo o c’è dell’altro?

“Quella degli incendi dolosi su auto, moto, porte di casa ed altro ancora, è una piaga nota e tanto datata da potere essere definita “tradizione locale”. Non è una battuta e neanche una provocazione: si tratta di un fatto che osservo con amarezza. Purtroppo, nonostante vengano individuati e condannati gli autori, il buon esito delle indagini e le condanne non sono un deterrente sufficiente.  Nella maggior parte dei casi si tratta di dispute e contrasti di vicinato, passionali, gelosie e diatribe sul lavoro … Solo occasionalmente i fini sono estorsivi.  Questo ci dice di un malinteso bisogno di farsi giustizia da se, della mancanza assoluta di senso della legalità e anche, duole osservarlo, di assenza di tolleranza per questioni private.  L’impegno dello Stato, magistratura e forze dell’ordine è grande anche in questo caso  e lo testimonia il fatto che sono alte le percentuali di responsabili individuati, ma non è sufficiente. Ci vuole un risveglio del senso civico, del bene comune e del rispetto delle leggi anche di fronte a pretesi o presunti torti. Questo spiega anche il perché non c’è collaborazione alcuna nelle indagini da parte dei testimoni e spesso neanche delle vittime.  Insomma non vediamo file di cittadini di buona volontà davanti agli uffici di polizia e carabinieri e alla procura per denunciare o testimoniare circa questi fatti. E quando riusciamo a ricostruirli, scopriamo che in diversi hanno visto o che la vittima era ben consapevole di chi poteva essere l’autore, ma non ne ha fatto alcun cenno formale o informale agli inquirenti”.

In città è presente un fiorente spaccio di droga e sono stante tante le operazioni di polizia giudiziaria per contrastare il fenomeno. Però se ancora se ne parla, vuol dire che c’è ancora tanto da fare….

“La vitalità del settore dello spaccio e del consumo di stupefacenti è purtroppo uno dei fenomeni che più risalta agli occhi. Esso è spesso esercitato da appartenenti a organizzazioni mafiose e talvolta anche in modo diretto. Vale ciò che ho detto prima per l’impegno nel contrasto al fenomeno mafioso”.

Ci sono commercianti ed imprenditori che fanno nomi e cognomi degli estorsori, altri invece no. Cosa si deve fare per portarli sulla strada della denuncia?

“Come evidenziato per gli incendi, anche per altre forme delittuose come le estorsioni o anche i reati di violenza domestica o di genere non registriamo forme di collaborazione spontanee e spesso asserite vittime di fatti reato diventano favoreggiatori, attese le coperture omertose che offrono ai colpevoli. Addirittura durante indagini su fenomeni estorsivi, si assiste a dichiarati estorti che invece chiedevano spontaneamente loro protezione o copertura per azioni di concorrenza più o meno sleale a soggetti appartenenti a gruppi criminali.  Vero è tuttavia che a Gela è operante e attiva con entusiasmo, pur nelle difficoltà di indurre alla collaborazione, la Fai Antiracket ed in particolare l’associazione Antiracket “Gaetano Giordano” che conducono una battaglia sia di sostegno alle vittime che di animazione sociale ed educativa molto importante. Spero che nella costante collaborazione con la Polizia, l’associazione riesca non solo a promuovere la legalità ma a tornare ad indurre le vittime di estorsioni, usura e reati connessi alle attività delle cosche, a denunciare. Da qualche tempo, infatti, registriamo minori o quasi nulli casi di collaborazione nonostante la stessa Associazione si sia meglio organizzata e abbia costituito, anche grazie a finanziamenti Pon, una struttura di assistenza legale, fiscale, aziendale e psicologica. Per indurre più persone alla denuncia, credo dobbiamo insistere nell’opera informativa ed educativa a sostegno delle vittime e rendere ancora più efficiente la rete di sostegno pubblica. Nonostante a Gela i processi vengano celebrati con celerità, poi le funzioni di sostegno alle vittime subiscono talvolta rallentamenti. Per fortuna oggi possiamo dire che se c’è collaborazione, la macchina dello Stato dà forza, sostegno e copertura”.

A Gela si chiede più presenza dello Stato. C’è chi invoca anche l’Esercito. Cosa ci dice in merito?

“L’Esercito – molti fanno finta di dimenticarlo – è stato costantemente presente nei servizi coordinati dall’Autorità di Pubblica Sicurezza sia nelle funzioni di controllo e vigilanza sul territorio che nell’ultimo biennio per i servizi di prevenzione alla diffusione epidemica. Poi bisogna ricordare che nelle funzioni di pubblica sicurezza, i militari dell’Esercito non possono operare senza avere accanto o essere comunque coadiuvati e coperti da poliziotti, carabinieri o finanzieri. In realtà sarebbe opportuno tornare a ricostituire corpi di polizia municipale con numeri congrui di operatori e con formazione adeguata. A Gela ciò sarebbe determinante per consentire a Polizia di Stato, Arma e Guardia di Finanza di essere liberate da funzioni di supplenza delle polizie municipali, nel controllo amministrativo, nella rilevazione di sinistri ed altro; funzioni che la Polizia Municipale gelese, per il numero esiguo degli operatori, non riesce a svolgere da sola.

Poi si pone anche un problema di consapevolezza del ruolo da parte delle polizie locali che spesso in altri territori travalicano le proprie funzioni e dalle nostre parti, invece, dimenticano di avere funzioni di polizia amministrativa, di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria”.

Sono tanti i ragazzi che vengono attratti e ammaliati dal crimine e dal guadagno facile. Come bisogna intervenire?

“Sui giovani bisogna poter contare ma per farlo si pone un’emergenza nazionale che a Gela è ancora più evidente: quella educativa.  Le scuole e la società civile devono essere più attive laddove si registra un’assenza, quando non anche una complicità delle famiglie nella trasmissione di valori negativi: facile guadagno, potere dimostrativo, uso della forza e della prepotenza per affermarsi … Oggi anche le donne invece di essere valorizzate per le loro qualità di persone vengono indotte a fondare la propria immagine su aspetto e facilità di approccio. Credo che il riscatto di questa terra passi per un riscatto del “femminile”. Quando le donne troveranno forza e modo di svolgere appieno il proprio ruolo pubblico ed educativo, secondo i valori costituzionali, sarà stato fatto un passo decisivo. Ogni deviante, ogni delinquente, ogni mafioso, ogni violento, ogni oppressore dei più deboli, in famiglia o nella vita sociale ha ricevuto un “imprinting” materno”.

Cosa si sente di dire ai giovani gelesi?

“I giovani gelesi li ho incontrati in diverse occasioni e devono sentirsi ciò che sono: il presente della nostra società. Dobbiamo essere accanto a loro per sostenerli e condurre per loro e con loro la battaglia per la bellezza di questa terra che non può prescindere dal rispetto delle regole, degli altri e dell’ambiente. Il valore fondante deve essere quello di declinare ogni proprio comportamento nel rispetto del bene comune”.

Il prossimo 19 luglio ricorrerà il trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, tra cui la poliziotta Emanuela Loi alla cui memoria è dedicata la sala conferenze della Questura di Caltanissetta. Cosa ha lasciato in lei quel tragico episodio, avvenuto 53 giorni dopo la strage di Capaci?

“I morti delle stragi, le vittime della stagione stragista mafiosa e prima terroristica, poi della mafia che ha usato metodi terroristici, sono uno sprone. I colleghi, i magistrati, tutti coloro che sono stati vittime di mafia con il loro sangue e sacrificio, ci hanno lasciato un esempio straordinario: non sono eroi e non aspiravano ad esserlo. Sono persone per bene che hanno deciso di fare il proprio dovere con onore e disciplina, così come recita l’articolo 54 della costituzione. La strage di via D’Amelio è innanzitutto un impegno investigativo ancora in corso. Molto è stato chiarito nonostante i depistaggi, ma altro deve ancora essere accertato e posto al giudizio dei cittadini”.

Perché ha scelto di intraprendere questa professione?

“Ho scelto di fare il poliziotto per via della mia formazione negli anni dell’adolescenza e giovanili. Studiavo giurisprudenza e facevo volontariato ed ero molto attivo, a Catania, nella comunità parrocchiale e tra i gruppi giovanili cattolici e non. L’uccisione prima del Generale Dalla Chiesa e poi di Montana e Cassarà e di Pippo Fava ci colpirono molto e cominciammo a rivolgere l’attenzione all’azione di contrasto civile alla mafia e all’illegalità.  Quindi appena laureato feci il concorso da commissario di Polizia e lo vinsi subito. Ero già in servizio a 26 anni”.

Ritorniamo alle origini. Adesso che è ritornato in Sicilia, può nuovamente parlare in dialetto…

“Tornare a sentirmi immerso nel dialetto siciliano è una sensazione bellissima. Per trent’anni, avendo lavorato soprattutto al Nord, era occasionale trovare con chi usarlo ed era quasi un divertimento osservare chi non lo conosce, guardarci con occhi interrogativi. Il siciliano è una lingua considerata tale e non per nulla viene valutato siciliano quello in uso anche in gran parte della Calabria e nelle province di Taranto e Lecce che poi si divide in forme locali di dialetto. È stato il siciliano volgare (grazie a Federico II e ai poeti di corte) a far nascere e diffondere il volgare toscano da cui scaturì l’Italiano immortalato da Dante. Amo la Sicilia e la sua storia, in particolare la figura di Federico II cui credo si debba il primo vero concetto di amministrazione moderna e di Regno attento alle esigenze popolari e non solo delle aristocrazie”.

Ipse Dixit

“Attenzione massima su Gela. A presto, un nuovo presidio per la Guardia di Finanza”

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Preparatissimo in diritto penale tributario e dell’economia, con un passato come docente all’università Externardo di Bogotà e, in diritto amministrativo, alla scuola della Procura dell’Amministrazione di Panama, il colonnello Stefano Gesuelli, ha sempre sognato di indossare la divisa. Fin da ragazzino.

“Quando frequentavo le scuole medie a Roma desideravo di entrare nell’Accademia dell’Aeronautica e fare il pilota militare come mio nonno. Dato che all’epoca l’unica Accademia militare presente a Roma era quella della Guardia di Finanza, i miei genitori, per assecondare quel mio desiderio, mi portavano a vedere le cerimonie e i giuramenti della Finanza; così, a poco a poco, negli anni del Liceo, il Corpo ha soppiantato a poco a poco l’Aeronautica e ho iniziato a capire meglio i compiti e le responsabilità che avrei potuto assumere. Così che, durante l’ultimo anno di liceo, ho tentato il concorso in Accademia e, due mesi dopo la maturità, ho avuto il privilegio di entrare dal portone di ingresso del massimo Istituto del Corpo che, nel frattempo, si era trasferito a Bergamo. Una scelta di cui non mi sono mai pentito, anzi”.

Il prossimo 31 luglio, compirà quattro anni alla guida del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Caltanissetta. Il suo è un curriculum eccellente. Ha ricoperto, tra l’altro, i ruoli di esperto della Guardia di Finanza presso l’Ambasciata d’Italia in Panama e la Segreteria Esecutiva del Centro Interamericano delle Amministrazioni Tributarie con accreditamento secondario in Colombia, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana e Isole Cayman e di capo della Sezione Fiscalità e dell’Ufficio Cooperazione Internazionale del Comando Generale del Corpo. Portano il suo nome anche gli incarichi in varie attività di analisi e intelligence e in quelle operative in campo amministrativo e penale.

Colonnello, soffermiamoci sulla nostra provincia. Com’è organizzata la Guardia di Finanza sul territorio?

“La Guardia di Finanza presidia le tre principali zone geografiche ed economiche della provincia di Caltanissetta attraverso i propri Reparti Territoriali: i due Gruppi di Caltanissetta e Gela, che hanno responsabilità sulle aree del Capoluogo e della piana di Gela e dei territori di Niscemi e Mazzarino, e la Tenenza di Mussomeli che ha la propria area di competenza nel Vallone. A questi Reparti, si aggiunge il Nucleo di Polizia Economico Finanziaria che ha competenza su tutta la provincia per quei servizi di polizia economico-finanziaria di maggiore complessità e interdisciplinarità e, con la sua componente specialistica di Polizia Giudiziaria (il Gico), ha la responsabilità in tema di indagini sulla criminalità organizzata in tutto il Distretto della Corte d’Appello di Caltanissetta che include anche la provincia di Enna. Il Corpo si è quindi dato un’organizzazione capace di rispondere alle esigenze del territorio anche se concentrata al fine di massimizzare l’efficienza con il personale a disposizione. Si sta comunque valutando l’istituzione di nuovi reparti, con particolare riferimento all’area di Mazzarino e Riesi, al fine di dare una risposta ancora più efficace alla richiesta di legalità economico-finanziaria di quel territorio”.

Su quale versante specifico concentrate maggiormente le vostre indagini?

“La Guardia di Finanza è la Polizia economico-finanziaria del nostro Paese. Conseguentemente, l’attività di indagine si concentra maggiormente su tutte quelle fattispecie di violazioni amministrative e penali che provocano danno alla Finanza Pubblica, sia sul versante entrate che spese dello Stato, e su quelle che alterano i mercati e la concorrenza. Per rendere più semplice il concetto che potrebbe sembrare astruso: anche quando svolgiamo indagini su un’organizzazione che traffica droga, cerchiamo sempre di contrastare non solo l’acquisto e la vendita dello stupefacente, ma anche i flussi di denaro che ne derivano, le aziende nelle quali vengono reinvestiti i proventi, i canali finanziari utilizzati, ed altro ancora. Questo rende la Guardia di Finanza unica a livello mondiale per la capacità di affrontare complessivamente tutti i fenomeni illeciti di natura economico-finanziaria, potendo contare su un insieme di poteri assolutamente peculiari, che conciliano le esigenze di carattere amministrativo con le indagini penali e antiriciclaggio, unitamente a una disponibilità di banche dati unica nel panorama nazionale ed internazionale”.

Che idea si è fatto in questi anni della provincia di Caltanissetta?

“La prima cosa che ho notato di questa provincia è il territorio meraviglioso che caratterizza l’interno della Sicilia. Un territorio di una bellezza incredibile che andrebbe ancora di più valorizzato e fatto conoscere al di fuori della Regione. Poi esistono luoghi veramente molto belli anche dal punto di vista storico e architettonico, come il centro storico di Caltanissetta, il Castello di Mussomeli e le chiese di Mazzarino, solo per citarne alcuni. Credo fermamente che anche dal punto di vista economico la provincia abbia tante potenzialità, in particolare per quanto riguarda la logistica, in virtù della centralità geografica. Forse proprio dalla logistica si potrebbe partire sia per incrementare le attività economiche che per sviluppare ancora di più le opportunità accademiche offerte dal Consorzio universitario e dai tanti progetti che alcuni comuni vogliono realizzare”.

E di Gela?

“Gela è una realtà assolutamente unica che merita un discorso a parte. È indubbio che le opportunità offerte dalla presenza della Raffineria abbiano storicamente caratterizzato lo sviluppo economico della città verso quelle attività e i servizi dell’indotto. Ma Gela, per la sua particolare localizzazione, per il clima e per la vivacità della sua economia non dovrebbe dimenticare la lezione che le viene dalla sua storia. Essere il cuore pulsante della costa meridionale della Sicilia dal punto di vista economico, sociale e culturale. Le potenzialità connesse al turismo e al commercio, ora che la Raffineria sta completando il processo di riconversione, andrebbero maggiormente approfondite e sviluppate per fare di Gela una realtà economicamente ancora più rilevante nella Regione e, perché no, a livello di Italia Meridionale”.

A Gela sono tanti i fenomeni criminosi che quotidianamente riempiono le cronache e conseguentemente sono molteplici gli incontri urgenti del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, indetti e presieduti dal Prefetto. Dopo un periodo di calma apparente, però, subito dopo si torna al punto di partenza. Come legge quanto accade?

“Certamente la percezione di sicurezza data dalle notizie pubblicate in questo primo periodo dell’anno potrebbero indurre a vedere la situazione di sicurezza in netto peggioramento. I dati reali, però, ci danno un’indicazione diversa. La maggior parte dei danneggiamenti avvenuti è stata ricondotta a precise responsabilità e non ha alcuna relazione con fenomeni di criminalità organizzata. Gli sforzi delle tre Forze di Polizia nella città sono massimi, anche nel contrastare i traffici di stupefacenti e la presenza di armi, segnalata più volte dalle Procure di Caltanissetta e di Gela. L’attenzione del Comitato per l’ordine e la sicurezza Pubblica, guidato con capacità ed equilibrio dal Prefetto, è sempre massima, proprio per cogliere eventuali segnali di un peggioramento della situazione. Credo fermamente che molto si stia facendo, e bene, sul territorio, con risultati che sono per ora incoraggianti. Ovvio che non si deve perdere di vista la necessità di essere presenti e, proprio a tal fine, la Guardia di Finanza sta recuperando, grazie all’appoggio della Bioraffineria Eni, una caserma non più utilizzata, per permetterci di alloggiare più personale e unità cinofile antidroga, proprio per dare ulteriori risposte a questa necessità di sicurezza avvertita dalla società civile. Si tratta di un progetto in dirittura d’arrivo che mi rende molto fiero e mi auguro possa aiutare a disporre di più finanzieri sul territorio”.

Indagini e successivi procedimenti penali, hanno appurato l’esistenza a Gela di un vasto mercato della droga. Dove e come bisogna intervenire per stroncare il flusso continuo di stupefacenti?

“Il traffico di droga è una delle attività maggiormente lucrative per la criminalità organizzata e comune; per questo, richiama sempre l’attenzione delle nostre indagini anche al fine di eliminare le possibilità di reimpiego delle ingenti somme ottenute nei mercati leciti. Gela si trova al centro di un’area geografica da sempre interessata a questi traffici sia via mare che via terra e, soprattutto, che vanta un numero elevato di abitanti, tra i quali una rilevante popolazione giovane. Purtroppo, il tema degli stupefacenti sta avendo negli ultimi decenni una sempre maggiore accettazione “sociale” che rende il problema rilevante prima di tutto sotto il profilo educativo e di presenza dei servizi. Il solo contrasto ai traffici non rappresenta l’unica risposta possibile perché il solo sequestro delle sostanze e gli arresti connessi, di fatto, rendono solo più scarsa la risorsa, aumentandone il prezzo e, conseguentemente, i profitti per i criminali. Bisogna quindi agire su più fronti, potenziando Sert e Servizi sociali, affinando le politiche educative e, certamente, rendendo più efficaci le attività di controllo del territorio e di contrasto da parte delle Forze di Polizia”.

Ultimamente avete acceso i riflettori sul sistema del servizio idrico integrato nel Nisseno. L’inchiesta riguarda la gestione dell’erogazione, la ricerca di eventuali reati di natura economica, la non potabilità dell’acqua, l’inquinamento ambientale e le eventuali cause e responsabilità. Cosa dobbiamo aspettarci dall’indagine ancora alle fasi preliminari?

“Ogni attività di indagine è sotto la direzione della Procura della Repubblica ed è volta a verificare la sussistenza di eventuali elementi di responsabilità penale idonei a un giudizio prognostico di colpevolezza. Nella fase delle indagini preliminari si cercano tali elementi con totale garanzia degli eventuali indagati e quindi, allo stato, è assolutamente prematuro anticipare qualunque conclusione. Quello che ci si può aspettare in questo momento è lo svolgimento di attività istruttorie caratterizzate dal massimo rigore e garanzie processuali, per pervenire il prima possibile a un convincimento della Procura circa la sussistenza o meno di fattispecie di reato. Il tema della gestione del servizio idrico integrato è della massima importanza per la popolazione della nostra provincia e per questo merita un sereno ed approfondito esame per comprendere le dinamiche e le azioni che hanno portato alla situazione attuale e verificare la loro rispondenza alla normativa vigente, soprattutto per rispetto dei costi pagati dai cittadini e delle risorse immesse a carico dell’Erario pubblico”.

Le verifiche presso sedi di lavoro, a Gela, che gravi irregolarità fanno emergere?

“Il tema delle verifiche presso le sedi di attività commerciali o imprese è alla costante attenzione del Corpo anche in collaborazione con altre amministrazioni dello Stato. Le irregolarità che più spesso si verificano, riguardano la presenza di lavoratori in nero, in particolare nella stagione estiva durante il periodo della Movida o quando le attività connesse all’agricoltura sono più intense, e il mancato versamento delle contribuzioni obbligatorie. In qualche caso, si verificano vere e proprie “estorsioni” in danno dei lavoratori che, in cambio del contratto di lavoro, devono “restituire” una parte del proprio salario al datore di lavoro”.

È un problema culturale, frutto di una mentalità sbagliata, quello che porta ad affrontare la questione degli obblighi fiscali e previdenziali in maniera distorta dalle regole?

“Una volta ho sentito dire da un professore di diritto tributario che le persone vanno cantando a fare la guerra ma mai si sente qualcuno cantare quando deve pagare le proprie imposte. E non era un professore italiano, quindi il problema è evidentemente generalizzato. Si tratta certamente di un problema culturale e di educazione quello per il quale non si comprende come il pagamento delle imposte consenta allo Stato di fornire quei servizi pubblici che rendono una comunità sociale sempre più avanzata e solidale. Pensare che in Italia disponiamo di istruzione e sanità gratuite e date a tutti dallo Stato mentre altri Paesi economicamente avanzati non danno gli stessi servizi dovrebbe far riflettere. Allo stesso tempo, però, è fondamentale che lo Stato dia prova di essere capace di fornire tali servizi perché, altrimenti, qualcuno potrà sentirsi “giustificato” a non dare il proprio contributo nella maniera corretta. Per questo reputo fondamentale la missione della Guardia di Finanza di controllare il corretto adempimento tributario ma anche, allo stesso tempo, la correttezza della spesa pubblica e di come ogni euro di prelievo debba essere destinato ad una corretta finalità di interesse pubblico”

Usura, riciclaggio, truffe e frodi, pratiche commerciali pericolose per i cittadini. Quanto sono diffusi questi reati in provincia?

“Purtroppo, alcuni di questi reati sono molto diffusi e non solo in questa provincia. Mentre per certi reati come le frodi in commercio, è possibile svolgere indagini anche in assenza di denunce che servano da “fonte di innesco”, per altri come l’usura è molto difficile avere elementi utili per iniziare un’investigazione senza input da parte delle vittime. E in questo senso è fondamentale la presenza di associazioni antiracket serie e volenterose che possano rappresentare un primo collettore di eventuali situazioni critiche sia sul versante dell’estorsione che su quello dell’usura. È importante, comunque, che i cittadini sentano vicine le Istituzioni e collaborino denunciando eventuali condotte e anche solo rivolgendosi alle Autorità preposte in ogni caso di dubbio circa attività che potrebbero essere illecite”.

Sono continui i vostri controlli per garantire che i fondi del Pnrr siano utilizzati correttamente. Avete sentore che qualcuno li possa distrarre?

“La Guardia di Finanza è preposta ai controlli in tema di spese pubbliche e, per questa ragione, è tra gli attori riconosciuti dalla normativa in tema di controlli sul Pnrr. Proprio a tal fine, il Comando Provinciale di Caltanissetta ha firmato numerosi protocolli con i principali comuni della provincia, tra i quali Gela e Niscemi, per collaborare ancora più da vicino al fine di individuare eventuali condotte illecite tese a distrarre tali ingenti risorse dalle finalità istituzionali. E tali protocolli prevedono anche una parte di formazione per i funzionari pubblici incaricati della spesa, al fine di creare una collaborazione e una sinergia sempre più efficace e rendere più efficiente e legalmente orientata la gestione di tali progettualità. Anche se la maggior parte dei fondi ancora non è arrivata nella provincia per la “messa a terra” dei progetti, abbiamo già avviato, sia in collaborazione con i Comuni che di iniziativa, una serie di controlli che hanno evidenziato alcune irregolarità. Attendiamo i prossimi mesi per svolgere controlli ancora più penetranti sui progetti che abbiamo iniziato a monitorare”.

D’accordo che per fare crescere un territorio, per incrementare lo sviluppo, un ruolo determinante devono assumerlo le associazioni datoriali e di categoria?

“Sono fermamente convinto che il dialogo con le associazioni datoriali e di categoria sia fondamentale per una moderna Polizia Economico-Finanziaria quale la Guardia di Finanza. Non è possibile seguire le dinamiche economiche di un territorio se si prescinde da una dialettica aperta e trasparente con i soggetti che quel territorio fanno vivere ed evolvere con il proprio lavoro e, spesso, con grandi sacrifici. Già negli scorsi anni abbiamo svolto numerosi eventi con alcuni ordini professionali e associazioni imprenditoriali, finalizzati proprio a costruire questo dialogo apportando esperienze e cercando di creare un ambiente il più possibile sereno tra il Corpo e la società civile della provincia. Una crescita del nostro territorio è possibile solamente se tutti gli attori coinvolti svolgono un ruolo consapevole e trasparente; per quello ritengo che la partecipazione della Guardia di Finanza a iniziative di dialogo sia sempre fondamentale per far conoscere le proprie linee di azione, per depotenziare eventuali conflitti e per garantire un ambiente economico e imprenditoriale sereno che contribuisca alla crescita di Gela e di tutta la provincia”.

Entriamo nel dettaglio dell’ultimo incarico che lei ha portato a compimento, prima di arrivare a Caltanissetta: esperto della Guardia di Finanza presso l’Ambasciata d’Italia in Panama e la Segreteria Esecutiva del Centro Interamericano delle Amministrazioni Tributarie con accreditamento secondario in Colombia, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana e Isole Cayman

“I campi principali nei quali sono impiegati gli Esperti della Guardia di Finanza presso le Ambasciate italiane all’estero sono la lotta all’evasione fiscale e alla criminalità economico- finanziaria, il contrasto alla corruzione, alla contraffazione e la tutela del Made in Italy. Un altro settore di stretta cooperazione con le Ambasciate è quello della lotta alla dimensione finanziaria delle organizzazioni terroristiche e dell’applicazione delle sanzioni internazionali. Inoltre, la peculiarità del mio incarico a Panama aveva anche dei riflessi importanti quale corrispondente dell’Amministrazione Tributaria italiana presso un organismo internazionale che riunisce tutte le istituzioni tributarie delle Americhe e molte altre europee, asiatiche e africane. Proprio in questo ambito assumeva quindi grande importanza quello di sviluppare rapporti con le Amministrazioni estere, anche quelle con le quali non esistono strumenti formali di cooperazione, per raccogliere più agevolmente e rapidamente informazioni di interesse e promuovere lo scambio di esperienze e la formazione, per migliorare globalmente il contrasto ai crimini economico-finanziari. “Esportare” e far conoscere le peculiarità e le esperienze maturate dalla Guardia di Finanza nel mondo, anche in contesti molto diversi per cultura giuridica e mentalità, è stata un’esperienza importantissima che mi ha regalato moltissime soddisfazioni e grandi amicizie che personalità estere che mi hanno arricchito sia personalmente che professionalmente”.

Dal 1990 (anno di ingresso nella Guardia di Finanza) ad oggi, ha avuto tantissime esperienze. Qual è quella che ricorda con piacere e perché?

“Devo dire di essere stato fortunato per aver svolto compiti diversi sempre di grande soddisfazione e responsabilità. Ho avuto la possibilità di comandare Reparti del Corpo fin dal termine dell’Accademia, sono stato a più riprese presso lo Stato Maggiore del Corpo e in Amministrazioni esterne, sono stato più volte all’estero. E tutte queste esperienze per quanto differenti e, in alcuni casi, anche difficili ed impegnative, mi hanno lasciato bellissimi ricordi anche e soprattutto per le persone con le quali ho avuto il piacere di lavorare. Forse un’esperienza che ricordo sempre con piacere, e forse un po’ di nostalgia, è l’incarico di Comandante di Tenenza. Si trattava della prima destinazione al termine del corso quinquennale in Accademia e l’emozione era tantissima. Ero al comando di 87 persone tutte anagraficamente più grandi di me che avevo 23 anni. Ricordo con piacere le esperienze fatte, le persone incontrate e gli insegnamenti ricevuti e, alla fine, anche gli errori fatti, perché mi hanno fatto crescere come persona e come professionista. E poi non si possono non ricordare con piacere i propri venti anni…”

Ha mai temuto per la sua vita?

“A Panama, in due occasioni, ci sono stati degli episodi poco “simpatici” dai quali forse sarei potuto non uscire in piena salute. Ma timore devo dire di non averne avuto e non lo dico per dimostrare coraggio. Anzi, probabilmente c’è stata solo un po’ di incoscienza e mancata comprensione, nell’immediato, delle conseguenze di talune azioni. Comunque, mai mi sono trovato a pensare di non andare avanti su una certa strada o perseguire certe situazioni, soprattutto sul piano lavorativo. Le situazioni si affrontano con consapevolezza e si ragiona sulla strategia migliore per arrivare al risultato con i minori rischi o, almeno, una dose accettabile e gestibile di rischio per tutti”.

Se tornasse indietro, rifarebbe tutto quello che ha fatto?

“Sì. Senza dubbio. Ho avuto la possibilità di vivere esperienze e situazioni uniche, conoscere tante persone eccezionali. Quindi tutto quello che ho vissuto e sto vivendo tuttora forma parte di un “viaggio” unico che mi ha portato ad essere la persona che sono. E devo dire che mi piace quello che sono diventato, pur con i tanti difetti che ogni essere umano si porta dietro”.

Ha un rimorso?

“Tito Livio scriveva “Dimentichiamo quello che è già successo, perché ci si può lamentare, ma non tornare indietro”, quindi non ho particolari rimorsi. Certo con l’esperienza e “il senno di poi” di cui siamo fin troppo pieni, avrei cambiato alcune decisioni prese nel tempo, ma sono convinto che si agisca con le carte che si hanno in mano e quindi sia inutile abbandonarsi ai rimorsi successivamente. Ma da tutto si possono trarre esperienze e ammonimenti per il futuro e, forse, l’unico rimorso che potrei avere sarebbe nel caso in cui non fossi riuscito a fare abbastanza tesoro di tutto questo”.

Cosa ammira dei suoi uomini?

“Arrivando in Sicilia da un’esperienza così diversa come quella del Centro America, ho trovato in tutti i miei colleghi una grandissima preparazione professionale che forse non mi aspettavo in questi termini di assoluta eccellenza. Proprio questa capacità ammiro in tutti loro; indipendentemente dal tipo di lavoro che svolgono l’impegno in quello che fanno è sempre massimo e i risultati sono evidenti. Poi ho iniziato ad apprezzare sempre di più le doti umane di ognuno di loro, che mi sembrano il tratto comune di molti siciliani: la disponibilità, la serietà, la coerenza nel portare avanti i propri propositi. Devo dire che per me tutto questo è stato una scoperta e soprattutto un esempio che cerco di onorare ogni giorno mettendo tutti, nei limiti delle mie possibilità, in grado di lavorare al meglio”.

Quale libro sta leggendo ultimamente?

“Da pochissimo ho letto nuovamente, dopo parecchi anni, il libro Uomo di Rispetto di Enzo Russo, autore che ho conosciuto personalmente qui in provincia e che stimo per la cultura, la capacità nello scrivere e l’acume nel descrivere situazioni e personaggi. Devo dire che rileggere questo libro dopo tanti anni e, soprattutto, dopo aver conosciuto i luoghi e le situazioni descritte mi ha fatto parecchio effetto e mi ha aiutato a comprendere meglio tanti aspetti del libro e della storia in esso raccontata. Da pochissimo invece ho iniziato a leggere La isla de la mujer dormida dello scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte che racconta una storia completamente diversa ambientata negli anni ’30 tra guerra civile spagnola, ideali contrapposti e amori su un’isola greca dell’Egeo che dà il nome al libro (Isola della donna addormentata). Molto appassionante per ora come tutti i romanzi dello stesso autore”.

L’ultimo film che ha visto al cinema?

“Ho appena visto “Eden”, diretto da Ron Howard, che ci porta a un 1929 che vede in Europa la fine di molte democrazie, la nascita di dittature, e i venti di guerra. Il film è tratto da una storia non solo vera, ma documentata e in parte filmata, e ci fa capire che per quanto si cerchi di scappare da certe situazioni, ci si porta sempre dentro una carica di violenza, di sopruso, di manipolazione che possono esplodere da un momento all’altro, come accade ai protagonisti di questa storia che si ritrovano in un’isola nelle Galapagos pensando di essersi lasciati gli sbagli delle loro società alle spalle e ritrovandosi, invece, in una situazione ancora peggiore. Forse non è un film pienamente riuscito, che presenta qualche eccesso di melodramma, ma la storia è interessantissima e le prove degli attori veramente eccezionali. Me lo sono visto davvero volentieri e la colonna sonora di Hans Zimmer è bellissima”.

Segue il calcio?

“Si”

Roma o Lazio?

“Laziale da generazione…”

Qual è il suo giudizio sul campionato dei biancocelesti con Baroni in panchina?

“Roma è una piazza difficilissima per qualunque allenatore al primo anno con una squadra fortemente rinnovata: questo dovrebbe quindi essere un periodo di transizione per comprendere le potenzialità del progetto. Baroni e la squadra hanno fatto una grandissima prima parte della stagione che nessuno si aspettava. Ha avuto un calo da dicembre fino a qualche partita fa, eliminazione dall’Europa League compresa, ma mi auguro che si riesca ancora a dare risalto a quanto di buono è stato fatto e magari porre le premesse per il prossimo anno. Nessuno dava credito a questo progetto e, onestamente, sono rimasto molto sorpreso da alcune ottime prestazioni e da alcuni singoli che hanno avuto un’evoluzione incredibile. Speriamo che prima o poi qualche risultato di rilievo arrivi…incrociamo le dita”.

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Ipse Dixit

Don Angelo Ventura: “I giovani devono essere ascoltati e non giudicati”

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Sorpreso dalla richiesta di intervista, ribatte istintivamente: “E’ un pesce d’Aprile?”. Assolutamente no, tutt’altro. Disquisire di vari argomenti con don Angelo Ventura, gelese e fiero di esserlo, personalmente lo ritengo un vero piacere. Non si sottrae ad alcuna domanda “perché – dice – il mestiere del giornalista è fatto di domande, anche scomode, alle quali bisogna rispondere. Con garbo. Per il rispetto di chi legge”. Nato a Gela il 18 luglio del 1980, dopo avere ottenuto il diploma all’istituto professionale, scopre e vive la propria vocazione. Con speranza e coraggio, riconoscendola come un dono d’amore e servizio, avverte la presenza di Dio e intraprende il cammino verso la felicità autentica che lo indirizza al seminario Vescovile di Piazza Armerina. E’ il settembre del 2001.Frequenta la facoltà teologica di Sicilia a Palermo e consegue il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia. Dopo l’esperienza da diacono nel 2008, un anno dopo viene ordinato sacerdote dal Vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, Michele Pennisi. Attualmente guida la parrocchia Maria Santissima di Lourdes in Sant’Anna ad Aidone, nell’Ennese. 

“Dal 2018 vivo la mia esperienza Pastorale presso questa comunità Parrocchiale, prima come Amministratore e poi come Parroco dal 2021. La Parrocchia, prima del mio ingresso, ha avuto parecchie vicissitudini con l’avvicendarsi di diversi sacerdoti in poco tempo, causando nei fedeli frammentarietà e instabilità nelle attività pastorali, una comunità ferita e delusa. In poco tempo si è creata una bella sinergia tra i parrocchiani e il suo parroco. Ho dovuto risistemare e dare nuova dignità sia all’aula liturgica sia ai locali adiacenti, adibiti a aule catechistiche. La sede è una Chiesa Francescana del 1600 che custodisce molte opere di grande prestigio, tra cui un crocifisso ligneo del 1633 di Fra Umile da Petralia e altre opere di notevole prestigio artistico. Era anche il tempio della Città di Aido, considerato che al suo interno sono presenti epitaffi del tempo, che hanno dato lustro sia alla città di Aidone che alla Chiesa, foraggiando i Frati e arricchendola di arredi e pareti che ai locali adiacenti, adibiti ad aule catechistiche. A fianco della chiesa sorgeva il convento dei Frati Riformati e ancora si può ammirare una parte dell’antico chiostro, e un grande giardino, curato dalla Confraternita del Santissimo Crocifisso, dove hanno la loro sede. Al di là delle migliorie strutturali e dell’arricchimento degli arredi liturgici, la mia più grande soddisfazione è vedere una comunità vivace e propositiva, zelante e in continua crescita. Aidone è un piccolo centro abitato, meno di 5000 abitanti, ma tra bambini del Catechismo e gli Scout del Gruppo Agesci, sono un centinaio i ragazzi che frequentano la mia Parrocchia”. 

Dall’anno scorso, ricopri anche l’incarico di Vice Cancelliere del Tribunale Ecclesiastico Diocesano di Piazza Armerina e Notaio dello stesso tribunale. In cosa consiste?

“Come ci ricorda la costituzione ‘Sacrosanctum Concilium’ del Vaticano II, la Chiesa ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili. La dimensione umana e visibile della Chiesa si attua in una struttura organizzativa comprendente le norme che disciplinano le relazioni dei soggetti che a essa appartengono, cioè i battezzati. La struttura organizzativa costituisce un vero e proprio ordinamento giuridico (Codice di Diritto Canonico) dotato di indipendenza e sovranità, che presenta tuttavia caratteristiche del tutto peculiari e diverse rispetto agli ordinamenti statali, in quanto si fonda su presupposti teologici e tende a una finalità spirituale e ultraterrena. Ogni vescovo diocesano è giudice di prima istanza ed è tenuto a costituire un tribunale nell’ambito della sua diocesi. In definitiva i tribunali della Chiesa sono competenti in maniera esclusiva per la conoscenza delle questioni di natura spirituale, come ad esempio stabilire la validità o meno di un sacramento. Il Tribunale Ecclesiastico della nostra diocesi di Piazza Armerina è Tribunale di prima istanza, per le cause di Nullità Matrimoniale e Tribunale di seconda istanza per la diocesi di Agrigento. Il mio ruolo consiste nel custodire l’archivio ufficiale, ho il compito di notaio durante le deposizione delle Parti e dei Testi, mi occupo della stesura dei vari decreti e degli atti che si producono durante l’istruttoria processuale e la loro pubblicazione, li certifico e controfirmo. La mia firma fa fede pubblica”.

Troppi scandali nella chiesa. Pedofilia e abusi anche da parte di sacerdoti…È una ferita aperta 

“Dici bene, è una grande ferita aperta che gronda sangue di tutte quelle vittime innocenti, tradite da chi doveva curarli, sanare le ferite dei cuori spezzati e non tradire la fiducia di chi aveva messo nelle loro mani le loro vite, per incontrare Cristo datore di ogni speranza. Siamo chiamati tutti, ma soprattutto noi preti, a un rinnovato e perenne impegno alla Santità, conformandoci a Cristo Buon pastore. Mi affido al monito di Papa Francesco che avverte: «Il consacrato, scelto da Dio per guidare le anime alla salvezza, si lascia soggiogare dalla propria fragilità umana, o dalla propria malattia, diventando così uno strumento di Satana. Negli abusi noi vediamo la mano del male che non risparmia neanche l’innocenza dei bambini». Il vangelo secondo Marco riporta: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare». La Chiesa si sente chiamata a combattere questo male che tocca il centro della sua missione: annunciare il Vangelo ai piccoli e proteggerli dai lupi voraci. Gli scandali, purtroppo, ci sono sempre stati, ma la Chiesa è di Cristo e noi sappiamo che le porte degli inferi non prevarranno su di essa. Ecco perché nella Chiesa è cresciuta la consapevolezza di dovere non solo cercare di arginare gli abusi gravissimi con misure disciplinari e processi civili e canonici, ma anche affrontare con decisione il fenomeno sia all’interno sia all’esterno della Chiesa. Ci si affida al Giudizio di Dio, per prendere coscienza, affinché ci si converta e si faccia penitenza per il peccato commesso. Ci si affida anche alla giustizia terrena perché sia stabilita la giusta serenità tra le parti. Siamo consapevoli che ogni reato è peccato. Sappiamo che il Signore non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. Questo non significa giustificare il reo né tantomeno “far finta che non sia successo nulla”, ma lavorare su due fronti: uno Spiritale, il Processo Canonico, che ha lo scopo di far riflettere sulla scelta di vita che il ministro ha fatto, la sua maturità affettiva e la sua relazione con il Signore. Dall’altro canto, il Processo Civile, quando il peccato è anche reato, ci si affida alla giustizia dello stato, perché si faccia chiarezza e si possa arrivare alla verità, in nome del popolo Italiano di cui noi facciamo parte. Una vera purificazione delle coscienze”. 

Come leggi gli ultimi report in cui si evince che diversi giovani sacerdoti lasciano il Ministero? Dove cercare le cause di quanto accade? 

“Essere prete è una grazia da vivere sempre con gioia e speranza, a servizio della Chiesa giorno dopo giorno. Un impegno da esercitare, appunto, con speranza, sapendo che la gioia cristiana non è frutto dei risultati sperati, che l’attività, la competenza o le coincidenze possono raccogliere meno di quanto ci si attendeva; non è frutto della popolarità di cui un prete può godere, non è frutto di condizioni di vita favorevoli o garantite che dà valore alla nostra vocazione ma è lo stare con Gesù che ci dà la forza di vivere la missione nonostante tutto. Noi non annunciamo noi stessi ma Cristo morto e risorto. Perciò la letizia nella speranza non sarà cancellata o soffocata, anche quando ci sarà dato di sperimentare risultati stentati, di attraversare l’impopolarità delle scelte e della parola anticonformista, per essere coerenti con la nostra missione. La potenza di Dio si dimostra perfetta nella debolezza umana e il Signore può servirsi di te malgrado la tua debolezza, anzi è determinato a portare a termine i suoi obiettivi attraverso uomini che hanno delle debolezze. Cioè incapaci, non abili per un servizio o uno scopo, carenti, incerti, con delle lacune, aggiungo qualche altro sinonimo: arrendevole, fragile, fiacco, incerto, malandato, precario, stanco, carente…Ebbene il Signore nella nostra debolezza ci dà la forza. La logica di Dio che stride con la logica del mondo che ci mostra tutto il contrario. San Paolo aveva compreso bene che nella debolezza dimora la virtù di Cristo, accettò di buon grado la risposta della sua preghiera. San Paolo può compiacersi; in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo. Quando si spegne l’entusiasmo, quando ci si lascia sopraffare delle difficoltà e soprattutto quando non si alimenta lo Spirito nella Preghiera, quando si smarrisce la consapevolezza che il nostro primo compito è stare con Gesù, per poi vivere la missione dell’annuncio gioioso del Vangelo, non ci si trova più nella scelta fatta e si torna indietro o peggio ancora ci si rifugia nei surrogati e si cerca il senso della vita in dei vicoli ciechi. Il sacerdozio è una scelta da vivere contro corrente, oggi più che mai è una scelta radicale di vita. Calano drasticamente le vocazioni e i seminari sono sempre più vuoti. La realtà deve interrogare tutti e non solo gli “addetti ai lavori” principalmente riflettiamo su come viviamo la testimonianza della nostra fede in un mondo che cambia”.

Quando e come hai sentito la chiamata?

“Parto da quello che ha detto un celebre Frate domenicano, padre Sertillanges: “la vocazione è quello che uno è”. Ogni storia vocazionale è una storia a sé, ci può essere un’esperienza simile ma mai uguale. Così è ogni storia vocazionale, unica e irripetibile. Mi vengono in mente le parole del Profeta Geremia parlando della Parola che Dio gli rivolge quando lo sceglie per una missione, quella di diventare portatore di una Parola non sua: “Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; e prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni”. Sono cresciuto in una famiglia molto religiosa e dai sani principi. Ho imparato a pregare dai miei genitori e dai miei nonni materni. Dalla mia famiglia sono nate molte vocazioni sia alla vita consacrata che al sacerdozio, posso dire, con una battuta che sono “figlio d’arte”. Credo che da sempre abbia avvertito la chiamata al Sacerdozio. Da piccolo facevo il ministrante in Chiesa Madre, ricordo che non volevano farmelo fare perché non avevo fatto la prima Comunione e piangevo a mio nonno che mi “raccomandasse” al parroco per poterlo fare. Finalmente mi fu accordato, forse per l’insistenza e la costanza nel chiedere. Ero felicissimo e orgoglioso di essere ministrante. Coltivavo già in me il desiderio di diventare prete, servivo la Messa e amavo indossare quella tunichetta nera con la cotta bianca, mi preparavo molto tempo prima della Messa per scendere tra i banchi della chiesa e farmi salutare dalla gente. La mia difficoltà da bambino, che ostacolava il mio cammino verso il sacerdozio, era la paura di eseguire l’omelia. Crescevo tra scuola, amici e Parrocchia. Sotto la guida sapiente del mio Parroco, il compianto monsignor Grazio Alabiso, ho imparato a vivere la fede nonostante i nostri limiti umani e la nostra incredulità”.

Poi, cosa è successo?

“Arriva il tempo dell’adolescenza e dei primi amori. Conosco una ragazza, che frequentava il mio stesso gruppo giovanile della Parrocchia, e mi innamoro di lei. Ci sono voluti ben nove mesi di corteggiamento (storie di altri tempi), e finalmente, dopo mille dichiarazioni mi dice di “si”. Ero euforico e molto innamorato. Continuavo a fare il chierichetto, ma poi decisi di smettere anche perché ormai mi sentivo grande. Credevo che il Signore mi chiamasse a servirlo non più sulla via del sacerdozio ma nella vita coniugale, anche se, a dire il vero, non ho mai avuto l’idea di sposarmi, ma da un adolescente innamorato la razionalità a volte conta poco. Il fidanzamento dura circa due anni e poi, per una serie di eventi e circostanze ci siamo lasciati. Ricordo che è stato un trauma, ma allo stesso tempo mi ha aiutato a far discernimento. Ricordo che la domanda che sovente facevo a Dio era questa: “ma se dovevi togliermela perché me l’hai fatta incontrare?”. È stato un periodo difficile per un adolescente. Cercavo me stesso, non sapevo quale fosse più la mia strada. Cominciai ad avere altre storie con altre ragazze, ma in nessuna di loro trovavo la possibilità di essere felice, sentivo che qualcosa mi mancava e non riuscivo a capire cosa cercassi realmente. Decisi di trovare un senso alla mia vita stando da solo e non più in coppia. Frequentavo sempre la Parrocchia, ero un tipo da comitiva, allegro, socievole ed estroverso e questo mio modo di essere mi portava facilmente a fare nuove amicizie. Mi diplomo come Tecnico di Laboratorio Chimico Biologico presso l’istituto professionale di Gela. Aspettavo la chiamata militare che però tardava ad arrivare avendo rinviato la partenza a causa degli studi. Trovai lavoro in una famiglia, una sorta di badante a un bimbo autistico, paralitico e cieco. Lo accompagnavo a scuola e poi a svolgere fisioterapia presso l’Aias a Manfria. Durante le sedute fisioterapiche del ragazzo, mi trovavo solo e in silenzio seduto su una panca nel giardino della struttura, a pregare Dio e a parlare con me stesso, chiedevo un segno, che mi guidasse a una scelta giusta. Mille domande ma pochissime risposte. Rimanendo con questo bambino, mi venivano in mente le parole del Vangelo secondo Matteo: “qualsiasi cosa avete fatto a uno di questi fratelli più piccoli lo avete fatto a me”, vedevo questo lavoro più come un servizio che come fonte di sostentamento. Questo è stato il mio cammino spirituale e il mio campo vocazionale. Faccio esperienza nei Frati Domenicani prima e dai Frati Cappuccini dopo, aiutato da un frate che si occupava dei giovani e del discernimento vocazionale. Ma sentivo che non era la mia strada la vita nel convento, anche se affascinato dalla vita e dall’esempio di San Francesco d’Assisi. Partecipo, come volontario, al Grande Giubileo del 2000. Le parole del Santo Padre, San Giovanni Paolo II, quel suo invito a non avere paura e ad aprire anzi a spalancare le porte a Cristo mi davano coraggio. Mi rivolgo al mio parroco e lui mi guida al discernimento. Padre sapiente e di grande saggezza vede in me un cambiamento, dato che sin da piccolo mi ha seguito in Parrocchia e mi ha visto crescere in tutti i sensi. Mi invita a partecipare a un campo vocazionale, organizzato dal nostro Seminario Vescovile di Piazza Armerina. Vado in agosto e a settembre dello stesso anno, era il 2001, entro in Seminario. Dopo poco tempo, dal mio ingresso, ricevo una lettera da parte dell’ordinariato Militare in cui mi veniva comunicato il mio congedo, per sovrannumero. In quell’occasione, ancora una volta, ho visto la mano del Signore che mi guidava, quasi a conferma della giusta scelta fatta”.   

Deduco che i tuoi genitori siano stati contenti della scelta operata

“La mia famiglia è molto credente. I miei genitori frequentavano, da qualche anno, il Cammino Neocatecumenale nella Parrocchia Santa Maria di Betlemme, e quindi molto zelanti e partecipi alla vita parrocchiale. Il mio ingresso in Seminario fu improvviso, perché mai avevo esternato questa mia volontà di farmi prete, anche se, ne sono certo, che una mamma conosce il cuore dei figli e percepisce anche i sussurri più nascosti, e dunque se lo aspettava. Mio padre era un tipo molto taciturno, non disse nulla, non mi manifestò né una sua disapprovazione né un suo acconsentire, ma il suo era un tacito consenso. Vedevo nei suoi occhi la gioia di questa mia scelta, che rifletteva la felicità del cuore. Mio padre morì d’infarto il 19 marzo del 2005 (era il sabato che anticipava la Domenica delle Palme), qualche giorno prima della mia ammissione agli Ordini Sacri del Diaconato e del Presbiterato, che ho ricevuto la mattina del Giovedì Santo in Cattedrale durante la Messa Crismale. Un momento di prova forte. Decisi di andare avanti, perché proprio la certezza della Vita Eterna, che ero chiamato a testimoniare, mi ha dato la forza di dire il mio primo “eccomi” al Signore che mi aveva scelto e chiamato. Se mi fossi tirato indietro sarei venuto meno a quella promessa fattami dal Signore, che ora mi consacrava nel suo Amore”.        

Com’era la tua vita prima di indossare l’abito talare?

“Sono molto soddisfatto della mia infanzia e adolescenza. Non ho nulla che mi faccia dire “ah sé potessi tornare indietro…” Ero un ragazzo semplice, mi piaceva scherzare e nessuno mai poteva immaginare del mio ingresso in seminario. Non sono mai stato bigotto né tantomeno ingabbiato o ingessato in degli schemi predefiniti”.

Sognavi di diventare prete?

“Quando ero bambino sognavo di fare il prete, ma esclusivamente in Chiesa Madre la mia parrocchia di origine, dove ho vissuto tutte le più belle esperienze, e dove è germinata la mia vita vocazionale. Su questo posso dire che il Signore ha assecondato il mio innocente desiderio di bambino, perché per cinque anni ho lavorato in Chiesa Madre, come Vicario Parrocchiale, accanto al mio parroco che mi ha visto crescere e diventare Prete”.    

Hai incontrato qualche difficoltà nel tuo cammino sacerdotale?

“Spesso, guardando a noi Preti, la gente si sofferma su ciò a cui abbiamo rinunciato, senza considerare ciò che invece abbiamo abbracciato. Ogni rinuncia cristiana non è nient’altro che l’acquisizione di qualcosa di molto più bello e non esiste alcuna rinuncia che non sia in vista di qualcosa di molto più costruttivo, molto più ricco. Ogni scelta di vita ha le sue difficoltà. Il diventare Preti non significa essere arrivati a una meta ma è l’arrivo per una nuova partenza, che giorno dopo giorno ci aiuta a vedere chi siamo e cosa desideriamo, si vivono gioie nuove ma anche dolori nuovi. Di difficoltà ne ho avute tante…”

Quali?

“Appena ordinato Prete fui mandato a Niscemi, presso il Santuario della Madonna del Bosco, Patrona della città. Non è stato semplice il primo periodo, abituato in Seminario ad avere tutto pronto e a essere servito, mi sono trovato da solo in canonica a provvedere in tutto al mio sostentamento, dal cucinare a lavare. Ho fatto molte esperienze belle, una tra tutte aver incontrato il Gruppo Scout Agesci. Prima di innamorarmi del metodo Scout sono rimasto conquistato dalla dedizione dei giovani. Capii che potendo spendere il loro tempo per dedicarsi alla loro vita privata, rientravano il venerdì dall’università. Il giorno dopo ci si incontrava per la riunione organizzativa con i ragazzi delle varie “Branche” e poi la domenica sera rientravano a Catania o nelle varie sedi universitarie, per partecipare alle lezioni. Il loro esempio, più che delle parole, mi ha fatto sposare in pieno il metodo Scout. Ho imparato da loro il valore del servizio e del donarsi al prossimo. Ho ricoperto poi la carica di Assistente Ecclesiastico della zona Erea nel 2010. Ho imparato che con l’esempio puoi educare al rispetto di sé stessi, se sei sempre gentile con te e con gli altri, infatti, qualcuno ti imiterà e imparerà ad apprezzare le cose buone. Nella mia vita sacerdotale, sempre ho sperimentato la fedeltà di Dio che non mi ha fatto mancare mai nulla, soprattutto nei momenti più difficili e di solitudine. Faccio mie le parole dell’orante del salmo 33 “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino”.

Parlavamo di giovani. Di cosa hanno bisogno i ragazzi gelesi?

“Da quasi dieci anni non vivo più le dinamiche giovanili della mia città di origine, dato che tutto il resto della settimana vivo tra la mia parrocchia ad Aidone e la Curia Vescovile a Piazza Armerina. Vivo la città solo una volta a settimana, il lunedì, perché mi vede impegnato, con il distaccamento dell’ufficio della curia Vescovile, per la vidimazione dei documenti attinenti all’istruttoria matrimoniale. Questo non vivere pienamente le dinamiche giovanili della città, mi consente di avere un occhio più critico e distaccato sulle cose e sugli eventi, guardandole non più dall’interno, come quando ero Vicario Parrocchiale della Chiesa Madre, ma dall’esterno. Come tutti i giovani, e non solo loro, l’esigenza più grande è quella di essere ascoltati e non giudicati. Nessuno sa più ascoltare, siamo tutti presi dalla frenesia di un efficientismo e da un individualismo, un apparire che speso soffoca i bisogni degli altri, e che non lascia spazio alle relazioni interpersonali. Si hanno migliaia di “amici” virtuali, deviati da un monitor freddo che crea distanze, ci si rifugia nel virtuale e si ha difficoltà ad avere relazioni reali. Sono rimasto alquanto perplesso nel vedere un gruppo di adolescenti, seduti al tavolo di una pizzeria, ciascuno con il proprio cellulare in mano, intenti a chattare con altri e non accorgersi di chi gli stava accanto o difronte. Insieme ma soli. C’è il reale pericolo di uniformarsi alle mode del momento, appiattendo la creatività di ciascuno. Il compito di tutti noi è quello di saper decifrare queste fragilità, per orientare, per guidare e sostenere queste nuove generazioni. In un tempo non molto lontano, il pericolo dei piccoli centri abitati, soprattutto i paesi dell’entroterra come Aidone, era quello di vivere un certo isolamento e si poteva notava la differenza di mentalità e costumi tra i diversi ragazzi. Penso che oggi non sia più cosi, ma che i social abbiano accorciato le distanze, creando uniformità. Dobbiamo saperli ascoltare. I giovani non vanno più in Chiesa è questo è un dato di fatto, nonostante tutte le nostre strategie pastorali, risultiamo ai loro occhi anacronistici e stantii. Non è più sentita come necessaria la parte spirituale nel mondo globalizzato. Ma i giovani cercano ancora Dio? Questa è la domanda di fondo. Lo cercano in un modo diverso rispetto alle generazioni precedenti e con modalità diverse rispetto a quello a cui siamo abituati a pensare. Cercano Dio nella contemporaneità, attraverso il senso del loro io, anche esasperato, e con un loro approccio alla realtà che chiede a noi adulti di fare i conti con un credo che cambia”. 

Troppi giovani si abbandonano all’uso di droghe. Cosa senti di dire?

“Tanti giovani non riescono più a trovare un senso alla loro vita, percepiscono un vuoto esistenziale, hanno paura ad affrontare le nuove sfide che il cammino della vita gli presenta, con tutti i suoi ostacoli e le sue incognite. Cercano sé stessi in realtà illusorie per sfuggire alla responsabilità o per mostrarsi grandi e per non sentirsi emarginati. Ragazzi fragili vittime di sé stessi e di gente senza scrupoli. La dipendenza alle varie droghe è una grande piaga che assilla il mondo giovanile e non. L’impegno contro la droga comincia nelle scuole e nelle famiglie. Ma la scuola e le famiglie non possono essere lasciate sole in questo compito tanto faticoso, cioè quello di aiutare i ragazzi a trovare un senso, uno scopo nella loro vita. Insieme a queste fondamentali agenzie educative, si affianca anche la parrocchia, che si innesta nel contesto sociale di un determinato territorio cittadino. All’interno delle varie sfide, risulta notevole la posizione di quella struttura che fin dall’inizio è sempre stata ambito di riferimento essenziale per la vita cristiana della gente, e ancora oggi ha una sua notevole validità. La parrocchia, per sua vocazione, è l’ambito di riferimento, di prima socializzazione religiosa, luogo di identificazione, di nuove proposte e di missionarietà, di profezia e dunque strumento capace di dare senso alla vita; noi annunciamo e soprattutto crediamo che il senso della vita è l’incontro con Gesù e questo il compito della Chiesa. Cosa posso dire ai ragazzi? Che Gesù vi ama e che non siete soli. Abbiate il coraggio e la forza per farvi aiutare, leggete il Vangelo, questa buona notizia, per no sentirvi soli. Noi ci siamo”.

Quale dovrebbe essere il ruolo sacerdotale sulle piattaforme digitale?

“Il sacerdote è essenzialmente un uomo al servizio alla e della Parola, e all’annuncio di Cristo, Parola di Dio fatta carne che non deve mai venire meno; tuttavia deve cercare sempre nuove forme per comunicare e testimoniare questa lieta novella. Abbiamo la possibilità di essere presenti nel mondo digitale, nella costante fedeltà al messaggio evangelico, per esercitare il proprio ruolo di animatori di comunità che si esprimono ormai, sempre più spesso, attraverso le tante “voci” scaturite dal mondo digitale, annunciare il Vangelo avvalendosi, accanto agli strumenti tradizionali, dell’apporto di quella nuova generazione social, Facebook, YouTube, Instagram e non per ultimo adesso TikTok che rappresentano inedite occasioni di dialogo e utili mezzi anche per l’evangelizzazione e la catechesi. Il pericolo potrebbe essere quello di deviare dalla propria missione primaria cioè quella di vivere e testimoniare il Vangelo di Cristo. Potrebbe innescarsi la presunzione di un eccesivo protagonismo che metta in risalto più la persona che l’annuncio del Vangelo che deve far passare attraverso questi nuovi mezzi di comunicazione di massa”.  

Cosa ti piace di più della tua vita da sacerdote?

“Il mio stare insieme alla gente”.

E di meno? 

“Io amo la mia vita sacerdotale. Sai che non ho mai badato a questa domanda?”

Andando indietro nel tempo, c’è qualcosa che rimpiangi di più della tua vita laica?

“Ho avuto un’adolescenza dove ho vissuto con serenità la mia vita. Non c’è nessun rimpianto che mi turba e se potessi rinascere nuovamente in questo mondo, farei tutto quello che ho fatto, compreso la scelta di farmi prete”. 

Cosa significa per te essere sacerdote?

“È tutta la mia vita”. 

Il tuo sogno di felicità?

“Io già sono felice. Il mio sogno, che poi è realtà, è seguire Gesù che mi ha amato per primo e in lui amare e servire i fratelli che incrocio sul mio cammino, per farmi assieme a loro compagno di viaggio”.

Un aspetto positivo del tuo carattere?

“Mi reputo un uomo altruista, gentile, generoso… Non è un osannare me stesso perché potrei apparire montato di testa. Preferisco che siano le persone che incontro a sentire in me l’accoglienza e la disponibilità. C’è tanta gente che mi stima e mi vuole bene”. 

Uno negativo?

“Spesso sono molto impulsivo”. 

Cosa apprezzi di più nelle persone?

“La sincerità”. 

Tra poco celebreremo la Pasqua, cosa senti di dire ai nostri lettori?

“Auguri a ciascuno di noi, auguri alla nostra amata città di Gela, ai miei concittadini e in particolare ai crocifissi della nostra terra, a chi è malato, a chi non spera più, a chi vive l’angoscia del domani, alle donne violate nella loro dignità, ai bambini che non si sentono amati. Che il Signore Risorto conceda a me e a tutti voi di celebrare questa Pasqua con fede e gioia, portando nella nostra vita il segno evangelico della serenità e della pace, di cui c’è tanto bisogno”.

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Ipse Dixit

“Il disagio giovanile frutto della disgregazione del sistema famiglia”

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Innamorata del mare e degli sport all’aria aperta, fin da ragazzina ha praticato nuoto, equitazione, pallavolo e per arricchire il suo bagaglio anche la danza classica. Poi, quando è giunto il momento di concentrarsi esclusivamente sul lavoro, ha deciso di fare il magistrato. La dottoressa Simona Filoni, pugliese di Nardò, nel Salento, è Procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Lecce. Personalmente la considero una persona ricca di entusiasmo, così come lo è la sua terra d’origine, sempre in continua scoperta, tra stupore e respiro, tra mare, promontori, ulivi, trulli, masserie, chiese, castelli, vicoli, muretti a secco, terre selvagge, orizzonti illimitati e tramonti indimenticabili. Risentirci, dopo l’esperienza vissuta a Caltanissetta tanti anni addietro, è un piacere. Per entrambi.

“Il pensiero di tentare la carriera in magistratura – dice – è maturato nel corso dell’Università; quando mi sono iscritta alla Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma, in realtà, ero orientata per il concorso di Commissario di Polizia perché volevo arruolarmi, operare tra la gente ed aiutarla. Man mano che superavo gli esami ho pensato che sarebbe stato bello tentare il concorso in magistratura, fare il pubblico ministero perché ho sempre amato l’investigazione, coordinare le Forze dell’Ordine, lavorare insieme, in gruppo (metodologia applicata in seguito in diverse indagini come modello operativo). Avevo deciso che avrei provato, comunque, il concorso in magistratura, seppur difficilissimo, e che avrei continuato fino all’esaurimento delle prove (non si possono riportare, infatti, più di tre bocciature) e, per fortuna, è andata bene. Erano gli anni in cui esplodeva “Tangentopoli” e l’indagine “Mani Pulite”, gli anni di Di Pietro, il che comportò una sorta di rivoluzione delle coscienze tra i giovani, con il risultato che ad ogni concorso, con una media di 300 posti messi a bando, vi fossero anche oltre 20000 domande di partecipazione ed oltre 10000 candidati che si presentavano agli scritti”.

Il suo primo incarico risale al 1998, quando a Mantova prese servizio presso la Prefettura in qualità di consigliere

“Ho intrapreso la carriera prefettizia il 10 ottobre del 1994. Ero giovanissima, piena di entusiasmo e di belle speranze. Di quegli anni ricordo la gestione in prima persona di due alluvioni, quella del 1994 e del 1996 causate dalle esondazioni del fiume Po, le riunioni senza sosta di coordinamento nella Sala della Protezione Civile, la cooperazione nella gestione del terremoto in Umbria del 1995, ma anche le prime manifestazioni della Lega Nord che fissò la sua sede a villa “Riva Berni” a Bagnolo San Vito (Mantova); la visita dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in un clima di accesa contrapposizione al governo centrale; la difesa della sede del Palazzo della Prefettura di Mantova che i leghisti volevano “sfrattare” e che mi fu affidata, con esito favorevole, dall’allora Prefetto Sergio Porena. Ma, più di tutto, ricordo la gratitudine e la genuinità dei mantovani, i loro sorrisi sinceri, le loro mani piene di fiducia e di speranza nell’operato delle Istituzioni, le loro visite in Prefettura per ringraziare me, come Istituzione, rappresentante dello Stato a livello locale per essermi attivata in più ambiti, in svariate circostanze, come se quello fosse espressione di un dono ricevuto e non semplicemente frutto del mio dovere. Ricordo che rinunciai alla possibilità che mi fu offerta di essere trasferita alla Prefettura del Quirinale, una possibilità che mi riempì di una gioia immensa, che apprezzai con somma gratitudine senza però accettare perché avevo un sogno, e quel sogno era la magistratura”.

Ha conosciuto la Sicilia ed in particolare la provincia di Caltanissetta, dopo avere svolto la funzione di sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale nisseno, entrando a far parte, successivamente, nella Direzione Distrettuale Antimafia. Qual è il caso di cronaca che più l’ha coinvolta e perché?

“Di sicuro vanno ricordate le grandi operazioni sull’accertamento dell’operatività sul territorio nisseno di associazioni per delinquere finalizzate alla tratta di esseri umani da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento lavorativo. Tra tutte le operazioni che ho coordinato come magistrato della DDA di Caltanissetta, ricordo ” Levante”, “Eldorado”, “Reberth”, “Odessa” che hanno consentito di sottrarre alle maglie delle organizzazioni criminali decine di donne di origine rumena. Ricordo anche l’Operazione “Golden Boys”, risalente al 2013, che ha permesso di sgominare un’associazione operante nel territorio gelese e nei territori limitrofi, dedita alla commissione di rapine, furti in abitazioni, danneggiamenti e numerosissimi episodi criminosi con conseguimento di ingenti profitti, oltre che allo spaccio di sostanze stupefacenti con arresti che hanno riguardato non solo soggetti maggiorenni ma anche sette minorenni, per un totale di 20 persone. Ricordo anche l’omicidio di Francesco Martines e del contestuale tentato omicidio di altri due soggetti, parenti della vittima, risalente al dicembre 2012, il cui corpo fu trovato in un terreno incolto in contrada Spinasanta e che vide in azione due complici, di cui un minorenne che all’epoca fu attinto da provvedimento di fermo assieme ad Angelo Meroni. Menziono, per efferatezza, anche il brutale pestaggio nel 2008 ordito ai danni di un giovane, Giovanni Martorana, all’interno della discoteca “Caligola” di Gela, alla presenza di alcune centinaia di persone. Quel caso costituì l’emblema della cattiveria umana, trattandosi di un delitto di tentato omicidio maturato sol perché la vittima aveva “osato” approcci ad una ex ragazza di uno dei soggetti coinvolti nell’inchiesta. La povera vittima fu aggredita selvaggiamente da più soggetti, di cui quattro maggiorenni e tre minorenni, colpita senza pietà con ferite gravissime riportate soprattutto alla testa e fu salvata solo grazie all’intervento della sorella, che trascinò il corpo del fratello letteralmente fuori dalla discoteca, nell’indifferenza e nell’inerzia generale. Non posso non citare l’omicidio della povera Carmelina Sferrazza (avvenuto a Delia nel 2003) e quello della povera Lorena Cultraro (Niscemi, maggio 2008), ad opera di tre minorenni, entrambi caratterizzati da inaudita ferocia e crudeltà e dalla totale assenza di pentimento per il gesto commesso e di pietas nei confronti delle povere vittime”.

Nel suo cammino lavorativo ha conosciuto tanti colleghi. Chi le ha dato di più e cosa ha appreso?

“Alla Sicilia devo tutto quello che sono e che sono diventata. Essere approdata alla Procura di Caltanissetta a 29 anni è stata la fortuna più grande della mia vita e allo stesso tempo la parte più bella della mia vita, densa di ricordi indelebili che custodisco gelosamente. Ho accolto la destinazione con il sorriso e con l’entusiasmo dettati dall’età e dal mio spirito avventuriero, cui si sono aggiunti il privilegio di avere grandi maestri che mi hanno accolta come una figlia e che mi hanno instradata nel faticoso percorso della mia professione; che hanno saputo cogliere tutte le sfaccettature della mia personalità, che mi hanno insegnato tutto e senza i quali non sarei mai diventata il magistrato e la donna che sono, trasmettendomi il coraggio per la verità e la forza della giustizia, facendomi comprendere l’importanza del valore di ogni persona e che dietro ogni fascicolo c’è una vita umana. Mi riferisco ai Procuratori dott. Giovanni Tinebra, Renato Di Natale, Francesco Messineo, ai miei ” maestri di vita”, cui vanno aggiunti numerosi colleghi della Procura stessa e degli Uffici Giudicanti del Distretto che costituiscono ed hanno costituito delle vere e proprie ” eccellenze” e che hanno contribuito a scrivere la storia giudiziaria italiana. Di sicuro posso affermare di essere stata una privilegiata, perché ho avuto la fortuna e l’onore di lavorare al fianco di Magistrati di altissimo profilo, il cui ricordo resterà scolpito nella mia mente finché avrò vita”.

Chi è stata per lei la dottoressa Caterina Chinnici?

“La dottoressa Caterina Chinnici è stato il Procuratore con cui ho iniziato a svolgere servizio presso la Procura per i Minorenni di Caltanissetta (nell’anno 2008 e poi dal 2010 al settembre del 2014) e che mi ha consentito di affinare le mie competenze in un settore che ho sempre trattato ma che, fino ad allora, avevo approfondito soltanto dal punto di vista delle vittime minorenni. Con il mio arrivo alla Procura per i Minorenni di Caltanissetta ho potuto occuparmi delle varie manifestazioni del disagio e della devianza minorile, ottenendo apprezzabili risultati investigativi e processuali nel Distretto. Com’è noto, infatti, il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta ha visto celebrare, per primo, processi in materia associativa di stampo mafioso e processi in materia di art. 74 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 ed ha gestito, da anni, numerosi collaboratori di giustizia macchiatisi di crimini gravissimi sin da minorenni. La dottoressa Chinnici ha rappresentato per me una guida sicura ed amorevole, che con la sua somma professionalità e con la sua innata dolcezza e la fiducia che ha riposto nelle mie capacità ma, soprattutto, nella mia ferrea volontà di lavorare e di farlo bene, mi ha messa nelle condizioni di raggiungere tantissimi importanti risultati investigativi e processuali, consentendo di assicurare alla giustizia soggetti minorenni autori di crimini gravissimi, soprattutto appartenenti all’area malavitosa gelese e di avviare importanti coordinamenti investigativi con le Procura del Distretto, vale a dire Caltanissetta, Enna e Gela, così da addivenire anche all’esecuzione congiunta di ordinanze in materia cautelare. Lo stesso vale per il suo impegno in ambito “civile”, tradottosi negli interventi a tutela dei nuclei disagiati e dei minori nati e cresciuti in ambienti caratterizzati da deprivazioni e arretratezza; anche in questo ambito il suo esempio mi è servito per comprendere l’importanza dell’informazione, della cooperazione tra gli enti preposti al sociale, degli interventi in prevenzione a tutela dei minori da avviare sul territorio sostenendo i nuclei familiari in maniera efficace e nell’interesse della loro sana e serena crescita. La dott.ssa Caterina Chinnici è stata e sarà sempre un punto di riferimento importante per la mia vita professionale, oltre che una grandissima donna ed un Magistrato autorevole che ho avuto l’onore ed il privilegio di affiancare e che ha reso “grande” la Procura per i Minorenni di Caltanissetta. Il mio ringraziamento va anche a tutto il personale della Procura per i Minorenni di Caltanissetta che si contraddistingue per professionalità, umanità e dedizione alla causa”.

Parlavamo della Procura dei Minori di Caltanissetta, che poi ha diretto. Prevalentemente i fari sono stati accesi su Gela e Niscemi, città nelle quali è tuttora presente una fetta consistente di ragazzini “terribili”?

“Gela ha costituito e costituisce, purtroppo, assieme a Niscemi, un bacino ad altissimo tasso delinquenziale minorile e ciò accade per appartenenza familiare e per la concomitante assenza di alternative legali per i giovani. E’ per questo che in alcune realtà hanno trovato applicazione Protocolli strutturati in modo da allontanare minori già “predestinati” dall’ambito familiare di appartenenza, proprio per offrire loro la possibilità di vivere in contesti sociali sani, lontani da modelli malavitosi e strutturati in senso deviato. Gela e Niscemi hanno costituito negli anni i maggiori centri tristemente assurti alle cronache giudiziarie per minorenni assoldati da gruppi associativi di stampo mafioso, impiegati nella commissione di efferati delitti, tanto da divenire la culla dei “baby killer” ed il luogo in cui, purtroppo, molte volte, al compimento del quattordicesimo anno di età, il minore riceve come regalo “il ferro”, vale a dire un’arma, in una sorta di battesimo del fuoco e di benvenuto nel regno degli adulti. Oggi giorno il fenomeno della criminalità minorile e, più in generale, della devianza minorile ha assunto proporzioni immani, in tutta Italia, con una escalation di delitti sempre più atroci commessi da soggetti sempre più piccoli, nel più totale disprezzo per la vita umana e nella totale assenza di regole e di rispetto delle leggi dello Stato. A ciò si aggiungono numerosissimi casi di minori che, soprattutto dopo gli anni del lockdown, hanno dato segni di disagio mentale e di notevole conflittualità familiare, non disgiunti da isolamento sociale ed assenza di scolarizzazione. Sono questi gli aspetti sui quali occorrerebbe incidere in maniera consistente, agendo non solo in prevenzione con interventi mirati a tutela delle fasce deboli e dei minori in primis, ma anche ampliando il numero di strutture ricettizie per minori con problemi di disagio psicologico o psichico o connesso all’abuso di sostanze. Costante, instancabile risulta essere l’attività delle Procura per i Minorenni del territorio che operano senza sosta, sia per frenare il dilagare della delinquenza minorile, sia per adottare misure di contenimento e di recupero dell’individuo, propedeutico al reinserimento sociale. Lo stesso per le emergenze che si registrano in ambito civile, dove sempre più numerosi sono gli interventi dell’Autorità Giudiziaria minorile finalizzati alla messa in sicurezza di tantissimi minori vittima di violenza diretta o assistita in ambito familiare o costretti a subire maltrattamenti endofamiliari: esplosiva, poi, può essere definita la situazione relativa ai tanti bambini partoriti da madri tossicodipendenti, che hanno assunto sostanze fino a poco prima del parto o da donne affette da problematiche psichiche. In questo contesto in cui alla crisi del sistema famiglia si somma la crisi che il Paese sta attraversando sotto molteplici profili, tra tutti quella economica e dei valori fondanti il nostro Stato democratico, assieme alla gravissima crisi legata alle guerre ed alle tensioni internazionali, risulta evidente che i ragazzini ” terribili” di alcune città del Distretto nisseno non avranno prospettive diverse da quelle già sperimentate o da quelle già tramandate, per generazioni, dalle famiglie di appartenenza. Ed è proprio in questo solco e per il bene dei ragazzi che le Istituzioni statali dovrebbero intervenire con la prevenzione, la formazione, l’informazione, il sostegno, proprio con un’azione corale di rottura da schemi malavitosi cristallizzati e divenire portatrici di azioni di riscatto e sviluppo, finalizzate all’abbandono di modelli disfunzionali e criminogeni ed all’avvio di processi di rieducazione e reinserimento sociale verso cui convogliare le tante energie positive dei nostri ragazzi”.

Domanda diretta: perché il ragazzino delinque?

“Perché, in assenza di una struttura personologica improntata al rispetto delle regole del vivere civile, ottiene il massimo risultato con il minimo sforzo qualora assorbito in contesti associativi. Le associazioni per delinquere, infatti, attraggono i minori con l’illusione errata che, in quanto minori, a loro non può accadere nulla e li assorbono gradualmente. I minori, si sa, sono attratti dal denaro, dalla possibilità di potere avere beni voluttuari con il minimo sforzo, dall’idea di ostentare stili di vita da vincenti, di possedere beni di lusso pur di apparire e di guadagnare un malsano senso di grandiosità e di rispetto. Invece, in contesti non associativi i minori delinquono per l’assenza di validi modelli educativi, spesso per noia, per desiderio di essere emulati ed osannati o, ancora peggio, per la voglia di postare le proprie gesta così da guadagnare popolarità e consensi; da qui la gara alla consumazione di delitti spesso compiuti con totale disprezzo della vita umana ed il più delle volte dopo l’assunzione di sostanze stupefacenti. Risultano in aumento, infatti, i delitti di lesioni, le aggressioni, del tutto gratuite, commesse ai danni anche di soggetti sconosciuti; gli agiti in disprezzo di simboli dello Stato o nei confronti delle Forze dell’ordine; l’uso indiscriminato di armi bianche, i crimini sessuali perpetrati con crudeltà, nella totale indifferenza nei confronti delle malcapitate vittime, i delitti utilizzando strumenti telematici, lo spaccio di sostanze stupefacenti, le condotte di violenza e prevaricazione poste in essere all’interno degli istituti di istruzione, ogni forma di condotta in cui la fanno da padrone la violenza e la sopraffazione nei confronti del prossimo, in una sorta di sfogo delle frustrazioni ed amplificazione dei propri fallimenti. I minori delinquono per assenza di validi modelli di riferimento familiari, culturali e sociali”.

Deduciamo che troppi giovani (purtroppo) sono affascinati dal malaffare

“In un contesto di appiattimento generale, in cui non trovano collocazione l’impegno sociale, l’ambizione personale e l’amore per la cultura germogliano i semi del malaffare, che appaiono una alternativa rapida ed efficace che consente a tanti giovani di individuare nelle attività illegali le fonti per il proprio sostentamento e, dunque, di soddisfare ogni loro esigenza, con il minimo sforzo, conseguendo la disponibilità di danaro. In tal modo diventano competitivi con i loro coetanei acquisiscono consenso ed ammirazione (soprattutto nel gruppo dei pari e tra le ragazze) e vengono accettati dal sistema perché vincenti, rispecchiando dei canoni tanto standardizzati ed imposti dalla massa quanto effimeri, a differenza di quei giovani che, pur vivendo nel rispetto della legalità, non trovano una collocazione nell’ambiente che li circonda e finiscono per essere esclusi ed emarginati in quanto ritenuti perdenti”.

Quanto influisce la mancanza di socializzazione familiare nel giovane di oggi e l’inconsistenza di spazi aggregativi?

“Uno degli elementi che contribuiscono ad alimentare il disagio giovanile è costituito, senz’altro, dalla disgregazione del sistema famiglia. La famiglia, infatti, rappresenta il luogo in cui il minore nasce, cresce e viene formato e forgiato, in cui si radicano solidi rapporti affettivi e si educa all’amore ed al rispetto per il prossimo, soprattutto, per i più piccoli e per i soggetti più deboli. Il secondo, importante momento educativo per il minore è costituito dalla scuola, giacché quest’ultima è deputata a proseguire il compito educativo promosso dai genitori e trasferito sui figli. È evidente che il mancato funzionamento di queste due agenzie educative genera il corto circuito del sistema, portando all’insorgenza di condotte devianti difficili da arginare. Basti pensare che, soprattutto dopo la pandemia, sono cresciuti in maniera esponenziale i conflitti intrafamiliari tra genitori e figli, i quali appaiono sempre più isolati e lontani dal mondo reale, privi di amicizie significative ed ancorati al mondo dei social e della telefonia in genere, così da vivere in condizioni di totale, profonda solitudine. Molti ragazzi, infatti, richiedono esplicitamente di essere collocati all’interno di comunità educative per minori; molti altri dichiarano di fare uso di psicofarmaci o di avere disturbi alimentari o del sonno. Si registra una vertiginosa crescita dei collocamenti di minori in strutture a vocazione sanitaria. Appare indispensabile, perciò, coinvolgere i giovani in attività ricreative e risocializzanti, ridisegnare i loro spazi aggregativi, insegnare loro il valore del dialogo e del vivere con gli altri, riabituarli ad instaurare rapporti caratterizzati dall’umanità e dalla gentilezza, avviando un’opera profonda di ritorno alla terra ed alle origini, alle cose semplici e vere; far comprendere ai giovani che la felicità sta nelle piccole cose, perché nelle piccole cose ci stanno le grandi cose; che la gentilezza è un muscolo che nessuno vede, ma regge il cielo. Infondere loro Infondere loro quella comunione profonda e quella cospirazione tenace capaci di farci resistere alle difficoltà di questo periodo così buio, in una sorta di resilienza collettiva, che ci trovi uniti, mano nella mano”.

Ritornando alla sua esperienza nel Nisseno, qual è stato l’episodio criminoso che l’ha profondamente turbata?

“Tutti gli episodi che hanno avuto come vittime soggetti minorenni e soggetti vulnerabili mi hanno colpito profondamente; ad essi va aggiunto quello relativo al tragico decesso di una bambina a seguito di un sinistro stradale verificatosi a Caltanissetta in cui la piccola perse la vita mentre si trovava in auto con il padre ed il fratellino. Di quella indagine rammento la profonda commozione che provai nell’atto di assumere a sommarie informazioni la madre di quella povera piccola, che pianse a singhiozzo durante l’intero svolgimento dell’atto (indossando l’orologio e gli orecchini rosa della figlia) ed il senso di impotenza, e con esso l’assenza di parole, provati dinanzi al dolore di quella madre. Ricordo, inoltre, l’immane tragedia che colpì la città di Caltanissetta, nell’anno 2004, in occasione del terribile incidente avvenuto sulla Gela – Caltanissetta in cui persero la vita i poliziotti Salvatore Falzone e Michele Pilato: si trattò di una tragedia che colpì, profondamente, tutta la cittadinanza nissena, con una folla incredula ed addolorata che si riversò all’Ospedale Sant’Elia di Caltanissetta per avere notizie dei due sfortunati poliziotti, attese le tragiche modalità dell’incidente ed il grande affetto (rimasto immutato nel tempo) che i cittadini nisseni nutrivano nei loro confronti quali eccellenti servitori dello Stato, morti in servizio mentre si recavano a Gela a lavorare”.

I dati sono allarmanti: crescono a dismisura le violenze contro le donne. Cosa dice nel merito?

“Purtroppo assistiamo ad una totale perdita dei valori che regolano la società civile. Basti pensare che le stesse organizzazioni criminali hanno ampliato, oramai da decenni, i loro interessi criminali arrivando a contemplare tra i beni produttivi di reddito anche gli esseri umani, come accade nella tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento della prostituzione o a quello lavorativo per esempio. Ecco che lo stesso essere umano ed, in primis, la donna, è stata equiparata ad una “res”, ad una cosa, al pari delle armi o dello stupefacente, in una erosione della sua identità e dignità di persona. Questa accezione arcaica e riprovevole dell’essere umano trova, purtroppo, una sovrapposizione anche in modelli familiari caratterizzati dal dominio della figura maschile e dall’impiego della violenza come strumento di sopraffazione sulla donna, con conseguente azzeramento delle sue capacità volitive e della sua stessa dignità. Ciò si riscontra nei nuclei più emarginati e degradati, solitamente monoreddito o del tutto privi di reddito da lavoro, caratterizzati dalla presenza di più figli e nei quali, sovente, la donna decide di subire per il bene degli stessi figli o perché ignara degli strumenti previsti dalla legge a sua tutela o perché isolata dalla famiglia di origine e, dunque, rassegnata a convivere con abusi e violenze di ogni genere, fino al totale annullamento delle sue capacità di reazione. Dall’altra parte l’ignoranza, l’abuso di alcool e di droghe, l’incapacità di affermarsi con modalità differenti e di riconoscere il proprio fallimento esistenziale, l’indole irascibile e violenta determinano i modelli disfunzionali di cui ho appena detto, in cui la violenza e la nullificazione dell’essere umano diventano, purtroppo, la normalità del ménage familiare”.

Il suo ruolo impone lucidità, attenzione, trasparenza, distacco. Dinnanzi ad efferate azioni criminose, che interessano soprattutto bimbi e donne, come riesce a non fare trasparire l’istintiva sensibilità del suo animo femminile?

“Premetto che ho sempre avuto uno spiccato interesse per quei reati che afferiscono le cosiddette ”fasce deboli” e che ho svolto corsi specifici, sin da giovane uditore (oggi chiamati Mot) in materia minorile in generale e sulle tecniche di ascolto dei minori vittime di abusi e/o maltrattamenti in particolare. L’approccio alla trattazione di casi in materia di crimini sessuali è, ovviamente, devastante ed emotivamente coinvolgente soprattutto per il magistrato della Procura che per primo procede all’ascolto della vittima nel rispetto delle regole che disciplinano l’escussione di un minore, con tutti gli accorgimenti del caso, trattandosi di minori, appunto, fortemente provati, che hanno subito agiti inenarrabili, davanti ai quali occorre apparire “normali”, sereni, capaci di ascoltare senza lasciare trasparire sdegno o tutte le sensazioni negative connesse alla narrazione. Al contrario, occorre creare un canale di comunicazione speciale, che abbia la capacità di mettere a proprio agio e di rassicurare la vittima, facendola sentire al sicuro, compresa e mai giudicata. Per riuscire in questo c’è bisogno di una particolare attitudine, oltre che di una specifica preparazione specialistica in materia, non disgiunta da capacità di interazione con i minori, con il loro linguaggio ed il loro mondo; è evidente, poi, che la maturità e l’esperienza che si accumulano negli anni contribuiscono ad ottimizzare gli ascolti nell’ottica della cristallizzazione del materiale probatorio raccolto; il che non significa non provare emozioni, non essere sensibili o empatici, ma restare lucidi e concentrati nonostante il dolore e lo strazio di cui si diventa partecipi; significa rimandare a quando si è a casa la sequenza di narrazioni spesso sconvolgenti pur di non compromettere il risultato investigativo; significa soffrire con e per la vittima senza darlo a vedere. Lo stesso vale in occasione degli ascolti di donne vittime di maltrattamenti o abusi, con la differenza che la maggiore età della vittima e la maggiore maturità consentono anche quegli scambi di parole rassicuranti ed una compartecipazione al suo dolore, ferma restando l’intangibilità dei fatti narrati, che hanno l’effetto benefico di porre a proprio agio la vittima e di alleggerire il carico emotivo del racconto anche per il pubblico ministero intervistatore. La sensibilità è necessaria per il giusto approccio a siffatta tipologia di reati, che altrimenti non potrebbero essere trattati e compresi nelle loro variegate sfaccettature; la sensibilità consente ad un bravo pm di leggere nelle pieghe del “non detto”, nei silenzi, nei singhiozzi; l’importante è, appunto, mantenere un equilibrio ed instaurare un rapporto di fiducia ed affidamento tra la vittima e l’intervistatore. Non si può fare il pm senza sofferenza, senza immedesimarsi nel dolore delle vittime; ed è da quel dolore che bisogna partire per accertare la verità, prima procedimentale e poi processuale; è quel dolore che ha sempre mosso il mio senso di giustizia”.

Qual è il suo pensiero sulla separazione delle carriere?“

“Di fatto le carriere sono già separate, non potendo un Pubblico Ministero esercitare la funzione di Giudice nel medesimo Distretto; aggiungo che soltanto una piccola percentuale, pari a poco più dell’1% dei magistrati attualmente in servizio, decide di mutare funzione transitando da quella requirente a quella giudicante o viceversa. E’ fondamentale preservare l’indipendenza della magistratura, ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”.

D’accordo con chi si tuffa in politica, dopo avere svolto l’attività in magistratura?

“Tutte le professioni meritano rispetto purché svolte con coscienza, onestà, passione e dedizione verso il prossimo, avendo come obiettivo il perseguimento del bene comune. Personalmente ritengo che i presupposti ed i principi che muovono la scelta di entrare in Magistratura difficilmente possano trovare analoga esplicazione nella carriera politica”.

Le rimando due osservazioni che ultimamente ho letto su un libro: “L’intelletto di ogni giudice funziona solo per mera e pratica guida giuridica; le interpretazioni dei giudici seguono logiche e dinamiche che vanno contro ogni ragionevole razionalità”. Qual è il suo punto di osservazione?

“Il Magistrato, sia requirente che giudicante opera con l’unico obiettivo di ricercare la verità dei fatti in tale ricerca il Pm ha l’obbligo di legge di svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini anche in considerazione del fatto che la prova si forma in dibattimento, unico luogo deputato alla formazione del convincimento del giudice. Non ritengo, pertanto, che le interpretazioni dei giudici seguano logiche e dinamiche che vanno contro ogni ragionevole razionalità, avendo personalmente operato sempre con razionalità e coscienza, in una lucida visione dei fatti e valorizzazione degli elementi di prova necessari per l’accertamento della verità, senza mai farsi trasportare dalle emozioni generate da un caso o dai condizionamenti emotivi connessi al clamore mediatico di una vicenda giudiziaria o dalla tipologia della vittima. Compito del giudice è quello di accertare la verità processuale, seguendo le regole del diritto processuale, resa pubblica attraverso la sentenza”.

Svolgendo il suo lavoro, in cosa ha rinunciato?

“A tantissime cose, la maggior parte delle quali irrecuperabili perché mentre lottavo, ogni giorno, nel tentativo di dare voce alle vittime delle ingiustizie più disparate, non mi accorgevo che il tempo scorreva inesorabile; ho sempre messo da parte me stessa perché sentivo forte il bisogno di non arretrare davanti alle istanze di giustizia, perché ho sempre anteposto il mio essere servitore dello Stato alla “me” intesa come individuo; ho sempre onorato la toga, che poi è la mia seconda pelle, sacrificando tanto della mia vita privata e delle mie passioni. Servirebbe un’altra intervista per fare un elenco delle rinunce e dei sacrifici immani che hanno caratterizzato e caratterizzano la mia vita, ma è andata così, perché io sono cosi ed alla fine, quello che conta, è potere andare a dormire, ogni sera, con la coscienza pulita, con la convinzione di avere compiuto il proprio dovere fino in fondo e, nel mio caso, con la certezza che a nessun minore sia accaduto qualcosa di irreparabile per colpa mia, di un mio ritardo o, peggio ancora, di una mia omissione legata al ruolo che ricopro. Ed alla fine questa consapevolezza è in grado di darmi molto di più di quel tanto che la vita mi ha tolto”.

Se non avesse fatto il magistrato, cosa avrebbe voluto fare?

“Se non fossi riuscita ad intraprendere la carriera in Magistratura avrei proseguito la carriera Prefettizia; di sicuro avrei voluto svolgere il lavoro che faccio, che poi è una missione di vita, vale a dire il Magistrato della Repubblica Italiana con le mansioni di Pubblico Ministero. Nel mio caso, infatti, avevo il sogno non solo di diventare Magistrato ma anche di svolgere le funzioni requirenti, che poi sono le uniche che ho svolto durante tutta la mia carriera e per le quali mi sento profondamente portata. Diversamente, potrei immaginarmi intenta a svolgere professioni completamente diverse, magari in paesi lontani, ma sempre con quello spirito guerriero e combattivo e quella passione per le investigazioni che non mi hanno abbandonato”.

C’è una persona a cui vuole dire grazie?

“Senz’altro se sono arrivata fin qui lo devo alla mia famiglia ed ai miei genitori, i quali mi hanno consentito senza non pochi sacrifici di studiare e di realizzare il sogno della Magistratura infondendomi coraggio, fiducia e la determinazione necessari ad affrontare un concorso così complesso e che mi hanno trasmesso i valori della giustizia, dell’onestà, dell’umiltà, della ricerca della verità e della tutela degli ultimi che caratterizzano la mia persona. Quindi non posso non rivolgere il mio grazie ai Capi Ufficio della Procura di Caltanissetta, della Procura per i Minorenni di Caltanissetta e della Procura di Bari, che nei vari anni della mia crescita umana e professionale mi hanno accolta, formata, guidata e che si sono affidati alla mia persona ed alle mie capacità di amministrare nel miglior modo per me possibile la Giustizia, con la speranza di avere meritato la loro fiducia e di non aver deluso le loro aspettative. A loro sarò per sempre grata; a loro va il mio bene immenso e tutta la stima possibile”.

Tra pochi giorni sarà la festa delle donne. Quale messaggio vuole rivolgere?

“Alle donne sento di dire di scappare alla prima azione violenta; al primo schiaffo, perché la violenza non può mai trovare giustificazione. In qualunque forma essa si manifesti: psicologica, fisica, sessuale, economica. Che non si può combattere contro le patologie mentali, di qualunque natura; che non ci si può improvvisare crocerossine ed avere la convinzione di riuscire a salvare un uomo violento. Vorrei dire loro di amare se stesse, di trasmettere tutta la bellezza che hanno e tutto l’amore di cui sono portatrici ai loro figli; di sorridere, alla vita, al loro essere donna, alla loro forza, al loro coraggio. Vorrei dire di non avere paura di denunciare, di andare avanti senza voltarsi indietro, perché la loro vita è più importante e che ce la faranno. Vorrei dire che non sono sole perché esiste una normativa in grado di tutelarle efficacemente e tutti gli strumenti necessari ad accompagnarle nel percorso doloroso delle vittime, dalla denuncia in poi”.

L’ultimo libro che ha letto?

“Premetto che amo moltissimo leggere ma, purtroppo, non ho mai il tempo, con conseguente creazioni di “colonne” di libri da leggere abilmente sistemate in modo da non farle crollare. L’ultimo libro che ho letto è “La giusta direzione” del collega Antonio De Donno, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi, in pensione da poco, che ha ripercorso la sua vita professionale da giovane uditore fino all’incarico di Procuratore a Brindisi, Un libro in cui ho rivisto molte delle mie paure e delle mie emozioni, sebbene abbiamo lavorato in città differenti, in cui ho ritrovato la stessa passione e lo stesso forte battito che mi porto dentro sin dal primo giorno di servizio a Caltanissetta (era il 30 settembre 1999) e che ha mosso la penna in quei giorni afosi di luglio 1995 in cui, al termine della terza giornata, consegnai anche il terzo elaborato delle prove scritte che mi hanno portata fin qui”.

Con merito e con grande tenacia, ci permettiamo di aggiungere.

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