"Alcuni gelesi sono poco propensi al rispetto delle leggi"
Buterese di nascita ma gelese a tutti gli effetti, dall’agosto scorso dirige il Compartimento della Polizia Stradale della Sicilia Occidentale. Un ruolo di prim’ordine per il Questore Gaetano Cravana,...


Buterese di nascita ma gelese a tutti gli effetti, dall’agosto scorso dirige il Compartimento della Polizia Stradale della Sicilia Occidentale. Un ruolo di prim’ordine per il Questore Gaetano Cravana, in un vasto territorio in cui bisogna garantire, tra l’altro, la scorta per la sicurezza della circolazione e la tutela e il controllo sull'uso della strada. A tal proposito, un compito particolarmente importante dal punto di vista della prevenzione è quello “dell’educazione stradale” che viene fatta con il costante incontro con i giovani, presso le scuole di ogni ordine e grado. Gli incontri sono finalizzati, mediante la visione di immagini appropriate, a mettere in rilievo l’importanza del rispetto delle regole previste dal Codice, specie quelle che stabiliscono limiti di velocità o l’uso delle cinture di sicurezza o del casco e l’assoluto divieto di uso di alcool e droga. Sessantuno anni, sposato e padre di due figli, l’alto dirigente è in possesso di una laurea in giurisprudenza e nella vita avrebbe potuto fare altro.
Perché ha deciso di indossare la divisa della Polizia?
“Non dirò che fin da piccolo volevo fare il poliziotto. Ho conseguito la laurea in Giurisprudenza perché ero appassionato al diritto inteso come quel complesso di regole che disciplinano la società affinché questa funzioni in maniera armonica. Mi è sempre piaciuto il concetto di ordine e quello connesso di libertà individuale che può esprimersi appieno solo all’interno di una società ordinata e governata dalle regole. In questo senso avrei potuto fare con il medesimo entusiasmo anche il magistrato o l’avvocato. Ho fatto il poliziotto perché ho vinto il concorso per Vice Commissario, nel lontano 1989, e sono entrato in un mondo professionale di assoluto fascino e impegno”.
Primo incarico affidatole, nel 1990, è stato quello presso l’Ufficio Prevenzione Generale della Questura di Palermo, come funzionario di turno nei servizi continuativi (h24) che venivano espletati per lo più all’esterno sulla Volante in quanto volti al coordinamento operativo delle pattuglie impiegate nel quadrante. Che ricordi ha di quella esperienza, in un contesto (soprattutto in quegli anni) contrassegnato dalla spirale mafiosa?
“Quel primo incarico mi ha dato la possibilità di imparare a gestire le emergenze e il pronto intervento che è l’attività tipica delle “Volanti”, in occasione di fatti di reato o di soccorso pubblico”.
Sempre nel capoluogo isolano, ha svolto servizio presso il Commissariato Sezionale di “Brancaccio” con le funzioni di responsabile della Squadra di Polizia Giudiziaria. Sicuramente non sarà stato facile operare in uno dei quartieri più critici di Palermo
“Il quartiere palermitano di Brancaccio all’epoca era dominio incontrastato dei Graviano. Era per molti aspetti degradato sia dal punto di vista sociale che da quello urbanistico. Era l’epoca in cui operava Padre Puglisi che assieme ad un gruppo di volenterosi cittadini voleva riscattare molti giovani del posto dall’influenza mafiosa e in genere criminale, coinvolgendoli in attività sociali e sportive e, dunque, allontanandoli dalle attività criminali quali rapine e spaccio di droga. Si batteva con le istituzioni locali per portare a Brancaccio, scuole ed altre strutture sportive che mancavano”.
Grazie al prezioso lavoro della sezione "antidroga" della Squadra Mobile di Palermo, che lei ha diretto dal 1993 al 1996, è stato accertato che lo stupefacente viaggiava sull'intero territorio nazionale e non solo nell'isola.
“L’esperienza alla Squadra Mobile di Palermo è stata tra le più belle ed esaltanti della mia carriera. Era il periodo immediatamente successivo alle stragi del 1992, e alla Squadra Mobile sentivamo totalmente il peso e la responsabilità di dare risposte decisive alla criminalità organizzata in tutti gli ambiti in cui essa operava, dalle estorsioni al traffico degli stupefacenti, all’infiltrazione e condizionamento degli appalti pubblici, alla cattura dei latitanti. Penso che in quegli anni, con le ripetute operazioni di polizia giudiziaria e la nascita di una nuova consapevolezza e presa di distanza dal fenomeno mafioso delle giovani generazioni, sia iniziato il riscatto di Palermo e della Sicilia intera dal fenomeno mafioso, che comunque ancora non si è concluso”.
Dopo l'esperienza palermitana, si è avvicinato alla sua terra e da maggio del 1996 è stato trasferito al Commissariato distaccato di Gela con l’incarico di responsabile della squadra di polizia giudiziaria. Amichevolmente i colleghi la chiamavano "Commissario Cobra". Nei quattro anni di permanenza nell’incarico, ha diretto svariate indagini tese soprattutto al contrasto delle organizzazioni criminali locali di stampo mafioso (Cosa Nostra e Stidda). Quale ricorda in particolar modo e perché?
“Le operazioni di polizia di quel periodo sono state molteplici e tutte importanti, sia nei confronti della Stidda che nei confronti di Cosa Nostra. Era cessato il tempo dei contrasti violenti tra le due organizzazioni mafiose. Avevano raggiunto una sorte di pace. Le fibrillazioni vi erano invece all’interno delle due consorterie per il raggiungimento di posizioni di potere, tant’è che in quegli anni si sono registrati svariati fatti di sangue, quasi tutti risolti con l’individuazione dei colpevoli”.
Dopo avere diretto dal 2001 al 2004 il Commissariato di Lentini; dal 2004 al 2007 quello di Vittoria e dal 2007 al 2010 quello di Niscemi, è nuovamente tornato a Gela prendendo in mano le redini del Commissariato, dal 2011 al 2014. Oltre alla location (dagli storici edifici di via Tamigi a quelli di via Calogero Zucchetto), cosa è cambiato in tutti quegli anni?
“Il clima era decisamente mutato. Se negli anni ’90 la lotta alla mafia era esclusiva delle forze dell’ordine e della magistratura, all’inizio del 2000 era nata l’associazione antiracket per cui iniziarono le prime denunce di estorsione e quindi la collaborazione del mondo imprenditoriale che ha facilitato il contrasto alla delinquenza mafiosa. Non è che le attività criminali di stampo mafioso fossero cessate, avevano assunto un carattere – diciamo - più sottotraccia, le attività estorsive non erano più così sistematiche e avvolgenti come nel periodo precedente, i capi storici erano nelle patrie galere. Si trattava comunque di recuperare un substrato culturale, sempre presente in un certo ambito sociale, alla cultura mafiosa e criminale. In questa prospettiva, devo dire che la parte sana della società, dall’associazionismo alle scuole, ha fatto un buon lavoro per incidere nella formazione delle giovani generazioni tramite incontri proprio nelle scuole, convegni e iniziative varie alle quali le forze di polizia sono state sempre presenti per portare la propria testimonianza”.
Cosa non è riuscito a portare a compimento nella sua permanenza a Gela?
“Il lavoro del poliziotto si confronta con la realtà in cui opera. La lotta al crimine ma anche la vicinanza alla società civile per rassicurarla e infondere fiducia è la mission. Mi auguro solo di aver contribuito a rendere un po' più sicura la città e a far crescere la fiducia dei cittadini gelesi verso la Polizia di Stato”.
Negli anni, grazie ad un laborioso lavoro investigativo, in città sono stati assicurati alla giustizia mandanti e killer spietati di numerosi fatti delittuosi. Se da un lato la criminalità mafiosa è stata colpita (anche se non del tutto affondata), dall'altra quella comune è difficile da estirpare. Come mai?
“Qui secondo me incidono fattori culturali, non solo nelle famiglie con tradizioni criminali in cui crescono le nuove leve, ma anche in alcuni ambiti della società gelese poco propensa al rispetto delle leggi”.
Perché a Gela, anche le controversie, si risolvono - purtroppo - con gli incendi delle auto?
“Per quello che ho detto prima”.
Poco fa accennava all’associazione antiracket. Avrà seguito le vicende giudiziarie e amministrative che ultimamente l’hanno coinvolta. Qual è il suo pensiero?
“E’ giusto che la giustizia faccia il suo corso. I giudizi definitivi potremmo darli allora. Purtuttavia dico che l’attività concreta dell’associazione antiracket di Gela ha dato negli anni i suoi frutti concreti a differenza di tante altre associazioni antiracket, non solo siciliane”.
Lei ha operato a Gela, Lentini, Vittoria, Niscemi: quattro territori difficili ad alta densità criminale ed in cui insiste anche una profonda omertà. La gente non denuncia perché ha paura delle ritorsioni o c'è dell'altro?
“C’è tanta paura, prima probabilmente ce n’era di più. Prima che lo Stato approvasse le leggi con cui prevedeva sostegno a chi avesse denunciato, gli imprenditori si trovavano soli con se stessi. Gli strumenti di sostegno e tutela si sono affinati e i risultati sono a poco a poco arrivati. Da non sottacere comunque che qualche imprenditore ha scelto di stare “borderline” per convenienza”.
Qual è il ricordo che porterà nel cuore della sua esperienza gelese?
“Ricordi tanti, principalmente quello di aver lavorato per una terra che mi appartiene”.
Qualche mese fa, a causa di una malattia, è venuto a mancare uno dei suoi uomini in servizio al Commissariato di Gela. Chi è stato per lei, Peppe Dispinzeri?
“L’Ispettore Dispinzeri mi ha collaborato sia negli anni novanta al Commissariato di Gela, che durante la mia direzione del Commissariato di Niscemi. E’ stato un poliziotto che ha svolto il suo lavoro con equilibrio, competenza e molta passione. Conosceva a fondo le dinamiche criminali di Gela ed è stato in prima linea nel contrastarle, subendo anche delle ritorsioni dai mafiosi locali, in conseguenza delle quali, a sua tutela, fu allontanato da Gela. Non arretrò mai di un passo e continuò sempre con la medesima spinta e determinazione a svolgere il suo lavoro con onore. Gela lo dovrebbe sempre ricordare per il suo costante impegno volto a rendere migliore la città in cui era nato e cresciuto”.
Nel 2014 è stato trasferito presso la Questura di Trapani con l’incarico di Vicario del Questore. Quando parliamo del territorio trapanese - giocoforza - la mente ci porta al boss dei boss Matteo Messina Denaro, arrestato lo scorso 16 Gennaio dai carabinieri. Anche voi gli davate la caccia?
“Certo! La cattura del latitante è stata una priorità della Polizia di Stato nella provincia di Trapani”.
Com'è possibile che per trent'anni, il latitante più ricercato è riuscito a farla franca?
“Le forze di polizia e la magistratura non hanno risparmiato impegno e risorse per la cattura. Dobbiamo tenere conto del contesto in cui si è operato e delle coperture ad ogni livello di cui ha potuto godere in una provincia, quella trapanese, in cui hanno sempre proliferato le associazioni massoniche, di cui molte “coperte”, quindi illegali”.
Dopo Trapani, nel 2018 è stato trasferito, con il medesimo incarico, alla Questura di Reggio Calabria dove ha svolto numerosi e complessi servizi sia per quanto riguarda quelli connessi agli sbarchi di immigrati clandestini, sia per ciò che concerne le manifestazioni calcistiche, politiche-sindacali e religiose. Cosa le ha lasciato la Calabria?
“Il ricordo di una bella terra soffocata dalla presenza immanente della ‘ndrangheta che ne soffoca l’economia e la possibilità di sviluppo economico”.
Nel 2020, promosso alla qualifica di Dirigente Superiore, è stato assegnato all’Ufficio Centrale Ispettivo, a Roma, dove ha svolto attività ispettiva presso molte Questure e articolazioni minori dislocate su tutto il territorio nazionale. Da più parti si sollecitano più uomini e mezzi. E' così grave la situazione?
“La Polizia di Stato, così come tutto il settore della Pubblica Amministrazione, ha risentito del taglio degli organici, previsto dalla riforma Madia. L’attuale organico previsto è di circa 16.000 unità in meno rispetto a prima. Al momento si stanno svolgendo molti concorsi per tutte le qualifiche, per compensare le uscite dovute ai pensionamenti. Con processi di riorganizzazione, con l’utilizzo della tecnologia, si cerca di far fronte nel migliore dei modi alle esigenze e richieste di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica con risultati soddisfacenti”.
Tanti giovani pur non di meno vorrebbero entrare in polizia: cosa si sente di dire?
“Fare il poliziotto non è un lavoro comune. Deve essere svolto con onore, dignità, passione, spirito di abnegazione e di servizio”.
E' proprio vero che alla fine la meritocrazia premia?
“Nel lavoro come nella vita premia sempre la serietà, il lavoro, l’onestà. Non vedo altre scorciatoie anche se qualcuno ogni tanto riesce a prenderle…”