Ipse Dixit
“La politica deve stare lontana dalla mafia. A Gela, esperienza di valore”
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Il prossimo 6 maggio, a Roma, assumerà il ruolo di Consigliere Ministeriale presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza. E’ stato nominato direttamente dal Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: gli sono state ampiamente riconosciute elevate attitudini investigative, frutto di un percorso professionale contraddistinto dalla lotta alla mafia in territori difficili del Sud Italia e per essere riuscito a gestire eventi e fenomeni assai complessi e complicati sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica. Nato a Messina, sessantadue anni appena compiuti, il dottore Salvatore La Rosa, laureato in Giurisprudenza ed abilitato alla professione di avvocato, ha conseguito i titoli dell’Alta Formazione ed il Master di II livello in “Sicurezza, Coordinamento Interforze e Cooperazione Internazionale” e quello in “Scienze Criminologico Forensi” presso l’Università di Roma “La Sapienza” e, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, la Laurea specialistica in “Scienze delle Pubbliche Amministrazioni”. Dal 2019 e fino ai giorni nostri, ha diretto la Questura di Trapani e prima ancora quella di Ragusa. Tra gli altri incarichi, è stato anche vicario del Questore di Messina. Dal 2005 al 2007 è stato a capo del Commissariato di Gela.
“E’ stato un biennio intenso e di grandi soddisfazioni professionali – ci tiene a precisare -. Ricordo che l’impatto fu davvero complicato: il primo giorno, subito un intervento per un omicidio a Mazzarino e, a seguire, la partecipazione al Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica in ragione della partita di calcio di Serie C Gela – Napoli, che si sarebbe tenuta la domenica seguente con la previsione dell’arrivo di 1000 tifosi partenopei. Ma ero già discretamente “strutturato”. Arrivavo a Gela dopo un triennio passato a Lamezia Terme, dove era in corso una guerra di mafia, ed in precedenza avevo lavorato in Sicilia, nel siracusano, per una dozzina d’anni tra la Squadra Mobile e i Commissariati distaccati. A Gela ho trovato un ufficio ben organizzato, composto da tante persone perbene che non si sono mai risparmiate. Il lavoro era tanto, sia nell’ambito della Polizia Giudiziaria che sotto il profilo del controllo del territorio, ma gli uomini erano disponibili e professionali. Peraltro, in quel periodo, il Commissariato di Gela era impegnato in parecchi servizi di scorta e tutela che assorbivano un gran numero di personale. Per me è stata un’esperienza molto positiva che mi ha ulteriormente rafforzato”.
In quel periodo di tempo a Gela, è stato fatto tutto oppure si poteva fare di più?
“Si può sempre fare di più e meglio ma, certamente, non possiamo rimproverarci nulla, almeno sotto il profilo dell’impegno. Grande è stata la collaborazione con la Squadra Mobile di Caltanissetta e con le Procure pur nella consapevolezza degli impegni sempre maggiori. Proprio in ragione della palpabile sofferenza dovuta al grande carico di lavoro, l’Amministrazione, nel periodo in cui io ho diretto l’Ufficio, ha spostato al Commissariato di Gela quasi 50 uomini che già prestavano servizio in quel territorio ma nell’ambito delle specialità della Polizia di Stato e che, verosimilmente, erano sottoimpiegate. La soppressione degli Uffici di Polizia di Frontiera Marittima e del Posto di Polizia Ferroviaria, con conseguente trasferimento del personale al Commissariato di Ps. fu di grande aiuto non solo sul piano pratico ma anche su quello psicologico, soprattutto per gli uomini che già prestavano il loro servizio al Commissariato di via Calogero Zucchetto”
A Gela convivono due se non tre consorterie mafiose: Cosa Nostra, Stidda e gruppo Alferi. Andando specificatamente nel dettaglio, come sono organizzate – secondo la sua esperienza sul campo – e come riescono (nonostante i numerosi arresti) ad infiltrarsi nel tessuto locale?
“La domanda dovrebbe essere rivolta a chi ha oggi il polso della situazione. Io sono andato via da Gela nel 2007 e a distanza di 17 dalla chiusura della mia esperienza nel territorio sarei, a dir poco, presuntuoso a cimentarmi in un’analisi di questo tipo. Posso solo dire che, nel periodo della mia permanenza, tra “Cosa Nostra” e “Stidda” vi era un patto di “sospettosa” non belligeranza, condito da una equa spartizione dei profitti. La situazione era, a mio modo di vedere, determinata dalla necessità delle consorterie mafiose di mantenere una posizione più defilata in ragione del gran numero di carcerazioni e condanne subite, che le avevano fortemente indebolite ed, ancora, dall’esigenza di evitare di innalzare troppo il livello dell’attenzione da parte delle Forze di Polizia in ragione della presenza nell’area di importanti latitanti. Con riferimento al cosiddetto gruppo “Alfieri” posso dire che “u Ierru”, (Giuseppe Alfieri, ndr) capo dell’organizzazione, già all’epoca era attivo e riusciva a convivere con le consorterie mafiose più strutturate sul territorio per le identiche ragioni che ho esposto e anche perché si occupava di segmenti del malaffare cui non erano direttamente interessate “Cosa Nostra” e “Stidda”.
C’è voglia di cambiamento, di ribellione all’oppressione mafiosa in Sicilia. Almeno così sembra. La gente, però, scende in piazza solo a seguito di fatti emergenziali. Come mai secondo lei?
“Si, è vero. I grandi movimenti di massa contro la mafia, in Sicilia come altrove, si percepiscono solo quando succede qualcosa di veramente eclatante e questa è la risultante di una percezione attenuata, se non addirittura assente, del fenomeno. Dalla stagione delle stragi son passati 30 anni e più e le giovani generazioni non hanno vissuto quei momenti tragici. Il ricordo è labile o del tutto mancante. La necessità di fare memoria dei fatti accaduti e dei martiri della mafia nonchè di spiegare il fenomeno ai giovani è oggi ancor più importante che in passato. Noi della Polizia di Stato siamo, purtroppo, “azionisti di maggioranza” nella triste graduatoria di operatori uccisi dalla ferocia mafiosa e ci impegniamo in ogni parte del territorio nazionale a dare il nostro contributo a quest’opera di sensibilizzazione delle coscienze nella lotta al crimine organizzato. Purtroppo non tutte le agenzie e le formazioni sociali che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei nostri giovani si stanno dimostrando all’altezza del compito. Molto di più si potrebbe fare sia nell’ambito scolastico, dove sarebbe opportuno dare più spazio allo studio della nostra storia recente e ai valori che ispirano la Carta Costituzionale, che in quello familiare, dove spesso si educano i figli non ai valori su cui si fonda la nostra società ma, piuttosto, all’utilizzo di espedienti e prepotenze per ottenere guadagni e successo. Per formare una “cultura antimafia” occorre intervenire sui giovani, anzi sui giovanissimi, con un’attività di formazione ed informazione che deve, affondando le radici nella storia, spesso misconosciuta, della mafia e dell’antimafia, servire ad educare ai valori della giustizia, della solidarietà, dei diritti e dei doveri che sono il distillato della nostra Costituzione. Lo dico da padre di tre figli, tutti nati dopo le stagioni delle stragi e che hanno un posto di osservazione privilegiato derivante proprio dall’essere figli di un operatore impegnato “per mestiere” nella lotta alla mafia, ma mi raccontano della assoluta assenza di conoscenza del fenomeno da parte di molti dei loro amici e compagni. In una parola: occorre una rivoluzione copernicana per fornire ai giovani gli strumenti culturali per costruire una società libera da condizionamenti”.
Le cronache raccontano di un intreccio tra mafia e politica. E’ la mafia ad avere bisogno della politica o l’esatto contrario?
“La politica vera è esclusivamente “servizio” ed ha quindi bisogno solo di valori positivi da mettere in campo nel quotidiano a favore dei cittadini. Dato ciò e considerato che la mafia è solo disvalore, sono convinto che è la politica che debba stare lontano. La criminalità, di contro, diventa mafiosa proprio perché si infiltra nel tessuto sociale contaminandone le strutture, in primis quelle politico/amministrative. La mafia non sarebbe mafia senza infiltrarsi nella politica condizionandone l’operato. Se questa contaminazione non ci fosse saremmo di fronte ad organizzazioni criminali ma non alla mafia. Fatto questo breve quadro di riferimento, non posso che affermare che la politica che ha bisogno della mafia per affermarsi non è più politica ma essa stessa è mafia. Quindi, ad esempio, pensare che di fronte a 10 o 10000 voti che puzzano di mafia non prenderli equivarrebbe a farli prendere ad altri non significa ragionare pragmaticamente ma pensare da mafioso”.
Con quali mezzi potrà essere limitato se non completamente sradicato, questo subdolo legame che persiste nel Sud Italia e soprattutto in Sicilia?
“Come ho già detto, è solo una questione culturale. Occorre informare e formare le nuove generazioni fornendo loro gli strumenti culturali. La normativa di settore credo sia più che adeguata nonchè tra le più avanzate nel mondo. L’attività della Magistratura e delle Forze di Polizia è forte e determinata ma pensare che con la sola repressione si possa debellare il fenomeno è pia illusione”.
Quando il 16 gennaio del 2023, ha saputo che il boss dei boss Matteo Messina Denaro era stato arrestato, cosa ha provato?
“E’ stato un importante momento di riscatto e di liberazione per la nostra terra di Sicilia e, credo, per tutta l’Italia. Si trattava del latitante in cima alla lista dei maggiori ricercati d’Europa e nella top five mondiale. Un successo strepitoso per lo Stato, anche se avvenuto dopo 30 anni di ricerche. Per quanto mi riguarda mi è dispiaciuto che non sia stato rintracciato dalla Polizia di Stato ma la cosa che ho subito pensato è che la sua cattura avrebbe determinato una profonda rivisitazione degli equilibri all’interno dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, non solo trapanese ma nel suo complesso, e che occorreva tracciare, senza ritardo ed in perfetta sinergia con la Magistratura inquirente e con la altre Forze di Polizia, una nuova strategia per individuare, per tempo, i percorsi che l’organizzazione mafiosa avrebbe potuto seguire dopo l’arresto”.
Anche voi eravate sulle tracce del padrino?
“Lo sforzo della Polizia di Stato per individuare il latitante è stato grande e ininterrotto. Il risultato, purtroppo, non ci ha premiato ma non abbiamo nulla da rimproverarci. Onore al merito, oltre che alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo che ha coordinato le attività di ricerca, ai colleghi che hanno materialmente proceduto alla cattura. Mi preme sottolineare che, comunque, questa è la risultante dello sforzo, prolungato e determinato, che tutti gli Enti che si occupano di Polizia Giudiziaria sul territorio hanno prodotto. L’attività dispiegata negli anni nei confronti della famiglia del latitante e dei suoi sodali è sotto gli occhi di tutti. Una pletora di arresti e fermi, con le conseguenti condanne, nonchè di sequestri di beni di ingente valore, che sono stati sottratti alla famiglia e ai suoi fiancheggiatori, danno la dimensione dello sforzo prodotto dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia, nessuna esclusa, e della determinazione con cui è stata indebolita la rete di protezione che era posizionata attorno al ricercato”.
Ha sperato che, dopo il suo arresto, Matteo Messina Denaro cominciasse a collaborare?
“Certamente. Tutti coloro che stanno dalla parte della verità e della giustizia lo hanno auspicato”.
Quanto sono importanti le rivelazioni dei pentiti?
“L’apporto fornito alle indagini dai collaboratori di giustizia è stato ed è determinante per penetrare fino in fondo nei gangli delle famiglie mafiose e nelle poliedriche interessenze criminali che le riguardano. Si tratta di uno strumento irrinunciabile per combattere le mafie”.
Delle tante tappe lavorative, qual è stata l’esperienza che l’ha formata e fortificata e perché?
“Non saprei dare una risposta secca. Ho affrontato l’avventura professionale con umiltà e tanta voglia di imparare, anche dagli inevitabili errori fatti. Dal punto di vista della mia formazione si è trattato di una sorta di “working in progress” e, quindi, posso affermare che tutto è stato importante. Tuttavia, il periodo che, dal punto di vista operativo, mi ha più di altri formato è stato quello trascorso, nella prima metà degli anni ’90, alla Squadra Mobile di Siracusa. Eravamo nel bel mezzo della guerra di mafia e l’attività di investigazione e di repressione era febbrile ed appassionante. I risultati investigativi furono eccellenti. Si dormiva poco o nulla ma bisognava restare lucidi e soprattutto umani. Il rischio più rilevante era, infatti, quello di perdere, di fronte ai tanti orrori che si presentavano frequentemente davanti agli occhi, la sensibilità che, invece, deve essere la caratteristica principale per un poliziotto che, per mestiere, è chiamato ad intervenire lì dove c’è il dolore. Dal punto di vista organizzativo, invece, ho ricevuto tanto dall’esperienza fatta, subito dopo il periodo trascorso a Gela, quale Capo di Gabinetto della Questura di Siracusa (dall’agosto 2007 all’ottobre 2012). Sono stati 5 anni intensi durante i quali abbiamo affrontato tante situazioni emergenziali come ad esempio, e senza la pretesa di essere esaustivi, i tanti sbarchi di immigrati, i frequenti scioperi che coinvolgevano il Polo Petrolchimico, i confronti, talvolta anche serrati ma sempre costruttivi, con le Organizzazioni Sindacali. Ma, soprattutto, nel 2009 abbiamo organizzato in modo inappuntabile, e lo dico con un pizzico di immodestia, il G8 dei Ministri dell’Ambiente. La pianificazione e la gestione dei complessi servizi di ordine e sicurezza pubblica correlati a quell’importante evento hanno segnato senz’altro il mio percorso e mi hanno completato professionalmente, atteso che sino ad allora mi ero misurato con uffici più prettamente “operativi”, segnatamente i Commissariati distaccati e la Squadra Mobile”.
Qual è il suggerimento che dà sempre ai suoi uomini?
“A chi mi collabora dico sempre che nel nostro lavoro non ci sono battitori liberi ma, al contrario, è necessario essere e sentirsi parte di una squadra. Solo lavorando in team si possono ottenere risultati all’altezza delle attese di coloro che serviamo, cioè i cittadini affidati alle nostre cure. Nessuno deve restare indietro o essere messo da parte poiché tutti, anche coloro che hanno maggiori difficoltà, possono e devono essere messi in condizione di fornire il proprio apporto. Per ottenere il risultato che vogliamo dobbiamo confidare nella forza del gruppo e nella lealtà reciproca e, soprattutto, mai dobbiamo pensare che andrà tutto bene, confidando nella buona sorte. Al contrario, dico ai miei uomini, responsabilizzandoli, che tutto andrà come noi faremo in modo che vada”.
E quello che dà ai ragazzi che vengono attratti dai soldi facili?
“Mi permetto di ricordare ai giovani che la strada pianeggiante o, addirittura, in discesa non porta da nessuna parte anzi conduce spesso a successi illusori. Il crimine con le sue chimere, le sue ricchezze, i suoi modelli è fortemente attrattivo ma di norma conduce al carcere o addirittura alla morte. Basta guardarsi attorno: i criminali si uccidono tra loro, finiscono in carcere per tanti anni o, ben che gli vada, vivono nascondendosi come topi. Per far funzionare il cosiddetto “ascensore sociale” occorre rifuggire da questi modelli effimeri e con impegno e fatica seguire la strada più irta, rimboccandosi le maniche. D’altronde più si percorre il sentiero che inerpica, più si arriva in alto ed alla fine della dura salita il panorama sarà bellissimo. Ai giovani, quindi, dico: non abbandonate mai i vostri sogni, studiate e lavorate con impegno ed onestà, battetevi per una società più giusta e non mollate mai, neanche quando tutto potrebbe apparire perduto. Ricordate che c’è sempre un’altra via, mantenete la barra dritta, acquisite con passione gli strumenti culturali che vi necessitano ed i risultati verranno. Ricordate sempre che qualunque sia la posizione da cui partite sarete sempre e soltanto voi gli artefici del vostro futuro”.
Ci leggono anche dal Commissariato di Gela. Cosa vuole dire a chi l’ha conosciuta?
“Ho un ottimo ricordo degli uomini che mi hanno collaborato a Gela. Non so, in considerazione degli anni che sono trascorsi, quanti di loro siano ancora in attività e quanti invece siano andati in pensione. Com’è normale che sia, di molti di loro ho ricordi nitidi, di altri un po’ più sfocati ma li saluto tutti affettuosamente e dico loro che sono convinto che, insieme, abbiamo fatto un buon lavoro per la città, i cittadini onesti e per la Polizia di Stato. Li ringrazio singolarmente per quello che hanno saputo dare ed auguro a tutti ogni bene per il futuro”.
Nel corso di questi anni, il dottor La Rosa ha ricevuto la nomina di cavaliere e quella di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. La sua bacheca è ricca di encomi solenni e lodi per attività di servizio conferiti dal Dipartimento della Polizia.
Perché ha scelto di fare il poliziotto?
“Le ragioni che mi hanno indotto a fare questa scelta, non solo lavorativa ma anche di vita, sono molteplici. Fin da ragazzo, ho sempre sentito forte la necessità di dare il mio contributo per costruire una società più giusta, di combattere le prevaricazioni e la disonestà. Accarezzavo, quindi, l’idea di entrare a far parte della Polizia o della Magistratura inquirente per dare il mio contributo. Gli eventi della seconda metà degli anni ’70, con riferimento al terrorismo, e degli anni ’80, con riferimento alla criminalità organizzata, hanno ulteriormente consolidato la mia determinazione. Per questo motivo scelsi di iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza per poi tentare quest’avventura. Fu poi la lettura del libro: “Mafia – l’atto di accusa dei giudici di Palermo”, a cura di Corrado Stajano, ad essere stata determinante per le mie scelte future. Si tratta, in buona sostanza, di uno stralcio della sentenza-ordinanza prodotta dall’Ufficio Istruzione di Palermo che condusse poi al maxi processo a “Cosa Nostra”. Fu una lettura appassionante e travolgente che ha definitivamente rafforzato la passione per questo mio lavoro. Da lì al concorso per Vice Commissario di Polizia il passo fu breve”.
Se non fosse riuscito nell’intento di entrare a far parte della Polizia, cosa avrebbe fatto?
“Oggi come oggi, non riesco a vedermi in un altro ruolo. Tuttavia, se il progetto non si fosse realizzato, avendone la possibilità, avrei scelto un lavoro che potesse soddisfare, almeno in parte, la mia necessità di fornire un contributo per costruire una società migliore. Forse avrei scelto di fare il docente per cercare di indirizzare i giovani su una strada positiva”.
Sicuramente contento per il Trapani che ha stravinto il campionato di serie D
“Sono arrivato a Trapani quando la squadra di calcio della città disputava la Serie B ed aveva, qualche anno prima, sfiorato la promozione nella massima serie. Purtroppo le cose non andarono bene negli anni a seguire con fallimenti e cancellazioni che avevano fatto sparire la città di Trapani dal calcio che conta. In quest’ultima stagione sportiva, con l’avvento di una nuova proprietà, la squadra e la città stanno vivendo un periodo straordinario. Lo stadio è tornato un grande luogo di ritrovo e divertimento, la squadra ha stravinto meritatamente il campionato di Serie D ed il prossimo anno si cimenterà tra i professionisti. Sotto il profilo dell’ordine pubblico è stato un impegno notevole ma, in onestà, devo dire che il tifo trapanese è sano e non può certo annoverarsi tra le piaghe che affliggono la città. Purtroppo non è mancato qualche idiota ma è stato subito isolato dalla società, che ha preso immediatamente le distanze, e dai veri tifosi, che vanno allo stadio solo per divertirsi e sostenere la propria squadra. Il resto lo hanno fatto i miei uomini che, individuando gli stupidi e i violenti, mi hanno consentito di emettere parecchi Daspo così da mettere in sicurezza lo stadio, i veri tifosi e lo spettacolo. Mi piace aggiungere che la città di Trapani sta vivendo quest’anno un’altra grande avventura sportiva nella pallacanestro. La squadra dei “Trapani Shark”, che disputa la Serie A2, è stata attrezzata per il salto nella massima serie e nelle gare casalinghe, spesso, si registra il sold-out con oltre 3500 spettatori che gremiscono il palasport. A breve inizieranno i play-off e questo sarà, senz’altro, un rinnovato impegno per la Questura di Trapani ma anche, e soprattutto, uno spettacolo sportivo di alto livello a disposizione degli appassionati di basket trapanesi. Per rispondere alla sua domanda dico, senz’altro, che sono sempre molto contento quando lo sport diventa protagonista della nostra società poiché attraverso la passione per lo sport si innesca un circolo virtuoso. Di norma, in questi casi, i giovani sono stimolati ad avvicinarsi all’ambiente sportivo che li induce ad intraprendere percorsi positivi, sani e formativi. Se riflettiamo, infatti, i ragazzi che fanno sport difficilmente li vediamo bivaccare per strade o bar. La mattina vanno a scuola, il pomeriggio lo dividono tra lo studio e l’allenamento. Lo sport aiuta a rispettare le regole, fa comprendere cosa sia la disciplina, il duro lavoro, la fatica ed il sacrificio per raggiungere un risultato agognato. Dire che “lo sport è scuola di vita” può sembrare una frase fatta ma non lo è affatto”.
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Ipse Dixit
Da Butera alla nazionale under 21 di calcio, la nutrizionista Maria Luisa Cravana si racconta
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1 Agosto 2025
Orgogliosa e fiera della sua Butera, la definisce “il mio borghetto del cuore, il paese dei nonni e dell’odore del pane appena sfornato, della mia infanzia e dei miei amici di una vita. Ogni volta che ci ritorno, sorrido e mi sento serena, quando vado via lascio sempre un pezzo di me…”
La dottoressa Maria Luisa Cravana, nel piccolo centro a pochi chilometri da Gela, ha trascorso anni intensi, muovendosi tra gli angoli dove ogni pietra custodisce una memoria, nella piazza principale affollata di storia che suscita un senso di meraviglia e ammirazione per la bellezza del passato. Dopo avere conseguito il diploma di maturità al liceo classico Europeo Educandato di Palermo, Maria Luisa ha bruciato le tappe nel percorso scolastico, laureandosi in dietistica nella facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Catania e conseguendo la laurea magistrale in alimentazione e nutrizione umana alla facoltà di scienze agrarie ed alimentari dell’Università degli studi di Milano. Dedizione allo studio e sacrifici, che l’hanno portata fino alla Federazione Italiana Giuoco Calcio. Agli ultimi Europei Under 21 in Slovacchia, ha curato l’alimentazione degli azzurrini.
“La mia collaborazione con la Figc è nata nel 2017, per caso. Avevo da poco concluso il Master in Nutrizione Sportiva, subito dopo la laurea magistrale; un caro collega mi avvisò che si stavano aprendo delle nuove posizioni per nutrizionisti, con l’obiettivo di creare per la prima volta un gruppo di professionisti a disposizione del Club Italia. Il colloquio è andato bene ed oggi sono ancora qui…”
La nazionale Under 21, ha cambiato commissario tecnico. Conosci Silvio Baldini?
“Non personalmente, ne ho sentito parlare molto bene e sono certa che farà un ottimo lavoro”.
Il tuo rapporto con l’ex ct degli azzurrini, Carmine Nunziata?
“Ottimo!, E’ stato il secondo allenatore che ho incontrato in questo meraviglioso percorso; abbiamo seguito insieme l’Under 17 fino al Mondiale in Brasile, esperienza meravigliosa e due anni fa ci siamo ritrovati in Under 21 continuando la nostra collaborazione con armonia e affetto”.
Qual è stata l’esperienza più significativa in nazionale che ti ha lasciato un segno?
“Sono state due in particolare quelle che mi hanno anche fatto crescere di più lavorativamente: in primis, l’organizzazione del Mondiale in Brasile, itinerante, per la quale c’è stata un’importante organizzazione per poter stare al meglio in quel posto, arrivare carichi, mantenere le energie e recuperarle nonostante il jet lag e poi giocare partire interessanti con squadre provenienti da tutto il mondo; la seconda esperienza più importante, il mio arrivo in Under 21 durante un periodo già complicato per tutti noi, quello del Covid. Tra mascherine, tamponi e attenzioni meticolose, noi preparavamo l’Europeo”.
Hai mai avuto difficoltà a lavorare in un ambiente prettamente maschile?
“Le difficoltà ci sono, non bisogna negarlo; una donna deve sempre stare più “attenta” rispetto ad un uomo, nel comportamento, nell’atteggiamento e deve dimostrare e palesare sempre e più spesso la propria professionalità e serietà”.
Se un giorno arrivasse la chiamata per accedere nello staff della nazionale maggiore?
“Ne sarei felice e lusingata. Nonostante il Club Italia sia una grande famiglia e il lavoro all’interno, in qualsiasi altro staff sia ugualmente gratificante e motivante, ovviamente l’esperienza in nazionale maggiore, sarebbe un po’ la massima aspirazione”.
Sei tifosa del Milan. E’ l’anno giusto per ritornare ai fasti di un tempo con Max Allegri in panchina?
“Sono cresciuta da milanista con tutti i miei zii e la famiglia intera che ha vissuto gli anni d’oro del Milan. Quando posso corro a San Siro a tifare. L’arrivo di Allegri probabilmente è quello di cui il Milan aveva bisogno. Un uomo di esperienza, uno stabilizzatore, oltre che un bravo allenatore. Oltretutto noi tifosi siamo rimasti un po’ affezionati a colui che ci ha regalato quel bellissimo scudetto nel 2011, di fatto il penultimo vinto dai rossoneri”.
Hai sempre avuto parole di elogio per Arrigo Sacchi. Per quale motivo?
“Ho vissuto il nome di Arrigo proprio dai miei familiari. Lui era il mito, era l’eroe. Aver avuto la possibilità di conoscerlo, scambiare delle chiacchiere con lui, persona di una certa cultura e spessore, mi ha emozionato. La prima volta che l’ho incontrato, non credevo ai miei occhi. Gli ho chiesto perfino una foto. Ci sono state diverse occasioni successivamente e confermo che ascoltarlo diventa quasi un’esperienza mistica”.
È stato facile per una ragazza di provincia, emergere nel Nord Italia?
“Non ho mai sentito il peso della provenienza, avendo vissuto molti anni a Palermo, la mia città di nascita, ero un po’ pronta alla città, certo Milano viaggiava ad un’altra velocità ma mi sono adattata in fretta”.
Quando torni a Butera, cosa non deve mancare in tavola?
“Non si può andare via da Butera senza aver mangiato almeno una volta “l’impanata” ma a mia madre chiedo gli anelletti siciliani al forno (nel pranzo della domenica) e un’altra piccola concessione che mi faccio è la parmigiana dello zio. In primavera, magari sembrerà strano, amo pasta e piselli freschi e frittata di asparagi selvatici, due alimenti che non trovo a Milano e mi mancano molto”.
A pochi chilometri da Butera, c’è Gela…
“Gela se non sporadicamente per lavoro, per lo shopping e per il mare con gli amici, la conosco poco. La vedo come una città in evoluzione e che vuole farsi spazio e questo mi rallegra, allo stesso tempo penso debba essere valorizzata di più soprattutto a livello ambientale. C’è uno dei lungomari più belli della Sicilia e non è mantenuto bene. Questo mi fa rabbia!”.
Il rapporto con i tuoi genitori?
“Meraviglioso. Questo è il primo aggettivo che mi sento di utilizzare. Ho la fortuna di avere due genitori che mi hanno sempre sostenuta in ogni mia scelta dandomi sempre saggi consigli. Ciò che io oggi sono, è grazie a loro, ho la tenacia di mio papà Gaetano e la forza e dolcezza di mamma Carmela”.
C’è un grazie che ti senti di dire a qualcuno?
“Ai miei genitori certamente e a mio fratello Giovanni, il mio sostenitore più grande, così come a chi ha creduto in me in tutti questi anni, alcuni colleghi e amici cari”.
Che musica ascolti?
“A questa domanda mio fratello riderebbe. Probabilmente perché la musica che ascolto mi rappresenta molto (cambia con il mio umore). Spazio molto da un genere musicale all’altro ma non deve mai mancare il rock e la musica latina. Il mio must resta però la musica italiana degli anni 70-80, mia madre dice che sono vintage nell’anima”.

Entriamo nel dettaglio del tuo lavoro. Tra poco sarà Ferragosto e si preannunciano pranzi e cene abbondanti. C’è una strada da perseguire per evitare di ingrassare?
“Ciò che consiglio ai miei pazienti è di non abbuffarsi. Ci saranno pranzi e cene abbondanti ma da gestire con intelligenza e consapevolezza. Fare attività fisica o comunque cercare di mantenersi attivi tutti i giorni, idratarsi molto viste le temperature alte e abbondare in verdura. Quest’ultima non deve mancare assolutamente!”
Esiste una dieta perfetta?
“La dieta perfetta è un’alimentazione consapevole ricca in tutto: carboidrati, proteine, grassi, vitamine e minerali. È importante gestire il quantitativo di cibo assunto ma non dobbiamo avere paura degli alimenti, bisogna conoscerli e sceglierli bene”.
Quali sono gli errori da evitare per resistere alle tantissime tentazioni della gola, dolci e salate?
“Assumerne in grandi quantità o ripetere nella giornata la stessa tipologia di alimento, è già sbagliato. Diversificare la dieta può aiutare a non eccedere”.
Pane, pasta e riso fanno ingrassare?
“No, assolutamente, sfatiamo per favore questo mito. I cereali che sostengono la nostra amata dieta mediterranea sono degli alimenti imprescindibili, creano la nostra energia e vanno garantiti in una dieta equilibrata. Gestirne la grammatura e i condimenti invece può fare la differenza”.
Nello specifico, cos’è la dieta mediterranea?
“È uno stile alimentare tipico dei paesi che appunto si affacciano sul Mar Mediterraneo (o meglio almeno lo era un tempo), caratterizzato da un elevato consumo di frutta, verdura, cereali integrali, legumi, pesce fresco e olio extra vergine di oliva, con un uso moderato invece di carne, latticini e uova e un limitato apporto di dolci e zuccheri raffinati. È stata riconosciuta come patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco nel 2010”.
Perché nel Sud Italia – secondo gli ultimi dati – ci sono più obesi rispetto al centro e al Nord del nostro Paese?
“I dati di “Okkio alla Salute” ci mostrano risultati preoccupanti effettivamente sin dall’infanzia; le motivazioni principali sono proprio quelle legate al concetto di nutrimento ideale per i bambini percepito dai genitori; quindi, grosse quantità rispetto al fabbisogno calorico e allo stesso tempo scarso dispendio energico, quindi poca attenzione all’attività fisica che gli si propone di fare. Il sovrappeso e l’obesità sono un problema già durante la fase evolutiva”.
Facciamo un regalo ai nostri lettori. Ci puoi elencare un percorso alimentare da seguire attentamente per rimanere sani e belli?
“Si rimane sani e belli scegliendo l’equilibrio e la moderazione. Partirei col fare una completa colazione e mai saltarla (abitudine che hanno in molti). Delle idee potrebbero essere l’abbinamento di yogurt greco magro e autentico o kefir con frutta secca, frutta fresca di stagione e magari cereali integrali non zuccherati; oppure del pane tostato di segale con formaggio di capra o ricotta e frutta fresca/estratti o ancora dei dolci fatti in casa come pancake con farine non raffinate di avena, mandorla, yogurt, agave e frutta. Spuntini e merende “spezza fame” composti da verdure da sgranocchiare o frutta secca e frutta fresca. Pasti principali come pranzo e cena alternativamente che includano il consumo di cereali integrali, farro, orzo, riso con abbondante verdura e ortaggi di stagione, l’uso di spezie come la curcuma e lo zenzero e l’aggiunta di proteine (da consumare eventualmente anche separatamente nel pasto successivo) come pesce fresco pescato, carni prevalentemente bianche da allevamenti all’aperto e senza uso di antibiotici, legumi e/o prodotti derivanti dai legumi, uova da allevamenti controllati, a terra e formaggi freschi magri. Alla base di tutto l’idratazione, bere almeno 2 litri di acqua al giorno e praticare attività fisica”.
In nazionale, ci sono giocatori vegetariani e vegani? In questi casi, come ci si comporta?
“Si, ci sono. Organizziamo sempre dei menu che prevedono anche scelte completamente vegetali e va monitorato meglio l’introito proteico generale”.
“Il corpo mano è un tempio e come tale va curato e rispettato, sempre”. La citazione di Ippocrate non fa una grinza…
“È la mia filosofia; questa frase già letta e fatta mia al liceo durante i miei studi classici mi ha sempre affascinato, tanto da riportarla nel mio sito come mantra.Il corpo è un tempio, a livello olistico bisogna prendersene cura sempre, è come una casa, la vorremmo sempre pulita, in ordine piena di amore e armonia. Questo ci garantirà sicuramente una salute migliore nel tempo ma sosterrà anche una salute mentale più equilibrata che non va sottovalutata oltre che cercare di gestire lo stress quotidiano anche perché ci aggiungo anche un’altra importante citazione “mens sana in corpore sano”.
Il tuo sogno nel cassetto?
“Non bisognerebbe mai dirlo altrimenti non si avvera, ma noi non siamo superstiziosi. Perché no, un’esperienza in un club sarebbe un gran desiderio ma per il futuro sogno uno studio particolare tutto mio a Milano. Con Butera nel cuore”.
Ipse Dixit
“Sacrifici quotidiani per garantire sicurezza e legalità nel territorio”
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1 Luglio 2025
Nato a Torino cinquant’anni fa, il comandante provinciale dei Carabinieri di Caltanissetta, colonnello Alessandro Mucci, laureato in “Giurisprudenza” con specialistica in “Scienze della Sicurezza Interna ed Esterna”, ha una carriera alle spalle di tutto rispetto. Ha operato soprattutto nel Sud Italia, con diverse tappe nel Lazio dove dal 1999 al 2004 ha guidato (ed insegnato) nel tempo, alla scuola Allievi Marescialli e Brigadieri di Velletri, alle porte di Roma; il Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Latina e dello stesso comando provinciale e la Compagnia di Aprilia. Successivamente, il suo cammino lo ha portato nelle città ad alta densità criminale: Pozzuoli, Locri, Reggio Calabria, Bari. In Puglia, è stato comandante del Ros, il Raggruppamento Operativo Speciale. Ha messo piede in Sicilia nel settembre del 2004, guidando la Compagnia di Santo Stefano di Camastra, nel Messinese, fino al 2007, per poi ritornare nella nostra isola nel 2022, con l’incarico di Capo Centro Dia di Palermo.
Colonnello, partiamo proprio da qui. Nei diversi incarichi professionali, ha combattuto la ‘Ndrangheta, la Sacra Corona Unita, la camorra e la mafia. Organizzazioni simili e spavalde nel compiere reati crudeli ma differenti tra loro. E’ proprio così?
“I caratteri costitutivi – quindi la forza d’intimidazione, l’assoggettamento, l’omertà – e le finalità – di illecito arricchimento, di infiltrazione dell’economia – sono comuni a tutte le organizzazioni di tipo mafioso, che agiscono in diversi ambiti territoriali di operatività e di influenza, e secondo criteri organizzativi interni in parte differenti”.
Abbiamo accennato della sua permanenza in Calabria. Che ricordi ha e cosa di quella terra ricorda piacevolmente?
“Una straordinaria esperienza professionale per intensità e complessità”.
Tra i risultati conseguiti dal colonnello Mucci, sono state numerose le operazioni di servizio che hanno portato alla disarticolazione di importanti sodalizi criminali, al sequestro di ingenti patrimoni, all’identificazione degli autori di efferati fatti di sangue e la cattura di numerosi irreperibili, di cui due compresi nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità inseriti nel “Programma Speciale di Ricerca”. Basti ricordare Ernesto Fazzalari di Taurianova, nel Reggino, considerato all’epoca della cattura il secondo in Italia dopo Matteo Messina Denaro e inserito nell’elenco stilato da Europol dei “Most Wanted Fugitives”, e Giuseppe Giorgi, di San Luca, e altri 6 inseriti nell’elenco dei “latitanti pericolosi”.

Dallo scorso 16 settembre, lei è al comando del Provinciale di Caltanissetta. Massima attenzione, è chiaro, è dedicata a Gela. Se da un lato, nella nostra città, c’è una sensibile riduzione degli incendi dolosi, grazie ad un sofisticato sistema di videosorveglianza, dall’altro proliferano l’uso di armi e lo spaccio di droga. Come legge lo spaccato che si delinea?
“Nel territorio di Gela è giudizialmente accertata l’esistenza e operatività di organizzazioni criminali, anche di tipo mafioso, tra le cui fonti di arricchimento e sostentamento economico, lo spaccio di sostanze stupefacenti occupa certamente un ruolo preminente. Quanto alla disponibilità di armi, anche in questo caso il dato rinviene dalle indagini e dalla quotidiana attività di prevenzione e contrasto svolto dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia, come evidenziato anche in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario del 25 gennaio scorso. Sulla sensibile riduzione degli incendi dolosi, ritengo possano essere fatte due considerazioni di carattere generale: la prima riguarda la costante attenzione rivolta alla specifica fenomenologia delittuosa – di particolare allarme sociale – da parte di tutte le Autorità e le Istituzioni deputate all’ordine e alla sicurezza pubblica, in primis il Prefetto di Caltanissetta che ha svolto importante azione di impulso proprio in tema di controllo del territorio finalizzato alla prevenzione dei reati, accompagnato da qualificate attività investigative svolte sotto la direzione dell’Autorità Giudiziaria; la seconda considerazione in tema di riduzione del dato numerico consegue ad una più approfondita analisi del fenomeno, con particolare riferimento alla matrice entro cui “inquadrare” i singoli eventi: accanto, infatti, ad episodi la cui origine appare contestualizzabile in contesti di criminalità organizzata, si pensi ai danneggiamenti con finalità estorsiva, esiste in apprezzabile misura una fenomenologia connessa e dinamiche di natura quasi “privatistica” potremmo definirla: episodi connessi a vicende interpersonali, la cui valutazione dell’andamento nel tempo è quindi maggiormente “sfuggente” rispetto alle attività di analisi dei fenomeni criminali più strutturati”.
Perché, soprattutto dalle nostre parti, la maggior parte delle persone guarda solo al proprio interesse?
“Non ritengo di avere specifiche competenze per un approfondimento, sotto il profilo psicologico e dello studio dei comportamenti, sul tema dell’egoismo”.
Allarghiamo l’orizzonte: in tutta Italia, sono numerosi gli incontri che le forze dell’ordine hanno con gli studenti al fine di diffondere la cultura della legalità, però se leggiamo i dati dell’ultimo sondaggio, c’è da rabbrividire. Per la maggioranza degli alunni italiani, la mafia è più forte dello Stato e non può essere sconfitta. Solo il 20% (uno su cinque) crede che possa essere annientata. Si tratta, sicuramente, di un dato shock. Non crede?
“Crediamo molto nella diffusione della cultura della legalità tra i giovani e nelle scuole, e lavoriamo ogni giorno perché le parole di Giovanni Falcone, nella celebre intervista a Rai3 il 30 agosto 1991, sulla fine della mafia e sul come si possa vincere la mafia, possano trovare piena credibilità anche tra i giovani di oggi”.
Nel contrasto al crimine, la tecnologia – indubbiamente – vi offre un contributo importante. Come rende il vostro lavoro e le vostre operazioni all’avanguardia?
“Viviamo un’era di profonde trasformazioni e di rapidi cambiamenti, che influenzano il nostro modo di vivere e di interagire. Le tecnologie di uso generale sono in grado di trasformare radicalmente i processi decisionali, operativi ed esecutivi in diversi campi, le continue innovazioni tecnologiche ridefiniscono anche i parametri della sicurezza mondiale: tutto ciò rende le nostre sfide sempre più complesse, per cui l’Arma è impegnata nei programmi di ricerca e di sviluppo al fine di offrire strumenti adeguati per far fronte ad una minaccia in continua evoluzione”.
Parallelamente, della stessa tecnologia ne fa uso anche la malavita. E’ risaputo che il crimine è sbarcato sui social per condurre affari illegali. Come e dove bisogna intervenire per frenare tutto ciò di cui le associazioni mafiose traggono vantaggio?
“Ritengo si debba intervenire lavorando sulla capacità anzitutto di interpretare i mutamenti che stiamo vivendo, propri dell’era digitale, e quindi sviluppando una conseguente capacità di garantire risposte adeguate alle nuove sfide di cui dicevo prima, al passo con i tempi, accanto alle tradizionali strategie di prevenzione e di repressione”.
Qual è la sua definizione di mafia?
“Ritengo che la definizione di “associazione di tipo mafioso” nel nostro codice penale riassuma efficacemente tutti i caratteri del fenomeno mafioso”.
Perché in alcune aree d’Italia, non si è mai sradicata la contiguità tra mafia e politica?
“Al di là del riferimento territoriale, reputo che i legami politico – mafiosi siano, e la storia giudiziaria ne offre piena conferma, strettamente connessi al fenomeno mafioso: al punto da rendere necessaria una specifica previsione normativa, all’articolo 416-ter, in tema di scambio elettorale politico mafioso appunto”.
Quali sono le attività silenti, poco conosciute, che i Carabinieri portano avanti al servizio della comunità?
“Come ricordato in occasione della celebrazione del 211° anniversario della fondazione dell’Arma, ogni giorno di “vita operativa” restituisce storie di rassicurazione sociale, di piccoli gesti di vicinanza, di presenza sempre competente e generosa grazie a quell’attitudine all’ascolto e al dialogo con la gente, che da sempre caratterizzano la “cultura della sicurezza” del Carabiniere: tanti cittadini si rivolgono al Carabiniere per un semplice consiglio, un suggerimento, a volte una parola di conforto”.
Nella nostra provincia, in altrettante caserme, sono presenti cinque stanze dedicate all’ascolto delle vittime di violenza domestica e di genere. Lei, in più occasioni, ne ha sottolineato il ruolo fondamentale ed ha invitato le vittime a denunciare. Il messaggio è stato accolto?
“I Carabinieri sono quotidianamente in prima linea non solo nelle attività di contrasto delle diverse fattispecie di reato in tema di violenza domestica e di genere, ma anche nella prevenzione attraverso la diffusione di materiale informativo, di locandine, mediante la pubblicazione di video sui propri canali social, la realizzazione di spot, come quello che qualche tempo fa ha visto la partecipazione del presentatore Carlo Conti, per invitare le donne a “fare il primo passo” informandole sull’esistenza di misure di natura legale, ma anche di supporto psicologico, lavorativo ed economico a sostegno delle vittime. E ancora le tante occasioni di incontro con le scuole e le comunità, e la sezione dedicata al “codice rosso” sul sito istituzionale www.carabinieri.it. I dati relativi alle attivazioni del “codice rosso” in provincia evidenziano un importante ricorso alla denuncia da parte delle vittime della violenza di genere: e mi ricollego al concetto di “prossimità” e di vicinanza ai cittadini, e ancora al ruolo fondamentale svolo dalle Stazioni Carabinieri, primo sportello di ascolto per le vittime”.
In occasione della cerimonia per i 211 anni della fondazione dei Carabinieri, lei ha ricordato le vittime del dovere e i militari della provincia nissena caduti in servizio, scandendo i loro nomi. Quale esempio hanno lasciato a tutti voi che indossate la divisa?
“L’esempio dei nostri caduti dev’essere per tutti noi Carabinieri costante e immutabile modello di riferimento: un esempio di dedizione, di senso del dovere, di fedeltà al giuramento prestato”.
Quali sono i consigli per evitare di cadere nella trappola delle truffe commesse ai danni di persone anziane?
“L’Arma ha messo in campo numerose iniziative in tema di truffe agli anziani: da ultimo, tra le “buone pratiche” individuate per accrescere l’incidenza dei servizi di prossimità alla popolazione anziana e per sensibilizzarla sul delicato tema, è stata avviata una capillare campagna di informazione, finalizzata ad accrescere i livelli di prevenzione e la funzione di “rassicurazione sociale” in favore degli anziani, coinvolgendo anche “Federfarma Caltanissetta” e l’“Ordine Provinciale dei Farmacisti” in una collaborazione che prevede la distribuzione di un opuscolo informativo sulla specifica tematica, consegnato in ciascuna delle 85 farmacie delle provincia in occasione dell’acquisto di farmaci. Il consiglio principale resta sicuramente quello di contattare sempre il Numero Unico di Emergenza 112 in caso di dubbio”.
Cosa vuole dire ai suoi carabinieri che operano nel Nisseno?
“Come recentemente espresso in occasione della Festa dell’Arma, il mio apprezzamento per l’impegno quotidianamente profuso, ma anche un ringraziamento per lo spirito di servizio, per la competenza e il rigore morale, per quel contributo quotidiano e “silente” di cui si faceva cenno prima, per i sacrifici che spesso il nostro servizio comporta per tutti noi e per le nostre famiglie”.
Ha mai temuto per la sua incolumità?
“La paura è un’emozione umana, la professionalità comporta il saperla gestire, il non farsene condizionare, ma soprattutto il cercare in ogni ambito di prevedere ogni possibile fattore di rischio e adottare le procedure operative corrette per ridurre al minimo l’esposizione al pericolo per l’incolumità propria e del personale”.
Se non avesse fatto il carabiniere, cosa avrebbe fatto?
“Sono appassionato di tecnologia, probabilmente avrei orientato i miei studi in quel settore”.
L’errore da cui ha imparato di più?
“Ogni singolo errore deve far maturare una riflessione sul “cosa si sarebbe potuto fare di più o meglio”.
Le fa paura il tempo che passa?
“No!”
Si pente di qualcosa?
“Assolutamente no”.
Lei è torinese: bianconero o granata?
“Juve tutta la vita”
Qual è il piatto della nostra provincia che le piace di più?
“Adoro tutta la cucina siciliana. Buonissima!”
Ipse Dixit
Il coraggio di denunciare di Nino Miceli, “nessuno si permetta di non renderci liberi!”
Pubblicato
2 mesi fail
1 Giugno 2025
La sua storia potrebbe ispirare un regista cinematografico (non è escluso che ciò accada) perché evidenzia, in un vortice perenne di pesanti e vigorose emozioni, l’iniziale sottomissione al crimine; la susseguente ribellione; il forzato allontanamento dalla sua terra e la testimonianza contro i suoi carnefici, condannati nei tre gradi di giudizio, a 450 anni di carcere.Poco meno che quarantacinquenne, in quel periodo, Nino Miceli dirigeva la concessionaria Lancia-Autobianchi in via Venezia. Lui, agrigentino di Realmonte, era felice di operare a Gela. La città piaceva anche alla moglie e ai suoi due figli. L’attività andava benissimo e anche i dipendenti erano soddisfatti del lavoro. Si era trovata l’alchimia perfetta. Quando un giorno, un maledetto giorno, tutto crolla. E’ l’aprile del 1990. Siamo in piena guerra di mafia. Accompagnato da un ex dipendente di Miceli, in concessionaria si presenta un boss di Cosa Nostra (un capo mandamento) che chiede lo sconto sul prezzo di una Lancia Thema in esposizione e una detrazione di parte della somma pattuita di 10 milioni di lire, in cambio di un’Alfa Romeo da rottamare. Miceli non ci sta. L’affare non può essere concluso. A quel punto, il capomafia lo fissa negli occhi: “ma tu lo sai chi sono io?”. Non una vera e propria richiesta di denaro (avverrà dopo) ma l’immagine evidente della protervia, dell’imposizione, dell’intimidazione e del disprezzo per chi aveva osato non sottostare alla pretesa. E’ l’inizio della fine. Da quel momento cominciano i guai. Il negozio viene dato alle fiamme alla fine dello stesso mese di aprile. Un danno enorme di 200 milioni di lire. Poi altre avvisaglie, con un ulteriore tentativo di incendio tre mesi dopo. Il biglietto da visita della malavita locale, era stato fatto recapitare. Da quel momento, Miceli comincia a pagare 500 mila lire a Cosa Nostra. Il 28 febbraio dell’anno successivo, un altro rogo. Un inferno di fuoco. Un ulteriore messaggio, eloquente: tra i beneficiari del pizzo, si aggiunge anche la Stidda che pretende la stessa somma elargita ai “rivali”. Miceli è ostaggio, umiliato, sia come uomo che come commerciante, privato della propria libertà, stretto a tenaglia. Dal secondo “contatto”, Miceli comincia a registrare le conversazioni con i mafiosi, mette nero su bianco dinnanzi agli investigatori, facendo nomi e cognomi, raccontando ogni dettaglio, con particolare dovizia. E’ l’inizio della fine ma a parti invertite. Purtroppo però è solo in fase di denuncia e in pochi lo seguono.
Miceli, ha creduto e sperato che in quel periodo la muraglia di silenzio che cinturava Gela perdesse pezzi e che la facciata si sgretolasse?
“L’ho sperato, in particolare quando l’allora capitano dei Carabinieri, Mario Mettifogo ci esortò che uniti nella denuncia, tutti noi commercianti avremmo potuto liberare la città dal cancro mafioso. Purtroppo, è andata diversamente e la muraglia di silenzio ha perso qualche pezzo ma è rimasta in piedi…”
Nel suo trascorso, si staglia lo sfondo di una Gela da girone infernale. Sono stati anni difficilissimi…
“Purtroppo si: sono stati anni difficilissimi, da girone infernale per me e la mia famiglia in particolare, ma Gela, fortunatamente, non è solo mafia. E’ una città dove, per esperienza diretta, ho conosciuto tantissima gente perbene che, in modo seppur diverso, ha vissuto quel girone infernale”.
Da più parti, la sua è stata definita una lotta trentennale non solo contro le cosche mafiose ma anche con alcune frange del movimento antimafia e alcuni esponenti delle istituzioni statali. Perché?
“La mia è stata una lotta, fatta in compagnia di Tano Grasso e con il supporto fondamentale del mio amico Angelo Lo Scalzo, funzionario di Polizia, per me stesso ma anche per chi dopo di me avrebbe fatto scelte coraggiose. Quelle che definiamo Istituzioni allora non avevano piena coscienza del problema racket che soffocava i commercianti. Ricordo a me stesso come l’allora ministro degli Interni, Roberto Maroni, chiese ed ottenne dalla Rai una trasmissione riparatoria dopo la denuncia di Roberto Saviano che affermava come la mafia spadroneggiasse anche nel nord Italia”.
In tutti questi anni di lotte continue per la legalità, lei ha conosciuto anche il magistrato più scortato d’Italia, Nino Di Matteo. Chi è stato per lei?
“Di Nino Di Matteo il ricordo che ho è di un allora giovanissimo magistrato molto preparato che seppe tutelarmi durante la mia lunga testimonianza dai pretestuosi, anche se comprensibili, attacchi da parte degli avvocati difensori dei mafiosi. E’ anche a sua firma la risposta che la procura di Caltanissetta invia al Servizio centrale di Protezione quando quest’ultima chiede un parere su una elargizione che mi avrebbe consentito di rientrare tra i vivi. Quella lettera la definisco nel mio libro “La mia unica medaglia ricevuta”. L’avermi citato nel suo libro “Assedio alla toga” come esempio da seguire è stata una carezza che conforta”.
Perché in quegli anni, in sede di denuncia, le fu consigliato di recarsi dai Carabinieri e non al Commissariato di Polizia?
“Avevo perplessità e sfiducia nei confronti di tutte le forze dell’ordine per alcuni avvenimenti che riporto nel libro. Un mio carissimo amico, che aveva la possibilità di valutare, ritenne di consigliarmi in quel particolare contesto di rivolgermi ai carabinieri”.
Lo abbiamo accennato in precedenza: il comandante Mario Mettifogo…
“Mario Mettifogo è la persona a cui ho affidato la mia vita. Il suo approccio nei miei confronti non è quello dell’Autorità che si rivolge dall’alto in basso al cittadino ma quello di una Autorità che chiede al cittadino di essere aiutato per il raggiungimento di un obiettivo condiviso da ambo le parti. E’ anche l’uomo che mi pone davanti i pericoli che sono insiti in quella denuncia a Gela in quel contesto e si adopera per la mia salvaguardia. Poi con il tempo diventa l’amico con il quale ti intrattieni tra ricordi e attualità”.
Il 10 novembre del 1992, la mafia alza il tiro ed uccide il profumiere Gaetano Giordano. Lo conosceva?
“Non ho un ricordo personale perché non lo conoscevo. Quel barbaro omicidio, accompagnato dal ferimento del figlio Massimo, mi ha messo di fronte ad una realtà per me inimmaginabile. A Gela per una denuncia, si poteva morire”.
“Io, protetto: una vita da incubo. Con l’antimafia dell’Ulivo, io mi sarei anche potuto impiccare”. Cosa l’ha spinta a pronunciare quella frase nel luglio del 1998?
“Leggere che il sottosegretario agli interni, Giannicola Sinisi, nel corso di una audizione alla Commissione antimafia affermava di avere liquidato con 20 o 30 milioni di lire alcuni testimoni, francamente mi ha fatto male e da qui lo sfogo con la giornalista de La Repubblica, Liana Milella”.
Quanti sacrifici ha fatto, assieme ad altri “coraggiosi”, per fare emanare il decreto-legge per l’istituzione di un fondo di sostegno per le vittime delle richieste estorsive?
“Non si è trattato di sacrifici, quanto di legittime richieste per noi e per chi dopo di noi avrebbe fatto la civile scelta della denuncia, di non subire oltre che il danno la beffa economica. E’ tutto merito di Tano Grasso che con il supporto di un manipolo di testimoni riuscì a porre all’attenzione del Paese il problema racket. Il forum organizzato dal Corriere della Sera con la nostra presenza, fu la miccia che avviò la fiammata che fece riscoprire la legge rimasta insabbiata in Senato. A seguire arrivò la convocazione di Walter Veltroni con la promessa, mantenuta, che la legge sarebbe stata approvata al più presto”.
Per quale motivo, c’è voluto così tanto tempo per fare capire allo Stato che il “testimone di giustizia” (come nel suo caso) fosse un soggetto completamente diverso rispetto ad un “collaboratore di giustizia”?
“Voglio ricordare che il fenomeno del pentitismo si sviluppa negli anni 80 per merito di Giovanni Falcone e del pool antimafia e si amplia negli anni 90 con centinaia di pentiti. I testimoni di giustizia non hanno mai superato le 60\70 unità. L’apparato statale abituato a gestire pentiti, ha inizialmente accorpato i testimoni nella stessa struttura che gestiva i pentiti. E’ grazie ad Alfredo Mantovano e a Tano Grasso che anche questa anomalia è stata risolta con la creazione ad hoc di una struttura che gestiva solo i testimoni. E’ gratificante sentire la risposta al telefono, quando chiamo i Nuclei Operativi di Protezione: Antonino, come possiamo aiutarla?”
In quegli anni terribili, chi le è stato realmente vicino?
“Inizialmente Mario Mettifogo che ha condotto l’operazione Bronx 2 con il ritrovamento del libro mastro delle estorsioni; poi l’allora Maggiore Domenico Tucci che mi ha seguito e consigliato in relazione alla mia sicurezza. Il generale Umberto Pinotti che, dopo gli screzi avuti in caserma a Gela, ho rincontrato a Roma consigliandomi una soluzione di uscita dal Servizio centrale di protezione. Tano Grasso che mi ha coinvolto in questa battaglia ideale a favore dei testimoni standomi vicino e trovando soluzioni inizialmente impensabili a favore dei testimoni. Senza dimenticare Antonio Manganelli, allora Direttore del Servizio centrale di protezione che diede parere favorevole alla formulazione che ho proposto per la mia uscita dal Servizio. Alfredo Mantovano, il prefetto Rino Monaco, il maresciallo dei carabinieri di Appignano di Macerata, Giovanni Cardoni. In questo lungo e accidentato cammino, l’uomo a cui devo veramente tutto è Angelo Lo Scalzo, il funzionario di Polizia, amico d’infanzia, che mi è stato sempre vicino nel quotidiano di questo accidentato percorso. il vero mio Angelo Custode in tutta questa vicenda”.
Quanto è stato difficile per lei e per i suoi familiari, assumere una nuova identità, cambiare radicalmente residenza e attività lavorative?
“Inizialmente le difficoltà principali le hanno subito mia moglie e i miei figli. Invito ad immaginare una madre e due ragazzi sradicati dal loro ambiente e trasferiti in una località sconosciuta alla quale dovevano adeguarsi. Per loro, il senso di solitudine ma anche di abbandono vissuto, deve essere stato alienante. In merito alla nuova identità, è come mentire ma con il tempo prendi atto che le nuove generalità ti accompagneranno fino alla fine dei tuoi giorni e quindi convivi con questo dualismo identitario e prendi atto di una interruzione della catena genealogica. Questa interruzione mi fa stare male sotto l’aspetto psicologico”.
Si è sentito un esiliato?
“Si, mi sono sentito esiliato! La città che mi era stata vicina dopo gli incendi, si è allontanata quando divento accusatore e mi costringe ad andare via. Con la cittadinanza onoraria ho creduto nella riconcilazione e il dono dell’opera del maestro Leonardo Cumbo, “Attrazione repulsiva” posta allora sul lungomare, era per me il segno e la volontà rappacificatrice sia mia che della città di Gela. L’asportazione dell’opera (per restauro?) da due anni e il fatto che non sia più tornata al suo o altro posto, cosa significa? Possibile che l’opera dia fastidio? E se si, a chi? Sono domande che non cercano risposta”.
Se tornasse indietro a quegli anni, rifarebbe le stesse identiche cose?
“E’ una domanda che mi sono fatto e mi è stata fatta mille volte e la risposta è sempre la stessa. Rifarei tutto, anche se questa azione di denuncia, che in un paese civile dovrebbe essere un gesto normale, nel mio caso ha sconvolto l’esistenza normale di una normale famiglia. La libertà è un valore che non ha un prezzo”.

Perché ritiene che ci sia una vera e propria oligarchia dell’antimafia?
“Nel momento in cui il problema racket ha interessato seriamente il nostro Paese, mafiosi, politici e soggetti istituzionali vari e non, hanno valutato questo fenomeno come terreno su cui lucrare sia economicamente che come gestione del potere a spese di chi in questa guerra contro la mafia c’è morto o si è sconvolto la vita come me”
Ha avuto timore di essere ucciso?
“Si, è stato un timore ricorrente, quello di subire una ritorsione anche estrema, ma riesco razionalmente a tenere questo timore in cassaforte della quale ho dimenticato la combinazione”.
Ha paura della morte?
“Ho paura della sofferenza che può portare alla morte ed ho coscienza che essa si avvicina”.
Si è sentito solo in quegli anni a Gela?
“Per nulla, ho avuto sempre vicino persone che mi hanno voluto bene e non sono sicuro di averli ringraziati abbastanza. Sono una persona che ha difficoltà a tradurre in parole i suoi sentimenti verso chi vuole bene”.
Attualmente di cosa si occupa?
“Nel 2014 ho vissuto un momento difficile sotto l’aspetto sentimentale ed è in questo momento buio interiore che ricevo la telefonata di Massimo Giordano, il figlio del compianto Gaetano, che mi invita a venire a Roma: ho bisogno di persone di cui mi fido. Massimo è stato nominato Coamministratore Giudiziario, dalla Procura di Roma, di una importante procedura di sequestro preventivo e ritiene di affidarmi l’amministrazione di diverse società facente parte della stessa procedura, che successivamente diventa confisca definitiva e ancora oggi sono qui ad assolvere a questo compito di amministratore che a breve dovrebbe concludersi con l’assegnazione e\o vendita dei beni e definitiva chiusura della procedura. E poi, se ci sarà un poi, la pensione. A Massimo devo dieci meravigliosi anni romani”.
Qual è il suo senso della vita?
“Non credo che la vita non abbia di per sé un senso, ma si è costretti a darglielo. In alternativa, il suicidio”.
A Gela è stato fatto tutto (e bene) sul fronte dell’antiracket?
“La mia visione sul fronte dell’antiracket a Gela è per lo più una visione frammentata, considerata la mia lontananza da Gela. E’ indubbio l’attivismo del presidente della disciolta associazione. Ho partecipato al 25’ anniversario dell’uccisione di Gaetano Giordano e mi sono rimaste impresse due cose: l’autoreferenzialità di un filmato che contrastava con le parole dell’allora procuratore di Gela, Fernando Asaro, che affermava: i commercianti gelesi in dibattimento balbettano. Le ultime vicende sanno di sconcerto e la Prefettura di Caltanissetta ha ritenuto di dovere sospendere l’associazione dall’elenco prefettizio”.
Ai tanti imprenditori, commercianti, artigiani, cosa si sente di dire?
“Abbiamo avuto la fortuna di essere nati in un continente, dove successivamente alle due guerre mondiali, i politici di queste Nazioni, hanno intrapreso un percorso di pace e unione assicurando ai cittadini il bene più prezioso che è la libertà, di espressione, impresa, religiosa ed altro ancora. Si può permettere che una merdaccia di un mafioso venga a toglierci questa libertà? Non si può permettere. Continuare a ripetere “ ma chi te lo fa fare”, è vigliaccheria allo stato puro”.
Nino Miceli, porterà la sua testimonianza diretta in Sicilia, in occasione della presentazione della sua ultima fatica letteraria. “Questo libro non è un romanzo, è un libro confessione – dice – E’ un libro verità su di me e sugli altri. Mi sono messo a nudo, mi sono svelato. Non scrivere i cognomi dei mafiosi, sarebbe stata finzione”. Previsti, durante questo mese, appuntamenti nell’Agrigentino, nel Palermitano e a Gela.
Miceli, più volte ha sostenuto che le piacerebbe passeggiare liberamente lungo il corso principale di Gela. Senza scorta
“Si, è un desiderio ricorrente. Vorrei ma non oggi alla luce di quanto avvenuto. Ma come allora, anonimo a tanti e salutando amici che incontri”.
Trova complicato che tutto ciò possa verificarsi?
“Molto complicato anzi impossibile”.
Cosa dice al boss che le ha stravolto la vita?
“Dovessi averlo davanti gli chiederei: qual è il senso che ha dato alla sua vita? E alla luce di quanto avvenuto, ne è valsa la pena? Un’ideologia fondata sulla legalità, invece che sulla sopraffazione, non avrebbe consentito a lei e ai suoi cari di dare un senso migliore alla vita? Semplicemente la vita”.
Le foto di Nino Miceli, pubblicate nell’articolo, sono state volutamente offuscate per ovvi motivi di sicurezza

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