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Ipse Dixit

“La politica deve stare lontana dalla mafia. A Gela, esperienza di valore”

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Il prossimo 6 maggio, a Roma, assumerà il ruolo di Consigliere Ministeriale presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza. E’ stato nominato direttamente dal Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: gli sono state ampiamente riconosciute elevate attitudini investigative, frutto di un percorso professionale contraddistinto dalla lotta alla mafia in territori difficili del Sud Italia e per essere riuscito a gestire eventi e fenomeni assai complessi e complicati sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica. Nato a Messina, sessantadue anni appena compiuti, il dottore Salvatore La Rosa, laureato in Giurisprudenza ed abilitato alla professione di avvocato, ha conseguito i titoli dell’Alta Formazione ed il Master di II livello in “Sicurezza, Coordinamento Interforze e Cooperazione Internazionale” e quello in “Scienze Criminologico Forensi” presso l’Università di Roma “La Sapienza” e, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, la Laurea specialistica in “Scienze delle Pubbliche Amministrazioni”. Dal 2019 e fino ai giorni nostri, ha diretto la Questura di Trapani e prima ancora quella di Ragusa. Tra gli altri incarichi, è stato anche vicario del Questore di Messina. Dal 2005 al 2007 è stato a capo del Commissariato di Gela. 

“E’ stato un biennio intenso e di grandi soddisfazioni professionali – ci tiene a precisare -. Ricordo che l’impatto fu davvero complicato: il primo giorno, subito un intervento per un omicidio a Mazzarino e, a seguire, la partecipazione al Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica in ragione della partita di calcio di Serie C Gela – Napoli, che si sarebbe tenuta la domenica seguente con la previsione dell’arrivo di 1000 tifosi partenopei. Ma ero già discretamente “strutturato”. Arrivavo a Gela dopo un triennio passato a Lamezia Terme, dove era in corso una guerra di mafia, ed in precedenza avevo lavorato in Sicilia, nel siracusano, per una dozzina d’anni tra la Squadra Mobile e i Commissariati distaccati. A Gela ho trovato un ufficio ben organizzato, composto da tante persone perbene che non si sono mai risparmiate. Il lavoro era tanto, sia nell’ambito della Polizia Giudiziaria che sotto il profilo del controllo del territorio, ma gli uomini erano disponibili e professionali. Peraltro, in quel periodo, il Commissariato di Gela era impegnato in parecchi servizi di scorta e tutela che assorbivano un gran numero di personale. Per me è stata un’esperienza molto positiva che mi ha ulteriormente rafforzato”.

In quel periodo di tempo a Gela, è stato fatto tutto oppure si poteva fare di più?

“Si può sempre fare di più e meglio ma, certamente, non possiamo rimproverarci nulla, almeno sotto il profilo dell’impegno. Grande è stata la collaborazione con la Squadra Mobile di Caltanissetta e con le Procure pur nella consapevolezza degli impegni sempre maggiori. Proprio in ragione della palpabile sofferenza dovuta al grande carico di lavoro, l’Amministrazione, nel periodo in cui io ho diretto l’Ufficio, ha spostato al Commissariato di Gela quasi 50 uomini che già prestavano servizio in quel territorio ma nell’ambito delle specialità della Polizia di Stato e che, verosimilmente, erano sottoimpiegate. La soppressione degli Uffici di Polizia di Frontiera Marittima e del Posto di Polizia Ferroviaria, con conseguente trasferimento del personale al Commissariato di Ps. fu di grande aiuto non solo sul piano pratico ma anche su quello psicologico, soprattutto per gli uomini che già prestavano il loro servizio al Commissariato di via Calogero Zucchetto”

A Gela convivono due se non tre consorterie mafiose: Cosa Nostra, Stidda e gruppo Alferi. Andando specificatamente nel dettaglio, come sono organizzate – secondo la sua esperienza sul campo – e come riescono (nonostante i numerosi arresti) ad infiltrarsi nel tessuto locale?

“La domanda dovrebbe essere rivolta a chi ha oggi il polso della situazione. Io sono andato via da Gela nel 2007 e a distanza di 17 dalla chiusura della mia esperienza nel territorio sarei, a dir poco, presuntuoso a cimentarmi in un’analisi di questo tipo. Posso solo dire che, nel periodo della mia permanenza, tra “Cosa Nostra” e “Stidda” vi era un patto di “sospettosa” non belligeranza, condito da una equa spartizione dei profitti. La situazione era, a mio modo di vedere, determinata dalla necessità delle consorterie mafiose di mantenere una posizione più defilata in ragione del gran numero di carcerazioni e condanne subite, che le avevano fortemente indebolite ed, ancora, dall’esigenza di evitare di innalzare troppo il livello dell’attenzione da parte delle Forze di Polizia in ragione della presenza nell’area di importanti latitanti. Con riferimento al cosiddetto gruppo “Alfieri” posso dire che “u Ierru”, (Giuseppe Alfieri, ndr) capo dell’organizzazione, già all’epoca era attivo e riusciva a convivere con le consorterie mafiose più strutturate sul territorio per le identiche ragioni che ho esposto e anche perché si occupava di segmenti del malaffare cui non erano direttamente interessate “Cosa Nostra” e “Stidda”.

C’è voglia di cambiamento, di ribellione all’oppressione mafiosa in Sicilia. Almeno così sembra.  La gente, però, scende in piazza solo a seguito di fatti emergenziali. Come mai secondo lei?

“Si, è vero. I grandi movimenti di massa contro la mafia, in Sicilia come altrove, si percepiscono solo quando succede qualcosa di veramente eclatante e questa è la risultante di una percezione attenuata, se non addirittura assente, del fenomeno. Dalla stagione delle stragi son passati 30 anni e più e le giovani generazioni non hanno vissuto quei momenti tragici. Il ricordo è labile o del tutto mancante. La necessità di fare memoria dei fatti accaduti e dei martiri della mafia nonchè di spiegare il fenomeno ai giovani è oggi ancor più importante che in passato. Noi della Polizia di Stato siamo, purtroppo, “azionisti di maggioranza” nella triste graduatoria di operatori uccisi dalla ferocia mafiosa e ci impegniamo in ogni parte del territorio nazionale a dare il nostro contributo a quest’opera di sensibilizzazione delle coscienze nella lotta al crimine organizzato. Purtroppo non tutte le agenzie e le formazioni sociali che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei nostri giovani si stanno dimostrando all’altezza del compito. Molto di più si potrebbe fare sia nell’ambito scolastico, dove sarebbe opportuno dare più spazio allo studio della nostra storia recente e ai valori che ispirano la Carta Costituzionale, che in quello familiare, dove spesso si educano i figli non ai valori su cui si fonda la nostra società ma, piuttosto, all’utilizzo di espedienti e prepotenze per ottenere guadagni e successo. Per formare una “cultura antimafia” occorre intervenire sui giovani, anzi sui giovanissimi, con un’attività di formazione ed informazione che deve, affondando le radici nella storia, spesso misconosciuta, della mafia e dell’antimafia, servire ad educare ai valori della giustizia, della solidarietà, dei diritti e dei doveri che sono il distillato della nostra Costituzione. Lo dico da padre di tre figli, tutti nati dopo le stagioni delle stragi e che hanno un posto di osservazione privilegiato derivante proprio dall’essere figli di un operatore impegnato “per mestiere” nella lotta alla mafia, ma mi raccontano della assoluta assenza di conoscenza del fenomeno da parte di molti dei loro amici e compagni. In una parola: occorre una rivoluzione copernicana per fornire ai giovani gli strumenti culturali per costruire una società libera da condizionamenti”.       

Le cronache raccontano di un intreccio tra mafia e politica. E’ la mafia ad avere bisogno della politica o l’esatto contrario?

“La politica vera è esclusivamente “servizio” ed ha quindi bisogno solo di valori positivi da mettere in campo nel quotidiano a favore dei cittadini. Dato ciò e considerato che la mafia è solo disvalore, sono convinto che è la politica che debba stare lontano. La criminalità, di contro, diventa mafiosa proprio perché si infiltra nel tessuto sociale contaminandone le strutture, in primis quelle politico/amministrative. La mafia non sarebbe mafia senza infiltrarsi nella politica condizionandone l’operato. Se questa contaminazione non ci fosse saremmo di fronte ad organizzazioni criminali ma non alla mafia. Fatto questo breve quadro di riferimento, non posso che affermare che la politica che ha bisogno della mafia per affermarsi non è più politica ma essa stessa è mafia. Quindi, ad esempio, pensare che di fronte a 10 o 10000 voti che puzzano di mafia non prenderli equivarrebbe a farli prendere ad altri non significa ragionare pragmaticamente ma pensare da mafioso”.

Con quali mezzi potrà essere limitato se non completamente sradicato, questo subdolo legame che persiste nel Sud Italia e soprattutto in Sicilia?

“Come ho già detto, è solo una questione culturale. Occorre informare e formare le nuove generazioni fornendo loro gli strumenti culturali. La normativa di settore credo sia più che adeguata nonchè tra le più avanzate nel mondo. L’attività della Magistratura e delle Forze di Polizia è forte e determinata ma pensare che con la sola repressione si possa debellare il fenomeno è pia illusione”.   

Quando il 16 gennaio del 2023, ha saputo che il boss dei boss Matteo Messina Denaro era stato arrestato, cosa ha provato?

“E’ stato un importante momento di riscatto e di liberazione per la nostra terra di Sicilia e, credo, per tutta l’Italia. Si trattava del latitante in cima alla lista dei maggiori ricercati d’Europa e nella top five mondiale. Un successo strepitoso per lo Stato, anche se avvenuto dopo 30 anni di ricerche. Per quanto mi riguarda mi è dispiaciuto che non sia stato rintracciato dalla Polizia di Stato ma la cosa che ho subito pensato è che la sua cattura avrebbe determinato una profonda rivisitazione degli equilibri all’interno dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, non solo trapanese ma nel suo complesso, e che occorreva tracciare, senza ritardo ed in perfetta sinergia con la Magistratura inquirente e con la altre Forze di Polizia, una nuova strategia per individuare, per tempo, i percorsi che l’organizzazione mafiosa avrebbe potuto seguire dopo l’arresto”.

Anche voi eravate sulle tracce del padrino?

“Lo sforzo della Polizia di Stato per individuare il latitante è stato grande e ininterrotto. Il risultato, purtroppo, non ci ha premiato ma non abbiamo nulla da rimproverarci. Onore al merito, oltre che alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo che ha coordinato le attività di ricerca, ai colleghi che hanno materialmente proceduto alla cattura. Mi preme sottolineare che, comunque, questa è la risultante dello sforzo, prolungato e determinato, che tutti gli Enti che si occupano di Polizia Giudiziaria sul territorio hanno prodotto. L’attività dispiegata negli anni nei confronti della famiglia del latitante e dei suoi sodali è sotto gli occhi di tutti. Una pletora di arresti e fermi, con le conseguenti condanne, nonchè di sequestri di beni di ingente valore, che sono stati sottratti alla famiglia e ai suoi fiancheggiatori, danno la dimensione dello sforzo prodotto dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia, nessuna esclusa, e della determinazione con cui è stata indebolita la rete di protezione che era posizionata attorno al ricercato”.

Ha sperato che, dopo il suo arresto, Matteo Messina Denaro cominciasse a collaborare?

“Certamente. Tutti coloro che stanno dalla parte della verità e della giustizia lo hanno auspicato”.

Quanto sono importanti le rivelazioni dei pentiti?

“L’apporto fornito alle indagini dai collaboratori di giustizia è stato ed è determinante per penetrare fino in fondo nei gangli delle famiglie mafiose e nelle poliedriche interessenze criminali che le riguardano. Si tratta di uno strumento irrinunciabile per combattere le mafie”.

Delle tante tappe lavorative, qual è stata l’esperienza che l’ha formata e fortificata e perché?

“Non saprei dare una risposta secca. Ho affrontato l’avventura professionale con umiltà e tanta voglia di imparare, anche dagli inevitabili errori fatti. Dal punto di vista della mia formazione si è trattato di una sorta di “working in progress” e, quindi, posso affermare che tutto è stato importante. Tuttavia, il periodo che, dal punto di vista operativo, mi ha più di altri formato è stato quello trascorso, nella prima metà degli anni ’90, alla Squadra Mobile di Siracusa. Eravamo nel bel mezzo della guerra di mafia e l’attività di investigazione e di repressione era febbrile ed appassionante. I risultati investigativi furono eccellenti. Si dormiva poco o nulla ma bisognava restare lucidi e soprattutto umani. Il rischio più rilevante era, infatti, quello di perdere, di fronte ai tanti orrori che si presentavano frequentemente davanti agli occhi, la sensibilità che, invece, deve essere la caratteristica principale per un poliziotto che, per mestiere, è chiamato ad intervenire lì dove c’è il dolore. Dal punto di vista organizzativo, invece, ho ricevuto tanto dall’esperienza fatta, subito dopo il periodo trascorso a Gela, quale Capo di Gabinetto della Questura di Siracusa (dall’agosto 2007 all’ottobre 2012). Sono stati 5 anni intensi durante i quali abbiamo affrontato tante situazioni emergenziali come ad esempio, e senza la pretesa di essere esaustivi, i tanti sbarchi di immigrati, i frequenti scioperi che coinvolgevano il Polo Petrolchimico, i confronti, talvolta anche serrati ma sempre costruttivi, con le Organizzazioni Sindacali. Ma, soprattutto, nel 2009 abbiamo organizzato in modo inappuntabile, e lo dico con un pizzico di immodestia, il G8 dei Ministri dell’Ambiente. La pianificazione e la gestione dei complessi servizi di ordine e sicurezza pubblica correlati a quell’importante evento hanno segnato senz’altro il mio percorso e mi hanno completato professionalmente, atteso che sino ad allora mi ero misurato con uffici più prettamente “operativi”, segnatamente i Commissariati distaccati e la Squadra Mobile”.

Qual è il suggerimento che dà sempre ai suoi uomini?

“A chi mi collabora dico sempre che nel nostro lavoro non ci sono battitori liberi ma, al contrario, è necessario essere e sentirsi parte di una squadra. Solo lavorando in team si possono ottenere risultati all’altezza delle attese di coloro che serviamo, cioè i cittadini affidati alle nostre cure. Nessuno deve restare indietro o essere messo da parte poiché tutti, anche coloro che hanno maggiori difficoltà, possono e devono essere messi in condizione di fornire il proprio apporto. Per ottenere il risultato che vogliamo dobbiamo confidare nella forza del gruppo e nella lealtà reciproca e, soprattutto, mai dobbiamo pensare che andrà tutto bene, confidando nella buona sorte. Al contrario, dico ai miei uomini, responsabilizzandoli, che tutto andrà come noi faremo in modo che vada”.

E quello che dà ai ragazzi che vengono attratti dai soldi facili?

“Mi permetto di ricordare ai giovani che la strada pianeggiante o, addirittura, in discesa non porta da nessuna parte anzi conduce spesso a successi illusori. Il crimine con le sue chimere, le sue ricchezze, i suoi modelli è fortemente attrattivo ma di norma conduce al carcere o addirittura alla morte. Basta guardarsi attorno: i criminali si uccidono tra loro, finiscono in carcere per tanti anni o, ben che gli vada, vivono nascondendosi come topi. Per far funzionare il cosiddetto “ascensore sociale” occorre rifuggire da questi modelli effimeri e con impegno e fatica seguire la strada più irta, rimboccandosi le maniche. D’altronde più si percorre il sentiero che inerpica, più si arriva in alto ed alla fine della dura salita il panorama sarà bellissimo. Ai giovani, quindi, dico: non abbandonate mai i vostri sogni, studiate e lavorate con impegno ed onestà, battetevi per una società più giusta e non mollate mai, neanche quando tutto potrebbe apparire perduto. Ricordate che c’è sempre un’altra via, mantenete la barra dritta, acquisite con passione gli strumenti culturali che vi necessitano ed i risultati verranno. Ricordate sempre che qualunque sia la posizione da cui partite sarete sempre e soltanto voi gli artefici del vostro futuro”.

Ci leggono anche dal Commissariato di Gela. Cosa vuole dire a chi l’ha conosciuta? 

“Ho un ottimo ricordo degli uomini che mi hanno collaborato a Gela. Non so, in considerazione degli anni che sono trascorsi, quanti di loro siano ancora in attività e quanti invece siano andati in pensione. Com’è normale che sia, di molti di loro ho ricordi nitidi, di altri un po’ più sfocati ma li saluto tutti affettuosamente e dico loro che sono convinto che, insieme, abbiamo fatto un buon lavoro per la città, i cittadini onesti e per la Polizia di Stato. Li ringrazio singolarmente per quello che hanno saputo dare ed auguro a tutti ogni bene per il futuro”.

Nel corso di questi anni, il dottor La Rosa ha ricevuto la nomina di cavaliere e quella di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. La sua bacheca è ricca di encomi solenni e lodi per attività di servizio conferiti dal Dipartimento della Polizia. 

Perché ha scelto di fare il poliziotto? 

“Le ragioni che mi hanno indotto a fare questa scelta, non solo lavorativa ma anche di vita, sono molteplici. Fin da ragazzo, ho sempre sentito forte la necessità di dare il mio contributo per costruire una società più giusta, di combattere le prevaricazioni e la disonestà. Accarezzavo, quindi, l’idea di entrare a far parte della Polizia o della Magistratura inquirente per dare il mio contributo. Gli eventi della seconda metà degli anni ’70, con riferimento al terrorismo, e degli anni ’80, con riferimento alla criminalità organizzata, hanno ulteriormente consolidato la mia determinazione. Per questo motivo scelsi di iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza per poi tentare quest’avventura. Fu poi la lettura del libro: “Mafia – l’atto di accusa dei giudici di Palermo”, a cura di Corrado Stajano, ad essere stata determinante per le mie scelte future. Si tratta, in buona sostanza, di uno stralcio della sentenza-ordinanza prodotta dall’Ufficio Istruzione di Palermo che condusse poi al maxi processo a “Cosa Nostra”. Fu una lettura appassionante e travolgente che ha definitivamente rafforzato la passione per questo mio lavoro. Da lì al concorso per Vice Commissario di Polizia il passo fu breve”.    

Se non fosse riuscito nell’intento di entrare a far parte della Polizia, cosa avrebbe fatto?

“Oggi come oggi, non riesco a vedermi in un altro ruolo. Tuttavia, se il progetto non si fosse realizzato, avendone la possibilità, avrei scelto un lavoro che potesse soddisfare, almeno in parte, la mia necessità di fornire un contributo per costruire una società migliore. Forse avrei scelto di fare il docente per cercare di indirizzare i giovani su una strada positiva”. 

Sicuramente contento per il Trapani che ha stravinto il campionato di serie D

“Sono arrivato a Trapani quando la squadra di calcio della città disputava la Serie B ed aveva, qualche anno prima, sfiorato la promozione nella massima serie. Purtroppo le cose non andarono bene negli anni a seguire con fallimenti e cancellazioni che avevano fatto sparire la città di Trapani dal calcio che conta. In quest’ultima stagione sportiva, con l’avvento di una nuova proprietà, la squadra e la città stanno vivendo un periodo straordinario. Lo stadio è tornato un grande luogo di ritrovo e divertimento, la squadra ha stravinto meritatamente il campionato di Serie D ed il prossimo anno si cimenterà tra i professionisti. Sotto il profilo dell’ordine pubblico è stato un impegno notevole ma, in onestà, devo dire che il tifo trapanese è sano e non può certo annoverarsi tra le piaghe che affliggono la città. Purtroppo non è mancato qualche idiota ma è stato subito isolato dalla società, che ha preso immediatamente le distanze, e dai veri tifosi, che vanno allo stadio solo per divertirsi e sostenere la propria squadra. Il resto lo hanno fatto i miei uomini che, individuando gli stupidi e i violenti, mi hanno consentito di emettere parecchi Daspo così da mettere in sicurezza lo stadio, i veri tifosi e lo spettacolo. Mi piace aggiungere che la città di Trapani sta vivendo quest’anno un’altra grande avventura sportiva nella pallacanestro. La squadra dei “Trapani Shark”, che disputa la Serie A2, è stata attrezzata per il salto nella massima serie e nelle gare casalinghe, spesso, si registra il sold-out con oltre 3500 spettatori che gremiscono il palasport. A breve inizieranno i play-off e questo sarà, senz’altro, un rinnovato impegno per la Questura di Trapani ma anche, e soprattutto, uno spettacolo sportivo di alto livello a disposizione degli appassionati di basket trapanesi. Per rispondere alla sua domanda dico, senz’altro, che sono sempre molto contento quando lo sport diventa protagonista della nostra società poiché attraverso la passione per lo sport si innesca un circolo virtuoso. Di norma, in questi casi, i giovani sono stimolati ad avvicinarsi all’ambiente sportivo che li induce ad intraprendere percorsi positivi, sani e formativi. Se riflettiamo, infatti, i ragazzi che fanno sport difficilmente li vediamo bivaccare per strade o bar. La mattina vanno a scuola, il pomeriggio lo dividono tra lo studio e l’allenamento. Lo sport aiuta a rispettare le regole, fa comprendere cosa sia la disciplina, il duro lavoro, la fatica ed il sacrificio per raggiungere un risultato agognato. Dire che “lo sport è scuola di vita” può sembrare una frase fatta ma non lo è affatto”.

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Ipse Dixit

Il coraggio di denunciare di Nino Miceli, “nessuno si permetta di non renderci liberi!”

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La sua storia potrebbe ispirare un regista cinematografico (non è escluso che ciò accada) perché evidenzia, in un vortice perenne di pesanti e vigorose emozioni, l’iniziale sottomissione al crimine; la susseguente ribellione; il forzato allontanamento dalla sua terra e la testimonianza contro i suoi carnefici, condannati nei tre gradi di giudizio, a 450 anni di carcere.Poco meno che quarantacinquenne, in quel periodo, Nino Miceli dirigeva la concessionaria Lancia-Autobianchi in via Venezia. Lui, agrigentino di Realmonte, era felice di operare a Gela. La città piaceva anche alla moglie e ai suoi due figli. L’attività andava benissimo e anche i dipendenti erano soddisfatti del lavoro. Si era trovata l’alchimia perfetta. Quando un giorno, un maledetto giorno, tutto crolla. E’ l’aprile del 1990. Siamo in piena guerra di mafia. Accompagnato da un ex dipendente di Miceli, in concessionaria si presenta un boss di Cosa Nostra (un capo mandamento) che chiede lo sconto sul prezzo di una Lancia Thema in esposizione e una detrazione di parte della somma pattuita di 10 milioni di lire, in cambio di un’Alfa Romeo da rottamare. Miceli non ci sta. L’affare non può essere concluso. A quel punto, il capomafia lo fissa negli occhi: “ma tu lo sai chi sono io?”. Non una vera e propria richiesta di denaro (avverrà dopo) ma l’immagine evidente della protervia, dell’imposizione, dell’intimidazione e del disprezzo per chi aveva osato non sottostare alla pretesa. E’ l’inizio della fine. Da quel momento cominciano i guai. Il negozio viene dato alle fiamme alla fine dello stesso mese di aprile. Un danno enorme di 200 milioni di lire. Poi altre avvisaglie, con un ulteriore tentativo di incendio tre mesi dopo. Il biglietto da visita della malavita locale, era stato fatto recapitare. Da quel momento, Miceli comincia a pagare 500 mila lire a Cosa Nostra. Il 28 febbraio dell’anno successivo, un altro rogo. Un inferno di fuoco. Un ulteriore messaggio, eloquente: tra i beneficiari del pizzo, si aggiunge anche la Stidda che pretende la stessa somma elargita ai “rivali”. Miceli è ostaggio, umiliato, sia come uomo che come commerciante, privato della propria libertà, stretto a tenaglia. Dal secondo “contatto”, Miceli comincia a registrare le conversazioni con i mafiosi, mette nero su bianco dinnanzi agli investigatori, facendo nomi e cognomi, raccontando ogni dettaglio, con particolare dovizia. E’ l’inizio della fine ma a parti invertite. Purtroppo però è solo in fase di denuncia e in pochi lo seguono.

Miceli, ha creduto e sperato che in quel periodo la muraglia di silenzio che cinturava Gela perdesse pezzi e che la facciata si sgretolasse?

“L’ho sperato, in particolare quando l’allora capitano dei Carabinieri, Mario Mettifogo ci esortò che uniti nella denuncia, tutti noi commercianti avremmo potuto liberare la città dal cancro mafioso. Purtroppo, è andata diversamente e la muraglia di silenzio ha perso qualche pezzo ma è rimasta in piedi…”

Nel suo trascorso, si staglia lo sfondo di una Gela da girone infernale. Sono stati anni difficilissimi…

“Purtroppo si: sono stati anni difficilissimi, da girone infernale per me e la mia famiglia in particolare, ma Gela, fortunatamente, non è solo mafia. E’ una città dove, per esperienza diretta, ho conosciuto tantissima gente perbene che, in modo seppur diverso, ha vissuto quel girone infernale”.

Da più parti, la sua è stata definita una lotta trentennale non solo contro le cosche mafiose ma anche con alcune frange del movimento antimafia e alcuni esponenti delle istituzioni statali. Perché?

“La mia è stata una lotta, fatta in compagnia di Tano Grasso e con il supporto fondamentale del mio amico Angelo Lo Scalzo, funzionario di Polizia, per me stesso ma anche per chi dopo di me avrebbe fatto scelte coraggiose. Quelle che definiamo Istituzioni allora non avevano piena coscienza del problema racket che soffocava i commercianti. Ricordo a me stesso come l’allora ministro degli Interni, Roberto Maroni, chiese ed ottenne dalla Rai una trasmissione riparatoria dopo la denuncia di Roberto Saviano che affermava come la mafia spadroneggiasse anche nel nord Italia”.

In tutti questi anni di lotte continue per la legalità, lei ha conosciuto anche il magistrato più scortato d’Italia, Nino Di Matteo. Chi è stato per lei?

“Di Nino Di Matteo il ricordo che ho è di un allora giovanissimo magistrato molto preparato che seppe tutelarmi durante la mia lunga testimonianza dai pretestuosi, anche se comprensibili, attacchi da parte degli avvocati difensori dei mafiosi. E’ anche a sua firma la risposta che la procura di Caltanissetta invia al Servizio centrale di Protezione quando quest’ultima chiede un parere su una elargizione che mi avrebbe consentito di rientrare tra i vivi. Quella lettera la definisco nel mio libro “La mia unica medaglia ricevuta”. L’avermi citato nel suo libro “Assedio alla toga” come esempio da seguire è stata una carezza che conforta”.

Perché in quegli anni, in sede di denuncia, le fu consigliato di recarsi dai Carabinieri e non al Commissariato di Polizia?

“Avevo perplessità e sfiducia nei confronti di tutte le forze dell’ordine per alcuni avvenimenti che riporto nel libro. Un mio carissimo amico, che aveva la possibilità di valutare, ritenne di consigliarmi in quel particolare contesto di rivolgermi ai carabinieri”.

Lo abbiamo accennato in precedenza: il comandante Mario Mettifogo…

“Mario Mettifogo è la persona a cui ho affidato la mia vita. Il suo approccio nei miei confronti non è quello dell’Autorità che si rivolge dall’alto in basso al cittadino ma quello di una Autorità che chiede al cittadino di essere aiutato per il raggiungimento di un obiettivo condiviso da ambo le parti. E’ anche l’uomo che mi pone davanti i pericoli che sono insiti in quella denuncia a Gela in quel contesto e si adopera per la mia salvaguardia. Poi con il tempo diventa l’amico con il quale ti intrattieni tra ricordi e attualità”.

Il 10 novembre del 1992, la mafia alza il tiro ed uccide il profumiere Gaetano Giordano. Lo conosceva?

“Non ho un ricordo personale perché non lo conoscevo. Quel barbaro omicidio, accompagnato dal ferimento del figlio Massimo, mi ha messo di fronte ad una realtà per me inimmaginabile. A Gela per una denuncia, si poteva morire”.

“Io, protetto: una vita da incubo. Con l’antimafia dell’Ulivo, io mi sarei anche potuto impiccare”. Cosa l’ha spinta a pronunciare quella frase nel luglio del 1998?

“Leggere che il sottosegretario agli interni, Giannicola Sinisi, nel corso di una audizione alla Commissione antimafia affermava di avere liquidato con 20 o 30 milioni di lire alcuni testimoni, francamente mi ha fatto male e da qui lo sfogo con la giornalista de La Repubblica, Liana Milella”.

Quanti sacrifici ha fatto, assieme ad altri “coraggiosi”, per fare emanare il decreto-legge per l’istituzione di un fondo di sostegno per le vittime delle richieste estorsive?

“Non si è trattato di sacrifici, quanto di legittime richieste per noi e per chi dopo di noi avrebbe fatto la civile scelta della denuncia, di non subire oltre che il danno la beffa economica. E’ tutto merito di Tano Grasso che con il supporto di un manipolo di testimoni riuscì a porre all’attenzione del Paese il problema racket. Il forum organizzato dal Corriere della Sera con la nostra presenza, fu la miccia che avviò la fiammata che fece riscoprire la legge rimasta insabbiata in Senato. A seguire arrivò la convocazione di Walter Veltroni con la promessa, mantenuta, che la legge sarebbe stata approvata al più presto”.

Per quale motivo, c’è voluto così tanto tempo per fare capire allo Stato che il “testimone di giustizia” (come nel suo caso) fosse un soggetto completamente diverso rispetto ad un “collaboratore di giustizia”?

“Voglio ricordare che il fenomeno del pentitismo si sviluppa negli anni 80 per merito di Giovanni Falcone e del pool antimafia e si amplia negli anni 90 con centinaia di pentiti. I testimoni di giustizia non hanno mai superato le 60\70 unità. L’apparato statale abituato a gestire pentiti, ha inizialmente accorpato i testimoni nella stessa struttura che gestiva i pentiti. E’ grazie ad Alfredo Mantovano e a Tano Grasso che anche questa anomalia è stata risolta con la creazione ad hoc di una struttura che gestiva solo i testimoni. E’ gratificante sentire la risposta al telefono, quando chiamo i Nuclei Operativi di Protezione: Antonino, come possiamo aiutarla?”

In quegli anni terribili, chi le è stato realmente vicino?

“Inizialmente Mario Mettifogo che ha condotto l’operazione Bronx 2 con il ritrovamento del libro mastro delle estorsioni; poi l’allora Maggiore Domenico Tucci che mi ha seguito e consigliato in relazione alla mia sicurezza. Il generale Umberto Pinotti che, dopo gli screzi avuti in caserma a Gela, ho rincontrato a Roma consigliandomi una soluzione di uscita dal Servizio centrale di protezione. Tano Grasso che mi ha coinvolto in questa battaglia ideale a favore dei testimoni standomi vicino e trovando soluzioni inizialmente impensabili a favore dei testimoni. Senza dimenticare Antonio Manganelli, allora Direttore del Servizio centrale di protezione che diede parere favorevole alla formulazione che ho proposto per la mia uscita dal Servizio. Alfredo Mantovano, il prefetto Rino Monaco, il maresciallo dei carabinieri di Appignano di Macerata, Giovanni Cardoni. In questo lungo e accidentato cammino, l’uomo a cui devo veramente tutto è Angelo Lo Scalzo, il funzionario di Polizia, amico d’infanzia, che mi è stato sempre vicino nel quotidiano di questo accidentato percorso. il vero mio Angelo Custode in tutta questa vicenda”.

Quanto è stato difficile per lei e per i suoi familiari, assumere una nuova identità, cambiare radicalmente residenza e attività lavorative?

“Inizialmente le difficoltà principali le hanno subito mia moglie e i miei figli. Invito ad immaginare una madre e due ragazzi sradicati dal loro ambiente e trasferiti in una località sconosciuta alla quale dovevano adeguarsi. Per loro, il senso di solitudine ma anche di abbandono vissuto, deve essere stato alienante. In merito alla nuova identità, è come mentire ma con il tempo prendi atto che le nuove generalità ti accompagneranno fino alla fine dei tuoi giorni e quindi convivi con questo dualismo identitario e prendi atto di una interruzione della catena genealogica. Questa interruzione mi fa stare male sotto l’aspetto psicologico”.

Si è sentito un esiliato?

“Si, mi sono sentito esiliato! La città che mi era stata vicina dopo gli incendi, si è allontanata quando divento accusatore e mi costringe ad andare via. Con la cittadinanza onoraria ho creduto nella riconcilazione e il dono dell’opera del maestro Leonardo Cumbo, “Attrazione repulsiva” posta allora sul lungomare, era per me il segno e la volontà rappacificatrice sia mia che della città di Gela. L’asportazione dell’opera (per restauro?) da due anni e il fatto che non sia più tornata al suo o altro posto, cosa significa? Possibile che l’opera dia fastidio? E se si, a chi? Sono domande che non cercano risposta”.

Se tornasse indietro a quegli anni, rifarebbe le stesse identiche cose?

“E’ una domanda che mi sono fatto e mi è stata fatta mille volte e la risposta è sempre la stessa. Rifarei tutto, anche se questa azione di denuncia, che in un paese civile dovrebbe essere un gesto normale, nel mio caso ha sconvolto l’esistenza normale di una normale famiglia. La libertà è un valore che non ha un prezzo”.

Perché ritiene che ci sia una vera e propria oligarchia dell’antimafia?

“Nel momento in cui il problema racket ha interessato seriamente il nostro Paese, mafiosi, politici e soggetti istituzionali vari e non, hanno valutato questo fenomeno come terreno su cui lucrare sia economicamente che come gestione del potere a spese di chi in questa guerra contro la mafia c’è morto o si è sconvolto la vita come me”

Ha avuto timore di essere ucciso?

“Si, è stato un timore ricorrente, quello di subire una ritorsione anche estrema, ma riesco razionalmente a tenere questo timore in cassaforte della quale ho dimenticato la combinazione”.

Ha paura della morte?

“Ho paura della sofferenza che può portare alla morte ed ho coscienza che essa si avvicina”.

Si è sentito solo in quegli anni a Gela?

“Per nulla, ho avuto sempre vicino persone che mi hanno voluto bene e non sono sicuro di averli ringraziati abbastanza. Sono una persona che ha difficoltà a tradurre in parole i suoi sentimenti verso chi vuole bene”.

Attualmente di cosa si occupa?

“Nel 2014 ho vissuto un momento difficile sotto l’aspetto sentimentale ed è in questo momento buio interiore che ricevo la telefonata di Massimo Giordano, il figlio del compianto Gaetano, che mi invita a venire a Roma: ho bisogno di persone di cui mi fido. Massimo è stato nominato Coamministratore Giudiziario, dalla Procura di Roma, di una importante procedura di sequestro preventivo e ritiene di affidarmi l’amministrazione di diverse società facente parte della stessa procedura, che successivamente diventa confisca definitiva e ancora oggi sono qui ad assolvere a questo compito di amministratore che a breve dovrebbe concludersi con l’assegnazione e\o vendita dei beni e definitiva chiusura della procedura. E poi, se ci sarà un poi, la pensione. A Massimo devo dieci meravigliosi anni romani”.

Qual è il suo senso della vita?

“Non credo che la vita non abbia di per sé un senso, ma si è costretti a darglielo. In alternativa, il suicidio”.

A Gela è stato fatto tutto (e bene) sul fronte dell’antiracket?

“La mia visione sul fronte dell’antiracket a Gela è per lo più una visione frammentata, considerata la mia lontananza da Gela. E’ indubbio l’attivismo del presidente della disciolta associazione. Ho partecipato al 25’ anniversario dell’uccisione di Gaetano Giordano e mi sono rimaste impresse due cose: l’autoreferenzialità di un filmato che contrastava con le parole dell’allora procuratore di Gela, Fernando Asaro, che affermava: i commercianti gelesi in dibattimento balbettano. Le ultime vicende sanno di sconcerto e la Prefettura di Caltanissetta ha ritenuto di dovere sospendere l’associazione dall’elenco prefettizio”.

Ai tanti imprenditori, commercianti, artigiani, cosa si sente di dire?

“Abbiamo avuto la fortuna di essere nati in un continente, dove successivamente alle due guerre mondiali, i politici di queste Nazioni, hanno intrapreso un percorso di pace e unione assicurando ai cittadini il bene più prezioso che è la libertà, di espressione, impresa, religiosa ed altro ancora. Si può permettere che una merdaccia di un mafioso venga a toglierci questa libertà? Non si può permettere. Continuare a ripetere “ ma chi te lo fa fare”, è vigliaccheria allo stato puro”.

Nino Miceli, porterà la sua testimonianza diretta in Sicilia, in occasione della presentazione della sua ultima fatica letteraria. “Questo libro non è un romanzo, è un libro confessione – dice – E’ un libro verità su di me e sugli altri. Mi sono messo a nudo, mi sono svelato. Non scrivere i cognomi dei mafiosi, sarebbe stata finzione”. Previsti, durante questo mese, appuntamenti nell’Agrigentino, nel Palermitano e a Gela.

Miceli, più volte ha sostenuto che le piacerebbe passeggiare liberamente lungo il corso principale di Gela. Senza scorta

“Si, è un desiderio ricorrente. Vorrei ma non oggi alla luce di quanto avvenuto. Ma come allora, anonimo a tanti e salutando amici che incontri”.

Trova complicato che tutto ciò possa verificarsi?

“Molto complicato anzi impossibile”.

Cosa dice al boss che le ha stravolto la vita?

“Dovessi averlo davanti gli chiederei: qual è il senso che ha dato alla sua vita? E alla luce di quanto avvenuto, ne è valsa la pena? Un’ideologia fondata sulla legalità, invece che sulla sopraffazione, non avrebbe consentito a lei e ai suoi cari di dare un senso migliore alla vita? Semplicemente la vita”.

Le foto di Nino Miceli, pubblicate nell’articolo, sono state volutamente offuscate per ovvi motivi di sicurezza

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Ipse Dixit

“Attenzione massima su Gela. A presto, un nuovo presidio per la Guardia di Finanza”

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Preparatissimo in diritto penale tributario e dell’economia, con un passato come docente all’università Externardo di Bogotà e, in diritto amministrativo, alla scuola della Procura dell’Amministrazione di Panama, il colonnello Stefano Gesuelli, ha sempre sognato di indossare la divisa. Fin da ragazzino.

“Quando frequentavo le scuole medie a Roma desideravo di entrare nell’Accademia dell’Aeronautica e fare il pilota militare come mio nonno. Dato che all’epoca l’unica Accademia militare presente a Roma era quella della Guardia di Finanza, i miei genitori, per assecondare quel mio desiderio, mi portavano a vedere le cerimonie e i giuramenti della Finanza; così, a poco a poco, negli anni del Liceo, il Corpo ha soppiantato a poco a poco l’Aeronautica e ho iniziato a capire meglio i compiti e le responsabilità che avrei potuto assumere. Così che, durante l’ultimo anno di liceo, ho tentato il concorso in Accademia e, due mesi dopo la maturità, ho avuto il privilegio di entrare dal portone di ingresso del massimo Istituto del Corpo che, nel frattempo, si era trasferito a Bergamo. Una scelta di cui non mi sono mai pentito, anzi”.

Il prossimo 31 luglio, compirà quattro anni alla guida del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Caltanissetta. Il suo è un curriculum eccellente. Ha ricoperto, tra l’altro, i ruoli di esperto della Guardia di Finanza presso l’Ambasciata d’Italia in Panama e la Segreteria Esecutiva del Centro Interamericano delle Amministrazioni Tributarie con accreditamento secondario in Colombia, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana e Isole Cayman e di capo della Sezione Fiscalità e dell’Ufficio Cooperazione Internazionale del Comando Generale del Corpo. Portano il suo nome anche gli incarichi in varie attività di analisi e intelligence e in quelle operative in campo amministrativo e penale.

Colonnello, soffermiamoci sulla nostra provincia. Com’è organizzata la Guardia di Finanza sul territorio?

“La Guardia di Finanza presidia le tre principali zone geografiche ed economiche della provincia di Caltanissetta attraverso i propri Reparti Territoriali: i due Gruppi di Caltanissetta e Gela, che hanno responsabilità sulle aree del Capoluogo e della piana di Gela e dei territori di Niscemi e Mazzarino, e la Tenenza di Mussomeli che ha la propria area di competenza nel Vallone. A questi Reparti, si aggiunge il Nucleo di Polizia Economico Finanziaria che ha competenza su tutta la provincia per quei servizi di polizia economico-finanziaria di maggiore complessità e interdisciplinarità e, con la sua componente specialistica di Polizia Giudiziaria (il Gico), ha la responsabilità in tema di indagini sulla criminalità organizzata in tutto il Distretto della Corte d’Appello di Caltanissetta che include anche la provincia di Enna. Il Corpo si è quindi dato un’organizzazione capace di rispondere alle esigenze del territorio anche se concentrata al fine di massimizzare l’efficienza con il personale a disposizione. Si sta comunque valutando l’istituzione di nuovi reparti, con particolare riferimento all’area di Mazzarino e Riesi, al fine di dare una risposta ancora più efficace alla richiesta di legalità economico-finanziaria di quel territorio”.

Su quale versante specifico concentrate maggiormente le vostre indagini?

“La Guardia di Finanza è la Polizia economico-finanziaria del nostro Paese. Conseguentemente, l’attività di indagine si concentra maggiormente su tutte quelle fattispecie di violazioni amministrative e penali che provocano danno alla Finanza Pubblica, sia sul versante entrate che spese dello Stato, e su quelle che alterano i mercati e la concorrenza. Per rendere più semplice il concetto che potrebbe sembrare astruso: anche quando svolgiamo indagini su un’organizzazione che traffica droga, cerchiamo sempre di contrastare non solo l’acquisto e la vendita dello stupefacente, ma anche i flussi di denaro che ne derivano, le aziende nelle quali vengono reinvestiti i proventi, i canali finanziari utilizzati, ed altro ancora. Questo rende la Guardia di Finanza unica a livello mondiale per la capacità di affrontare complessivamente tutti i fenomeni illeciti di natura economico-finanziaria, potendo contare su un insieme di poteri assolutamente peculiari, che conciliano le esigenze di carattere amministrativo con le indagini penali e antiriciclaggio, unitamente a una disponibilità di banche dati unica nel panorama nazionale ed internazionale”.

Che idea si è fatto in questi anni della provincia di Caltanissetta?

“La prima cosa che ho notato di questa provincia è il territorio meraviglioso che caratterizza l’interno della Sicilia. Un territorio di una bellezza incredibile che andrebbe ancora di più valorizzato e fatto conoscere al di fuori della Regione. Poi esistono luoghi veramente molto belli anche dal punto di vista storico e architettonico, come il centro storico di Caltanissetta, il Castello di Mussomeli e le chiese di Mazzarino, solo per citarne alcuni. Credo fermamente che anche dal punto di vista economico la provincia abbia tante potenzialità, in particolare per quanto riguarda la logistica, in virtù della centralità geografica. Forse proprio dalla logistica si potrebbe partire sia per incrementare le attività economiche che per sviluppare ancora di più le opportunità accademiche offerte dal Consorzio universitario e dai tanti progetti che alcuni comuni vogliono realizzare”.

E di Gela?

“Gela è una realtà assolutamente unica che merita un discorso a parte. È indubbio che le opportunità offerte dalla presenza della Raffineria abbiano storicamente caratterizzato lo sviluppo economico della città verso quelle attività e i servizi dell’indotto. Ma Gela, per la sua particolare localizzazione, per il clima e per la vivacità della sua economia non dovrebbe dimenticare la lezione che le viene dalla sua storia. Essere il cuore pulsante della costa meridionale della Sicilia dal punto di vista economico, sociale e culturale. Le potenzialità connesse al turismo e al commercio, ora che la Raffineria sta completando il processo di riconversione, andrebbero maggiormente approfondite e sviluppate per fare di Gela una realtà economicamente ancora più rilevante nella Regione e, perché no, a livello di Italia Meridionale”.

A Gela sono tanti i fenomeni criminosi che quotidianamente riempiono le cronache e conseguentemente sono molteplici gli incontri urgenti del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, indetti e presieduti dal Prefetto. Dopo un periodo di calma apparente, però, subito dopo si torna al punto di partenza. Come legge quanto accade?

“Certamente la percezione di sicurezza data dalle notizie pubblicate in questo primo periodo dell’anno potrebbero indurre a vedere la situazione di sicurezza in netto peggioramento. I dati reali, però, ci danno un’indicazione diversa. La maggior parte dei danneggiamenti avvenuti è stata ricondotta a precise responsabilità e non ha alcuna relazione con fenomeni di criminalità organizzata. Gli sforzi delle tre Forze di Polizia nella città sono massimi, anche nel contrastare i traffici di stupefacenti e la presenza di armi, segnalata più volte dalle Procure di Caltanissetta e di Gela. L’attenzione del Comitato per l’ordine e la sicurezza Pubblica, guidato con capacità ed equilibrio dal Prefetto, è sempre massima, proprio per cogliere eventuali segnali di un peggioramento della situazione. Credo fermamente che molto si stia facendo, e bene, sul territorio, con risultati che sono per ora incoraggianti. Ovvio che non si deve perdere di vista la necessità di essere presenti e, proprio a tal fine, la Guardia di Finanza sta recuperando, grazie all’appoggio della Bioraffineria Eni, una caserma non più utilizzata, per permetterci di alloggiare più personale e unità cinofile antidroga, proprio per dare ulteriori risposte a questa necessità di sicurezza avvertita dalla società civile. Si tratta di un progetto in dirittura d’arrivo che mi rende molto fiero e mi auguro possa aiutare a disporre di più finanzieri sul territorio”.

Indagini e successivi procedimenti penali, hanno appurato l’esistenza a Gela di un vasto mercato della droga. Dove e come bisogna intervenire per stroncare il flusso continuo di stupefacenti?

“Il traffico di droga è una delle attività maggiormente lucrative per la criminalità organizzata e comune; per questo, richiama sempre l’attenzione delle nostre indagini anche al fine di eliminare le possibilità di reimpiego delle ingenti somme ottenute nei mercati leciti. Gela si trova al centro di un’area geografica da sempre interessata a questi traffici sia via mare che via terra e, soprattutto, che vanta un numero elevato di abitanti, tra i quali una rilevante popolazione giovane. Purtroppo, il tema degli stupefacenti sta avendo negli ultimi decenni una sempre maggiore accettazione “sociale” che rende il problema rilevante prima di tutto sotto il profilo educativo e di presenza dei servizi. Il solo contrasto ai traffici non rappresenta l’unica risposta possibile perché il solo sequestro delle sostanze e gli arresti connessi, di fatto, rendono solo più scarsa la risorsa, aumentandone il prezzo e, conseguentemente, i profitti per i criminali. Bisogna quindi agire su più fronti, potenziando Sert e Servizi sociali, affinando le politiche educative e, certamente, rendendo più efficaci le attività di controllo del territorio e di contrasto da parte delle Forze di Polizia”.

Ultimamente avete acceso i riflettori sul sistema del servizio idrico integrato nel Nisseno. L’inchiesta riguarda la gestione dell’erogazione, la ricerca di eventuali reati di natura economica, la non potabilità dell’acqua, l’inquinamento ambientale e le eventuali cause e responsabilità. Cosa dobbiamo aspettarci dall’indagine ancora alle fasi preliminari?

“Ogni attività di indagine è sotto la direzione della Procura della Repubblica ed è volta a verificare la sussistenza di eventuali elementi di responsabilità penale idonei a un giudizio prognostico di colpevolezza. Nella fase delle indagini preliminari si cercano tali elementi con totale garanzia degli eventuali indagati e quindi, allo stato, è assolutamente prematuro anticipare qualunque conclusione. Quello che ci si può aspettare in questo momento è lo svolgimento di attività istruttorie caratterizzate dal massimo rigore e garanzie processuali, per pervenire il prima possibile a un convincimento della Procura circa la sussistenza o meno di fattispecie di reato. Il tema della gestione del servizio idrico integrato è della massima importanza per la popolazione della nostra provincia e per questo merita un sereno ed approfondito esame per comprendere le dinamiche e le azioni che hanno portato alla situazione attuale e verificare la loro rispondenza alla normativa vigente, soprattutto per rispetto dei costi pagati dai cittadini e delle risorse immesse a carico dell’Erario pubblico”.

Le verifiche presso sedi di lavoro, a Gela, che gravi irregolarità fanno emergere?

“Il tema delle verifiche presso le sedi di attività commerciali o imprese è alla costante attenzione del Corpo anche in collaborazione con altre amministrazioni dello Stato. Le irregolarità che più spesso si verificano, riguardano la presenza di lavoratori in nero, in particolare nella stagione estiva durante il periodo della Movida o quando le attività connesse all’agricoltura sono più intense, e il mancato versamento delle contribuzioni obbligatorie. In qualche caso, si verificano vere e proprie “estorsioni” in danno dei lavoratori che, in cambio del contratto di lavoro, devono “restituire” una parte del proprio salario al datore di lavoro”.

È un problema culturale, frutto di una mentalità sbagliata, quello che porta ad affrontare la questione degli obblighi fiscali e previdenziali in maniera distorta dalle regole?

“Una volta ho sentito dire da un professore di diritto tributario che le persone vanno cantando a fare la guerra ma mai si sente qualcuno cantare quando deve pagare le proprie imposte. E non era un professore italiano, quindi il problema è evidentemente generalizzato. Si tratta certamente di un problema culturale e di educazione quello per il quale non si comprende come il pagamento delle imposte consenta allo Stato di fornire quei servizi pubblici che rendono una comunità sociale sempre più avanzata e solidale. Pensare che in Italia disponiamo di istruzione e sanità gratuite e date a tutti dallo Stato mentre altri Paesi economicamente avanzati non danno gli stessi servizi dovrebbe far riflettere. Allo stesso tempo, però, è fondamentale che lo Stato dia prova di essere capace di fornire tali servizi perché, altrimenti, qualcuno potrà sentirsi “giustificato” a non dare il proprio contributo nella maniera corretta. Per questo reputo fondamentale la missione della Guardia di Finanza di controllare il corretto adempimento tributario ma anche, allo stesso tempo, la correttezza della spesa pubblica e di come ogni euro di prelievo debba essere destinato ad una corretta finalità di interesse pubblico”

Usura, riciclaggio, truffe e frodi, pratiche commerciali pericolose per i cittadini. Quanto sono diffusi questi reati in provincia?

“Purtroppo, alcuni di questi reati sono molto diffusi e non solo in questa provincia. Mentre per certi reati come le frodi in commercio, è possibile svolgere indagini anche in assenza di denunce che servano da “fonte di innesco”, per altri come l’usura è molto difficile avere elementi utili per iniziare un’investigazione senza input da parte delle vittime. E in questo senso è fondamentale la presenza di associazioni antiracket serie e volenterose che possano rappresentare un primo collettore di eventuali situazioni critiche sia sul versante dell’estorsione che su quello dell’usura. È importante, comunque, che i cittadini sentano vicine le Istituzioni e collaborino denunciando eventuali condotte e anche solo rivolgendosi alle Autorità preposte in ogni caso di dubbio circa attività che potrebbero essere illecite”.

Sono continui i vostri controlli per garantire che i fondi del Pnrr siano utilizzati correttamente. Avete sentore che qualcuno li possa distrarre?

“La Guardia di Finanza è preposta ai controlli in tema di spese pubbliche e, per questa ragione, è tra gli attori riconosciuti dalla normativa in tema di controlli sul Pnrr. Proprio a tal fine, il Comando Provinciale di Caltanissetta ha firmato numerosi protocolli con i principali comuni della provincia, tra i quali Gela e Niscemi, per collaborare ancora più da vicino al fine di individuare eventuali condotte illecite tese a distrarre tali ingenti risorse dalle finalità istituzionali. E tali protocolli prevedono anche una parte di formazione per i funzionari pubblici incaricati della spesa, al fine di creare una collaborazione e una sinergia sempre più efficace e rendere più efficiente e legalmente orientata la gestione di tali progettualità. Anche se la maggior parte dei fondi ancora non è arrivata nella provincia per la “messa a terra” dei progetti, abbiamo già avviato, sia in collaborazione con i Comuni che di iniziativa, una serie di controlli che hanno evidenziato alcune irregolarità. Attendiamo i prossimi mesi per svolgere controlli ancora più penetranti sui progetti che abbiamo iniziato a monitorare”.

D’accordo che per fare crescere un territorio, per incrementare lo sviluppo, un ruolo determinante devono assumerlo le associazioni datoriali e di categoria?

“Sono fermamente convinto che il dialogo con le associazioni datoriali e di categoria sia fondamentale per una moderna Polizia Economico-Finanziaria quale la Guardia di Finanza. Non è possibile seguire le dinamiche economiche di un territorio se si prescinde da una dialettica aperta e trasparente con i soggetti che quel territorio fanno vivere ed evolvere con il proprio lavoro e, spesso, con grandi sacrifici. Già negli scorsi anni abbiamo svolto numerosi eventi con alcuni ordini professionali e associazioni imprenditoriali, finalizzati proprio a costruire questo dialogo apportando esperienze e cercando di creare un ambiente il più possibile sereno tra il Corpo e la società civile della provincia. Una crescita del nostro territorio è possibile solamente se tutti gli attori coinvolti svolgono un ruolo consapevole e trasparente; per quello ritengo che la partecipazione della Guardia di Finanza a iniziative di dialogo sia sempre fondamentale per far conoscere le proprie linee di azione, per depotenziare eventuali conflitti e per garantire un ambiente economico e imprenditoriale sereno che contribuisca alla crescita di Gela e di tutta la provincia”.

Entriamo nel dettaglio dell’ultimo incarico che lei ha portato a compimento, prima di arrivare a Caltanissetta: esperto della Guardia di Finanza presso l’Ambasciata d’Italia in Panama e la Segreteria Esecutiva del Centro Interamericano delle Amministrazioni Tributarie con accreditamento secondario in Colombia, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana e Isole Cayman

“I campi principali nei quali sono impiegati gli Esperti della Guardia di Finanza presso le Ambasciate italiane all’estero sono la lotta all’evasione fiscale e alla criminalità economico- finanziaria, il contrasto alla corruzione, alla contraffazione e la tutela del Made in Italy. Un altro settore di stretta cooperazione con le Ambasciate è quello della lotta alla dimensione finanziaria delle organizzazioni terroristiche e dell’applicazione delle sanzioni internazionali. Inoltre, la peculiarità del mio incarico a Panama aveva anche dei riflessi importanti quale corrispondente dell’Amministrazione Tributaria italiana presso un organismo internazionale che riunisce tutte le istituzioni tributarie delle Americhe e molte altre europee, asiatiche e africane. Proprio in questo ambito assumeva quindi grande importanza quello di sviluppare rapporti con le Amministrazioni estere, anche quelle con le quali non esistono strumenti formali di cooperazione, per raccogliere più agevolmente e rapidamente informazioni di interesse e promuovere lo scambio di esperienze e la formazione, per migliorare globalmente il contrasto ai crimini economico-finanziari. “Esportare” e far conoscere le peculiarità e le esperienze maturate dalla Guardia di Finanza nel mondo, anche in contesti molto diversi per cultura giuridica e mentalità, è stata un’esperienza importantissima che mi ha regalato moltissime soddisfazioni e grandi amicizie che personalità estere che mi hanno arricchito sia personalmente che professionalmente”.

Dal 1990 (anno di ingresso nella Guardia di Finanza) ad oggi, ha avuto tantissime esperienze. Qual è quella che ricorda con piacere e perché?

“Devo dire di essere stato fortunato per aver svolto compiti diversi sempre di grande soddisfazione e responsabilità. Ho avuto la possibilità di comandare Reparti del Corpo fin dal termine dell’Accademia, sono stato a più riprese presso lo Stato Maggiore del Corpo e in Amministrazioni esterne, sono stato più volte all’estero. E tutte queste esperienze per quanto differenti e, in alcuni casi, anche difficili ed impegnative, mi hanno lasciato bellissimi ricordi anche e soprattutto per le persone con le quali ho avuto il piacere di lavorare. Forse un’esperienza che ricordo sempre con piacere, e forse un po’ di nostalgia, è l’incarico di Comandante di Tenenza. Si trattava della prima destinazione al termine del corso quinquennale in Accademia e l’emozione era tantissima. Ero al comando di 87 persone tutte anagraficamente più grandi di me che avevo 23 anni. Ricordo con piacere le esperienze fatte, le persone incontrate e gli insegnamenti ricevuti e, alla fine, anche gli errori fatti, perché mi hanno fatto crescere come persona e come professionista. E poi non si possono non ricordare con piacere i propri venti anni…”

Ha mai temuto per la sua vita?

“A Panama, in due occasioni, ci sono stati degli episodi poco “simpatici” dai quali forse sarei potuto non uscire in piena salute. Ma timore devo dire di non averne avuto e non lo dico per dimostrare coraggio. Anzi, probabilmente c’è stata solo un po’ di incoscienza e mancata comprensione, nell’immediato, delle conseguenze di talune azioni. Comunque, mai mi sono trovato a pensare di non andare avanti su una certa strada o perseguire certe situazioni, soprattutto sul piano lavorativo. Le situazioni si affrontano con consapevolezza e si ragiona sulla strategia migliore per arrivare al risultato con i minori rischi o, almeno, una dose accettabile e gestibile di rischio per tutti”.

Se tornasse indietro, rifarebbe tutto quello che ha fatto?

“Sì. Senza dubbio. Ho avuto la possibilità di vivere esperienze e situazioni uniche, conoscere tante persone eccezionali. Quindi tutto quello che ho vissuto e sto vivendo tuttora forma parte di un “viaggio” unico che mi ha portato ad essere la persona che sono. E devo dire che mi piace quello che sono diventato, pur con i tanti difetti che ogni essere umano si porta dietro”.

Ha un rimorso?

“Tito Livio scriveva “Dimentichiamo quello che è già successo, perché ci si può lamentare, ma non tornare indietro”, quindi non ho particolari rimorsi. Certo con l’esperienza e “il senno di poi” di cui siamo fin troppo pieni, avrei cambiato alcune decisioni prese nel tempo, ma sono convinto che si agisca con le carte che si hanno in mano e quindi sia inutile abbandonarsi ai rimorsi successivamente. Ma da tutto si possono trarre esperienze e ammonimenti per il futuro e, forse, l’unico rimorso che potrei avere sarebbe nel caso in cui non fossi riuscito a fare abbastanza tesoro di tutto questo”.

Cosa ammira dei suoi uomini?

“Arrivando in Sicilia da un’esperienza così diversa come quella del Centro America, ho trovato in tutti i miei colleghi una grandissima preparazione professionale che forse non mi aspettavo in questi termini di assoluta eccellenza. Proprio questa capacità ammiro in tutti loro; indipendentemente dal tipo di lavoro che svolgono l’impegno in quello che fanno è sempre massimo e i risultati sono evidenti. Poi ho iniziato ad apprezzare sempre di più le doti umane di ognuno di loro, che mi sembrano il tratto comune di molti siciliani: la disponibilità, la serietà, la coerenza nel portare avanti i propri propositi. Devo dire che per me tutto questo è stato una scoperta e soprattutto un esempio che cerco di onorare ogni giorno mettendo tutti, nei limiti delle mie possibilità, in grado di lavorare al meglio”.

Quale libro sta leggendo ultimamente?

“Da pochissimo ho letto nuovamente, dopo parecchi anni, il libro Uomo di Rispetto di Enzo Russo, autore che ho conosciuto personalmente qui in provincia e che stimo per la cultura, la capacità nello scrivere e l’acume nel descrivere situazioni e personaggi. Devo dire che rileggere questo libro dopo tanti anni e, soprattutto, dopo aver conosciuto i luoghi e le situazioni descritte mi ha fatto parecchio effetto e mi ha aiutato a comprendere meglio tanti aspetti del libro e della storia in esso raccontata. Da pochissimo invece ho iniziato a leggere La isla de la mujer dormida dello scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte che racconta una storia completamente diversa ambientata negli anni ’30 tra guerra civile spagnola, ideali contrapposti e amori su un’isola greca dell’Egeo che dà il nome al libro (Isola della donna addormentata). Molto appassionante per ora come tutti i romanzi dello stesso autore”.

L’ultimo film che ha visto al cinema?

“Ho appena visto “Eden”, diretto da Ron Howard, che ci porta a un 1929 che vede in Europa la fine di molte democrazie, la nascita di dittature, e i venti di guerra. Il film è tratto da una storia non solo vera, ma documentata e in parte filmata, e ci fa capire che per quanto si cerchi di scappare da certe situazioni, ci si porta sempre dentro una carica di violenza, di sopruso, di manipolazione che possono esplodere da un momento all’altro, come accade ai protagonisti di questa storia che si ritrovano in un’isola nelle Galapagos pensando di essersi lasciati gli sbagli delle loro società alle spalle e ritrovandosi, invece, in una situazione ancora peggiore. Forse non è un film pienamente riuscito, che presenta qualche eccesso di melodramma, ma la storia è interessantissima e le prove degli attori veramente eccezionali. Me lo sono visto davvero volentieri e la colonna sonora di Hans Zimmer è bellissima”.

Segue il calcio?

“Si”

Roma o Lazio?

“Laziale da generazione…”

Qual è il suo giudizio sul campionato dei biancocelesti con Baroni in panchina?

“Roma è una piazza difficilissima per qualunque allenatore al primo anno con una squadra fortemente rinnovata: questo dovrebbe quindi essere un periodo di transizione per comprendere le potenzialità del progetto. Baroni e la squadra hanno fatto una grandissima prima parte della stagione che nessuno si aspettava. Ha avuto un calo da dicembre fino a qualche partita fa, eliminazione dall’Europa League compresa, ma mi auguro che si riesca ancora a dare risalto a quanto di buono è stato fatto e magari porre le premesse per il prossimo anno. Nessuno dava credito a questo progetto e, onestamente, sono rimasto molto sorpreso da alcune ottime prestazioni e da alcuni singoli che hanno avuto un’evoluzione incredibile. Speriamo che prima o poi qualche risultato di rilievo arrivi…incrociamo le dita”.

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Ipse Dixit

Don Angelo Ventura: “I giovani devono essere ascoltati e non giudicati”

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Sorpreso dalla richiesta di intervista, ribatte istintivamente: “E’ un pesce d’Aprile?”. Assolutamente no, tutt’altro. Disquisire di vari argomenti con don Angelo Ventura, gelese e fiero di esserlo, personalmente lo ritengo un vero piacere. Non si sottrae ad alcuna domanda “perché – dice – il mestiere del giornalista è fatto di domande, anche scomode, alle quali bisogna rispondere. Con garbo. Per il rispetto di chi legge”. Nato a Gela il 18 luglio del 1980, dopo avere ottenuto il diploma all’istituto professionale, scopre e vive la propria vocazione. Con speranza e coraggio, riconoscendola come un dono d’amore e servizio, avverte la presenza di Dio e intraprende il cammino verso la felicità autentica che lo indirizza al seminario Vescovile di Piazza Armerina. E’ il settembre del 2001.Frequenta la facoltà teologica di Sicilia a Palermo e consegue il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia. Dopo l’esperienza da diacono nel 2008, un anno dopo viene ordinato sacerdote dal Vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, Michele Pennisi. Attualmente guida la parrocchia Maria Santissima di Lourdes in Sant’Anna ad Aidone, nell’Ennese. 

“Dal 2018 vivo la mia esperienza Pastorale presso questa comunità Parrocchiale, prima come Amministratore e poi come Parroco dal 2021. La Parrocchia, prima del mio ingresso, ha avuto parecchie vicissitudini con l’avvicendarsi di diversi sacerdoti in poco tempo, causando nei fedeli frammentarietà e instabilità nelle attività pastorali, una comunità ferita e delusa. In poco tempo si è creata una bella sinergia tra i parrocchiani e il suo parroco. Ho dovuto risistemare e dare nuova dignità sia all’aula liturgica sia ai locali adiacenti, adibiti a aule catechistiche. La sede è una Chiesa Francescana del 1600 che custodisce molte opere di grande prestigio, tra cui un crocifisso ligneo del 1633 di Fra Umile da Petralia e altre opere di notevole prestigio artistico. Era anche il tempio della Città di Aido, considerato che al suo interno sono presenti epitaffi del tempo, che hanno dato lustro sia alla città di Aidone che alla Chiesa, foraggiando i Frati e arricchendola di arredi e pareti che ai locali adiacenti, adibiti ad aule catechistiche. A fianco della chiesa sorgeva il convento dei Frati Riformati e ancora si può ammirare una parte dell’antico chiostro, e un grande giardino, curato dalla Confraternita del Santissimo Crocifisso, dove hanno la loro sede. Al di là delle migliorie strutturali e dell’arricchimento degli arredi liturgici, la mia più grande soddisfazione è vedere una comunità vivace e propositiva, zelante e in continua crescita. Aidone è un piccolo centro abitato, meno di 5000 abitanti, ma tra bambini del Catechismo e gli Scout del Gruppo Agesci, sono un centinaio i ragazzi che frequentano la mia Parrocchia”. 

Dall’anno scorso, ricopri anche l’incarico di Vice Cancelliere del Tribunale Ecclesiastico Diocesano di Piazza Armerina e Notaio dello stesso tribunale. In cosa consiste?

“Come ci ricorda la costituzione ‘Sacrosanctum Concilium’ del Vaticano II, la Chiesa ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili. La dimensione umana e visibile della Chiesa si attua in una struttura organizzativa comprendente le norme che disciplinano le relazioni dei soggetti che a essa appartengono, cioè i battezzati. La struttura organizzativa costituisce un vero e proprio ordinamento giuridico (Codice di Diritto Canonico) dotato di indipendenza e sovranità, che presenta tuttavia caratteristiche del tutto peculiari e diverse rispetto agli ordinamenti statali, in quanto si fonda su presupposti teologici e tende a una finalità spirituale e ultraterrena. Ogni vescovo diocesano è giudice di prima istanza ed è tenuto a costituire un tribunale nell’ambito della sua diocesi. In definitiva i tribunali della Chiesa sono competenti in maniera esclusiva per la conoscenza delle questioni di natura spirituale, come ad esempio stabilire la validità o meno di un sacramento. Il Tribunale Ecclesiastico della nostra diocesi di Piazza Armerina è Tribunale di prima istanza, per le cause di Nullità Matrimoniale e Tribunale di seconda istanza per la diocesi di Agrigento. Il mio ruolo consiste nel custodire l’archivio ufficiale, ho il compito di notaio durante le deposizione delle Parti e dei Testi, mi occupo della stesura dei vari decreti e degli atti che si producono durante l’istruttoria processuale e la loro pubblicazione, li certifico e controfirmo. La mia firma fa fede pubblica”.

Troppi scandali nella chiesa. Pedofilia e abusi anche da parte di sacerdoti…È una ferita aperta 

“Dici bene, è una grande ferita aperta che gronda sangue di tutte quelle vittime innocenti, tradite da chi doveva curarli, sanare le ferite dei cuori spezzati e non tradire la fiducia di chi aveva messo nelle loro mani le loro vite, per incontrare Cristo datore di ogni speranza. Siamo chiamati tutti, ma soprattutto noi preti, a un rinnovato e perenne impegno alla Santità, conformandoci a Cristo Buon pastore. Mi affido al monito di Papa Francesco che avverte: «Il consacrato, scelto da Dio per guidare le anime alla salvezza, si lascia soggiogare dalla propria fragilità umana, o dalla propria malattia, diventando così uno strumento di Satana. Negli abusi noi vediamo la mano del male che non risparmia neanche l’innocenza dei bambini». Il vangelo secondo Marco riporta: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare». La Chiesa si sente chiamata a combattere questo male che tocca il centro della sua missione: annunciare il Vangelo ai piccoli e proteggerli dai lupi voraci. Gli scandali, purtroppo, ci sono sempre stati, ma la Chiesa è di Cristo e noi sappiamo che le porte degli inferi non prevarranno su di essa. Ecco perché nella Chiesa è cresciuta la consapevolezza di dovere non solo cercare di arginare gli abusi gravissimi con misure disciplinari e processi civili e canonici, ma anche affrontare con decisione il fenomeno sia all’interno sia all’esterno della Chiesa. Ci si affida al Giudizio di Dio, per prendere coscienza, affinché ci si converta e si faccia penitenza per il peccato commesso. Ci si affida anche alla giustizia terrena perché sia stabilita la giusta serenità tra le parti. Siamo consapevoli che ogni reato è peccato. Sappiamo che il Signore non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. Questo non significa giustificare il reo né tantomeno “far finta che non sia successo nulla”, ma lavorare su due fronti: uno Spiritale, il Processo Canonico, che ha lo scopo di far riflettere sulla scelta di vita che il ministro ha fatto, la sua maturità affettiva e la sua relazione con il Signore. Dall’altro canto, il Processo Civile, quando il peccato è anche reato, ci si affida alla giustizia dello stato, perché si faccia chiarezza e si possa arrivare alla verità, in nome del popolo Italiano di cui noi facciamo parte. Una vera purificazione delle coscienze”. 

Come leggi gli ultimi report in cui si evince che diversi giovani sacerdoti lasciano il Ministero? Dove cercare le cause di quanto accade? 

“Essere prete è una grazia da vivere sempre con gioia e speranza, a servizio della Chiesa giorno dopo giorno. Un impegno da esercitare, appunto, con speranza, sapendo che la gioia cristiana non è frutto dei risultati sperati, che l’attività, la competenza o le coincidenze possono raccogliere meno di quanto ci si attendeva; non è frutto della popolarità di cui un prete può godere, non è frutto di condizioni di vita favorevoli o garantite che dà valore alla nostra vocazione ma è lo stare con Gesù che ci dà la forza di vivere la missione nonostante tutto. Noi non annunciamo noi stessi ma Cristo morto e risorto. Perciò la letizia nella speranza non sarà cancellata o soffocata, anche quando ci sarà dato di sperimentare risultati stentati, di attraversare l’impopolarità delle scelte e della parola anticonformista, per essere coerenti con la nostra missione. La potenza di Dio si dimostra perfetta nella debolezza umana e il Signore può servirsi di te malgrado la tua debolezza, anzi è determinato a portare a termine i suoi obiettivi attraverso uomini che hanno delle debolezze. Cioè incapaci, non abili per un servizio o uno scopo, carenti, incerti, con delle lacune, aggiungo qualche altro sinonimo: arrendevole, fragile, fiacco, incerto, malandato, precario, stanco, carente…Ebbene il Signore nella nostra debolezza ci dà la forza. La logica di Dio che stride con la logica del mondo che ci mostra tutto il contrario. San Paolo aveva compreso bene che nella debolezza dimora la virtù di Cristo, accettò di buon grado la risposta della sua preghiera. San Paolo può compiacersi; in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecuzioni, in angustie per amor di Cristo. Quando si spegne l’entusiasmo, quando ci si lascia sopraffare delle difficoltà e soprattutto quando non si alimenta lo Spirito nella Preghiera, quando si smarrisce la consapevolezza che il nostro primo compito è stare con Gesù, per poi vivere la missione dell’annuncio gioioso del Vangelo, non ci si trova più nella scelta fatta e si torna indietro o peggio ancora ci si rifugia nei surrogati e si cerca il senso della vita in dei vicoli ciechi. Il sacerdozio è una scelta da vivere contro corrente, oggi più che mai è una scelta radicale di vita. Calano drasticamente le vocazioni e i seminari sono sempre più vuoti. La realtà deve interrogare tutti e non solo gli “addetti ai lavori” principalmente riflettiamo su come viviamo la testimonianza della nostra fede in un mondo che cambia”.

Quando e come hai sentito la chiamata?

“Parto da quello che ha detto un celebre Frate domenicano, padre Sertillanges: “la vocazione è quello che uno è”. Ogni storia vocazionale è una storia a sé, ci può essere un’esperienza simile ma mai uguale. Così è ogni storia vocazionale, unica e irripetibile. Mi vengono in mente le parole del Profeta Geremia parlando della Parola che Dio gli rivolge quando lo sceglie per una missione, quella di diventare portatore di una Parola non sua: “Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto; e prima che tu uscissi dal suo grembo, io ti ho consacrato e ti ho costituito profeta delle nazioni”. Sono cresciuto in una famiglia molto religiosa e dai sani principi. Ho imparato a pregare dai miei genitori e dai miei nonni materni. Dalla mia famiglia sono nate molte vocazioni sia alla vita consacrata che al sacerdozio, posso dire, con una battuta che sono “figlio d’arte”. Credo che da sempre abbia avvertito la chiamata al Sacerdozio. Da piccolo facevo il ministrante in Chiesa Madre, ricordo che non volevano farmelo fare perché non avevo fatto la prima Comunione e piangevo a mio nonno che mi “raccomandasse” al parroco per poterlo fare. Finalmente mi fu accordato, forse per l’insistenza e la costanza nel chiedere. Ero felicissimo e orgoglioso di essere ministrante. Coltivavo già in me il desiderio di diventare prete, servivo la Messa e amavo indossare quella tunichetta nera con la cotta bianca, mi preparavo molto tempo prima della Messa per scendere tra i banchi della chiesa e farmi salutare dalla gente. La mia difficoltà da bambino, che ostacolava il mio cammino verso il sacerdozio, era la paura di eseguire l’omelia. Crescevo tra scuola, amici e Parrocchia. Sotto la guida sapiente del mio Parroco, il compianto monsignor Grazio Alabiso, ho imparato a vivere la fede nonostante i nostri limiti umani e la nostra incredulità”.

Poi, cosa è successo?

“Arriva il tempo dell’adolescenza e dei primi amori. Conosco una ragazza, che frequentava il mio stesso gruppo giovanile della Parrocchia, e mi innamoro di lei. Ci sono voluti ben nove mesi di corteggiamento (storie di altri tempi), e finalmente, dopo mille dichiarazioni mi dice di “si”. Ero euforico e molto innamorato. Continuavo a fare il chierichetto, ma poi decisi di smettere anche perché ormai mi sentivo grande. Credevo che il Signore mi chiamasse a servirlo non più sulla via del sacerdozio ma nella vita coniugale, anche se, a dire il vero, non ho mai avuto l’idea di sposarmi, ma da un adolescente innamorato la razionalità a volte conta poco. Il fidanzamento dura circa due anni e poi, per una serie di eventi e circostanze ci siamo lasciati. Ricordo che è stato un trauma, ma allo stesso tempo mi ha aiutato a far discernimento. Ricordo che la domanda che sovente facevo a Dio era questa: “ma se dovevi togliermela perché me l’hai fatta incontrare?”. È stato un periodo difficile per un adolescente. Cercavo me stesso, non sapevo quale fosse più la mia strada. Cominciai ad avere altre storie con altre ragazze, ma in nessuna di loro trovavo la possibilità di essere felice, sentivo che qualcosa mi mancava e non riuscivo a capire cosa cercassi realmente. Decisi di trovare un senso alla mia vita stando da solo e non più in coppia. Frequentavo sempre la Parrocchia, ero un tipo da comitiva, allegro, socievole ed estroverso e questo mio modo di essere mi portava facilmente a fare nuove amicizie. Mi diplomo come Tecnico di Laboratorio Chimico Biologico presso l’istituto professionale di Gela. Aspettavo la chiamata militare che però tardava ad arrivare avendo rinviato la partenza a causa degli studi. Trovai lavoro in una famiglia, una sorta di badante a un bimbo autistico, paralitico e cieco. Lo accompagnavo a scuola e poi a svolgere fisioterapia presso l’Aias a Manfria. Durante le sedute fisioterapiche del ragazzo, mi trovavo solo e in silenzio seduto su una panca nel giardino della struttura, a pregare Dio e a parlare con me stesso, chiedevo un segno, che mi guidasse a una scelta giusta. Mille domande ma pochissime risposte. Rimanendo con questo bambino, mi venivano in mente le parole del Vangelo secondo Matteo: “qualsiasi cosa avete fatto a uno di questi fratelli più piccoli lo avete fatto a me”, vedevo questo lavoro più come un servizio che come fonte di sostentamento. Questo è stato il mio cammino spirituale e il mio campo vocazionale. Faccio esperienza nei Frati Domenicani prima e dai Frati Cappuccini dopo, aiutato da un frate che si occupava dei giovani e del discernimento vocazionale. Ma sentivo che non era la mia strada la vita nel convento, anche se affascinato dalla vita e dall’esempio di San Francesco d’Assisi. Partecipo, come volontario, al Grande Giubileo del 2000. Le parole del Santo Padre, San Giovanni Paolo II, quel suo invito a non avere paura e ad aprire anzi a spalancare le porte a Cristo mi davano coraggio. Mi rivolgo al mio parroco e lui mi guida al discernimento. Padre sapiente e di grande saggezza vede in me un cambiamento, dato che sin da piccolo mi ha seguito in Parrocchia e mi ha visto crescere in tutti i sensi. Mi invita a partecipare a un campo vocazionale, organizzato dal nostro Seminario Vescovile di Piazza Armerina. Vado in agosto e a settembre dello stesso anno, era il 2001, entro in Seminario. Dopo poco tempo, dal mio ingresso, ricevo una lettera da parte dell’ordinariato Militare in cui mi veniva comunicato il mio congedo, per sovrannumero. In quell’occasione, ancora una volta, ho visto la mano del Signore che mi guidava, quasi a conferma della giusta scelta fatta”.   

Deduco che i tuoi genitori siano stati contenti della scelta operata

“La mia famiglia è molto credente. I miei genitori frequentavano, da qualche anno, il Cammino Neocatecumenale nella Parrocchia Santa Maria di Betlemme, e quindi molto zelanti e partecipi alla vita parrocchiale. Il mio ingresso in Seminario fu improvviso, perché mai avevo esternato questa mia volontà di farmi prete, anche se, ne sono certo, che una mamma conosce il cuore dei figli e percepisce anche i sussurri più nascosti, e dunque se lo aspettava. Mio padre era un tipo molto taciturno, non disse nulla, non mi manifestò né una sua disapprovazione né un suo acconsentire, ma il suo era un tacito consenso. Vedevo nei suoi occhi la gioia di questa mia scelta, che rifletteva la felicità del cuore. Mio padre morì d’infarto il 19 marzo del 2005 (era il sabato che anticipava la Domenica delle Palme), qualche giorno prima della mia ammissione agli Ordini Sacri del Diaconato e del Presbiterato, che ho ricevuto la mattina del Giovedì Santo in Cattedrale durante la Messa Crismale. Un momento di prova forte. Decisi di andare avanti, perché proprio la certezza della Vita Eterna, che ero chiamato a testimoniare, mi ha dato la forza di dire il mio primo “eccomi” al Signore che mi aveva scelto e chiamato. Se mi fossi tirato indietro sarei venuto meno a quella promessa fattami dal Signore, che ora mi consacrava nel suo Amore”.        

Com’era la tua vita prima di indossare l’abito talare?

“Sono molto soddisfatto della mia infanzia e adolescenza. Non ho nulla che mi faccia dire “ah sé potessi tornare indietro…” Ero un ragazzo semplice, mi piaceva scherzare e nessuno mai poteva immaginare del mio ingresso in seminario. Non sono mai stato bigotto né tantomeno ingabbiato o ingessato in degli schemi predefiniti”.

Sognavi di diventare prete?

“Quando ero bambino sognavo di fare il prete, ma esclusivamente in Chiesa Madre la mia parrocchia di origine, dove ho vissuto tutte le più belle esperienze, e dove è germinata la mia vita vocazionale. Su questo posso dire che il Signore ha assecondato il mio innocente desiderio di bambino, perché per cinque anni ho lavorato in Chiesa Madre, come Vicario Parrocchiale, accanto al mio parroco che mi ha visto crescere e diventare Prete”.    

Hai incontrato qualche difficoltà nel tuo cammino sacerdotale?

“Spesso, guardando a noi Preti, la gente si sofferma su ciò a cui abbiamo rinunciato, senza considerare ciò che invece abbiamo abbracciato. Ogni rinuncia cristiana non è nient’altro che l’acquisizione di qualcosa di molto più bello e non esiste alcuna rinuncia che non sia in vista di qualcosa di molto più costruttivo, molto più ricco. Ogni scelta di vita ha le sue difficoltà. Il diventare Preti non significa essere arrivati a una meta ma è l’arrivo per una nuova partenza, che giorno dopo giorno ci aiuta a vedere chi siamo e cosa desideriamo, si vivono gioie nuove ma anche dolori nuovi. Di difficoltà ne ho avute tante…”

Quali?

“Appena ordinato Prete fui mandato a Niscemi, presso il Santuario della Madonna del Bosco, Patrona della città. Non è stato semplice il primo periodo, abituato in Seminario ad avere tutto pronto e a essere servito, mi sono trovato da solo in canonica a provvedere in tutto al mio sostentamento, dal cucinare a lavare. Ho fatto molte esperienze belle, una tra tutte aver incontrato il Gruppo Scout Agesci. Prima di innamorarmi del metodo Scout sono rimasto conquistato dalla dedizione dei giovani. Capii che potendo spendere il loro tempo per dedicarsi alla loro vita privata, rientravano il venerdì dall’università. Il giorno dopo ci si incontrava per la riunione organizzativa con i ragazzi delle varie “Branche” e poi la domenica sera rientravano a Catania o nelle varie sedi universitarie, per partecipare alle lezioni. Il loro esempio, più che delle parole, mi ha fatto sposare in pieno il metodo Scout. Ho imparato da loro il valore del servizio e del donarsi al prossimo. Ho ricoperto poi la carica di Assistente Ecclesiastico della zona Erea nel 2010. Ho imparato che con l’esempio puoi educare al rispetto di sé stessi, se sei sempre gentile con te e con gli altri, infatti, qualcuno ti imiterà e imparerà ad apprezzare le cose buone. Nella mia vita sacerdotale, sempre ho sperimentato la fedeltà di Dio che non mi ha fatto mancare mai nulla, soprattutto nei momenti più difficili e di solitudine. Faccio mie le parole dell’orante del salmo 33 “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino”.

Parlavamo di giovani. Di cosa hanno bisogno i ragazzi gelesi?

“Da quasi dieci anni non vivo più le dinamiche giovanili della mia città di origine, dato che tutto il resto della settimana vivo tra la mia parrocchia ad Aidone e la Curia Vescovile a Piazza Armerina. Vivo la città solo una volta a settimana, il lunedì, perché mi vede impegnato, con il distaccamento dell’ufficio della curia Vescovile, per la vidimazione dei documenti attinenti all’istruttoria matrimoniale. Questo non vivere pienamente le dinamiche giovanili della città, mi consente di avere un occhio più critico e distaccato sulle cose e sugli eventi, guardandole non più dall’interno, come quando ero Vicario Parrocchiale della Chiesa Madre, ma dall’esterno. Come tutti i giovani, e non solo loro, l’esigenza più grande è quella di essere ascoltati e non giudicati. Nessuno sa più ascoltare, siamo tutti presi dalla frenesia di un efficientismo e da un individualismo, un apparire che speso soffoca i bisogni degli altri, e che non lascia spazio alle relazioni interpersonali. Si hanno migliaia di “amici” virtuali, deviati da un monitor freddo che crea distanze, ci si rifugia nel virtuale e si ha difficoltà ad avere relazioni reali. Sono rimasto alquanto perplesso nel vedere un gruppo di adolescenti, seduti al tavolo di una pizzeria, ciascuno con il proprio cellulare in mano, intenti a chattare con altri e non accorgersi di chi gli stava accanto o difronte. Insieme ma soli. C’è il reale pericolo di uniformarsi alle mode del momento, appiattendo la creatività di ciascuno. Il compito di tutti noi è quello di saper decifrare queste fragilità, per orientare, per guidare e sostenere queste nuove generazioni. In un tempo non molto lontano, il pericolo dei piccoli centri abitati, soprattutto i paesi dell’entroterra come Aidone, era quello di vivere un certo isolamento e si poteva notava la differenza di mentalità e costumi tra i diversi ragazzi. Penso che oggi non sia più cosi, ma che i social abbiano accorciato le distanze, creando uniformità. Dobbiamo saperli ascoltare. I giovani non vanno più in Chiesa è questo è un dato di fatto, nonostante tutte le nostre strategie pastorali, risultiamo ai loro occhi anacronistici e stantii. Non è più sentita come necessaria la parte spirituale nel mondo globalizzato. Ma i giovani cercano ancora Dio? Questa è la domanda di fondo. Lo cercano in un modo diverso rispetto alle generazioni precedenti e con modalità diverse rispetto a quello a cui siamo abituati a pensare. Cercano Dio nella contemporaneità, attraverso il senso del loro io, anche esasperato, e con un loro approccio alla realtà che chiede a noi adulti di fare i conti con un credo che cambia”. 

Troppi giovani si abbandonano all’uso di droghe. Cosa senti di dire?

“Tanti giovani non riescono più a trovare un senso alla loro vita, percepiscono un vuoto esistenziale, hanno paura ad affrontare le nuove sfide che il cammino della vita gli presenta, con tutti i suoi ostacoli e le sue incognite. Cercano sé stessi in realtà illusorie per sfuggire alla responsabilità o per mostrarsi grandi e per non sentirsi emarginati. Ragazzi fragili vittime di sé stessi e di gente senza scrupoli. La dipendenza alle varie droghe è una grande piaga che assilla il mondo giovanile e non. L’impegno contro la droga comincia nelle scuole e nelle famiglie. Ma la scuola e le famiglie non possono essere lasciate sole in questo compito tanto faticoso, cioè quello di aiutare i ragazzi a trovare un senso, uno scopo nella loro vita. Insieme a queste fondamentali agenzie educative, si affianca anche la parrocchia, che si innesta nel contesto sociale di un determinato territorio cittadino. All’interno delle varie sfide, risulta notevole la posizione di quella struttura che fin dall’inizio è sempre stata ambito di riferimento essenziale per la vita cristiana della gente, e ancora oggi ha una sua notevole validità. La parrocchia, per sua vocazione, è l’ambito di riferimento, di prima socializzazione religiosa, luogo di identificazione, di nuove proposte e di missionarietà, di profezia e dunque strumento capace di dare senso alla vita; noi annunciamo e soprattutto crediamo che il senso della vita è l’incontro con Gesù e questo il compito della Chiesa. Cosa posso dire ai ragazzi? Che Gesù vi ama e che non siete soli. Abbiate il coraggio e la forza per farvi aiutare, leggete il Vangelo, questa buona notizia, per no sentirvi soli. Noi ci siamo”.

Quale dovrebbe essere il ruolo sacerdotale sulle piattaforme digitale?

“Il sacerdote è essenzialmente un uomo al servizio alla e della Parola, e all’annuncio di Cristo, Parola di Dio fatta carne che non deve mai venire meno; tuttavia deve cercare sempre nuove forme per comunicare e testimoniare questa lieta novella. Abbiamo la possibilità di essere presenti nel mondo digitale, nella costante fedeltà al messaggio evangelico, per esercitare il proprio ruolo di animatori di comunità che si esprimono ormai, sempre più spesso, attraverso le tante “voci” scaturite dal mondo digitale, annunciare il Vangelo avvalendosi, accanto agli strumenti tradizionali, dell’apporto di quella nuova generazione social, Facebook, YouTube, Instagram e non per ultimo adesso TikTok che rappresentano inedite occasioni di dialogo e utili mezzi anche per l’evangelizzazione e la catechesi. Il pericolo potrebbe essere quello di deviare dalla propria missione primaria cioè quella di vivere e testimoniare il Vangelo di Cristo. Potrebbe innescarsi la presunzione di un eccesivo protagonismo che metta in risalto più la persona che l’annuncio del Vangelo che deve far passare attraverso questi nuovi mezzi di comunicazione di massa”.  

Cosa ti piace di più della tua vita da sacerdote?

“Il mio stare insieme alla gente”.

E di meno? 

“Io amo la mia vita sacerdotale. Sai che non ho mai badato a questa domanda?”

Andando indietro nel tempo, c’è qualcosa che rimpiangi di più della tua vita laica?

“Ho avuto un’adolescenza dove ho vissuto con serenità la mia vita. Non c’è nessun rimpianto che mi turba e se potessi rinascere nuovamente in questo mondo, farei tutto quello che ho fatto, compreso la scelta di farmi prete”. 

Cosa significa per te essere sacerdote?

“È tutta la mia vita”. 

Il tuo sogno di felicità?

“Io già sono felice. Il mio sogno, che poi è realtà, è seguire Gesù che mi ha amato per primo e in lui amare e servire i fratelli che incrocio sul mio cammino, per farmi assieme a loro compagno di viaggio”.

Un aspetto positivo del tuo carattere?

“Mi reputo un uomo altruista, gentile, generoso… Non è un osannare me stesso perché potrei apparire montato di testa. Preferisco che siano le persone che incontro a sentire in me l’accoglienza e la disponibilità. C’è tanta gente che mi stima e mi vuole bene”. 

Uno negativo?

“Spesso sono molto impulsivo”. 

Cosa apprezzi di più nelle persone?

“La sincerità”. 

Tra poco celebreremo la Pasqua, cosa senti di dire ai nostri lettori?

“Auguri a ciascuno di noi, auguri alla nostra amata città di Gela, ai miei concittadini e in particolare ai crocifissi della nostra terra, a chi è malato, a chi non spera più, a chi vive l’angoscia del domani, alle donne violate nella loro dignità, ai bambini che non si sentono amati. Che il Signore Risorto conceda a me e a tutti voi di celebrare questa Pasqua con fede e gioia, portando nella nostra vita il segno evangelico della serenità e della pace, di cui c’è tanto bisogno”.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
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