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“Lo Stato c’è e non mollerà mai contro la mafia!”

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“Violenza, ignoranza, sopraffazione, angheria”: quattro sostantivi per definire il termine mafia. In queste quattro parole, analizzandone nel dettaglio l’etimologia, c’è tutto. E scavando nel sottobosco letterale si trova dell’altro. Ne è fermamente convinto, dall’alto della sua esperienza acquisita sul campo,  il colonnello dei Carabinieri Mario Mettifogo, capocentro Dia (Direzione Investigativa Antimafia) di Genova che ha competenza su tutta la regione Liguria. Lui, varesotto di nascita e siciliano d’adozione, la mafia l’ha conosciuta. Nella terra di Pirandello e Bufalino, ha prestato servizio a Palermo, Gela ed Agrigento. Ha comandato anche il Ros di Genova, Roma e Milano e ha diretto il Nucleo Operativo Carabinieri del Comando Provinciale di Bologna e il Battaglione Carabinieri “Piemonte” a Moncalieri.
Dicevamo della mafia. Come si può contrastarla e dove si deve intervenire?  “Contrastarla significa a volte contrapporsi a blocchi interi della società che l’appoggiano per paura o per convenienza. Si può intervenire sul ripristino della legalità complessiva o più direttamente sui giovani e sulle scuole. Più ragazzi terminano il ciclo di studi, minore è la possibilità che siano tentati dalle scorciatoie che la mafia lascia intravedere”. La strategia mafiosa è cambiata, adesso è più silente rispetto agli anni di piombo. Fa più paura? “Non credo faccia più paura. Sta cercando di mutare per sopravvivere”. Lo scorso 23 maggio, abbiamo ricordato il ventinovesimo anniversario della strage di Capaci in cui morirono il giudice Falcone, la moglie e gli agenti di scorta. Cosa ha lasciato in lei quel tragico evento? “Ricordo bene quel momento nel tardo pomeriggio di un sabato di fine maggio. Le notizie inizialmente generiche divennero via via più precise fino a quando nella prima serata si apprese nella sua interezza la tragica notizia. Mi trovavo con un collega presso un esercizio pubblico di Gela, intorno alle 20, ed all’annuncio dell’attentato ricordo negli sguardi delle persone, alcuni interrogativi ed in altre, la rassegnazione…”. E qual è stato il suo pensiero dopo avere appreso quanto accaduto? “Pensai fosse l’inizio della fine della mafia, perché la strage consumata era talmente clamorosa che avrebbe comunque prodotto una reazione dello Stato senza precedenti”. Per alcuni fu una strage annunciata. D’accordo? “Non sono in grado di dirlo…”. Dopo 25 anni di detenzione, il boss Giovanni Brusca è uscito dal carcere. Non è un’offesa alle vittime?                                                    “Comprendo dal punto di vista umano il dolore e il legittimo disappunto dei familiari delle vittime, ma nel caso di specie è stata applicata la legge vigente. A Gela, dal 1989 al 1993, ci furono un centinaio di omicidi e numerosi tentativi di omicidio. Lei in quegli anni comandava il Nucleo Operativo e la Compagnia dei Carabinieri di piazza Roma. Esageriamo se parliamo di una vera e propria guerra tra clan? “Era una guerra in piena regola che coinvolgendo intere famiglie di sangue, in alcuni momenti assumeva le caratteristiche della faida con il coinvolgimento anche di pregiudicati dei comuni limitrofi come Niscemi, Mazzarino, Riesi, Sommatino, Licata ed altri ancora”.
Quando lei fu trasferito a Gela da Palermo (dove comandava il plotone presso il 12’ Battaglione dei Carabinieri), non ebbe neanche il tempo di varcare la soglia della caserma che lo attendeva, che dovette immediatamente portarsi sul luogo dell’ennesimo omicidio. Quasi un battesimo di fuoco… “In effetti nella stessa mattinata in cui nel mese di maggio 1989 presi servizio come comandante del Norm, si verificò un omicidio in via Generale Cascino. La vittima era un rappresentante di spicco di quel gruppo che qualche tempo fu riconosciuto come “Stidda”.
A Gela in quegli anni si sparava ovunque, rivoli di sangue in ogni dove. La gente era impaurita. La città fu definita l’avamposto dell’inferno. “Giorgio Bocca nel 1992 scrisse “L’Inferno”, un libro sui mali del Sud Italia. Il capitolo che riguardava Gela lo intitolò “Il fondo dell’inferno”. Al di là delle invenzioni letterarie, in quel periodo Gela viveva una situazione drammatica, in cui oltre alle ferite  della criminalità organizzata si aggiungevano le inefficienze storiche degli enti locali oltre ad un diffuso abusivismo in tutti i settori”.
Il 27 novembre del 1990, in quattro agguati quasi simultanei, ci furono 8 morti e 11 feriti in quella che balzò agli onori della cronaca come la “strage della sala giochi”. Cosa ricorda di quel giorno?
“Arrivai nell’immediatezza presso la sala giochi dove c’erano state le prime vittime e mentre prendevamo contezza dell’accaduto, giungevano via radio i resoconti degli agguati tesi in altre vie della città. In tutti noi giunse la consapevolezza che fosse oramai indispensabile cambiare immediatamente le strategie di contrasto al crimine”.  Alcune ore dopo la strage, in un blitz nel quartiere Settefarine, individuaste il covo utilizzato dai sicari. Dentro ad una botola, c’era Ivano Carmelo Rapisarda, detto “Ivano pistola”, che adesso sta scontando tre ergastoli per una trentina di omicidi.  Quando fu arrestato, aveva 19 anni. Cosa vi disse quando capì di essere stato scoperto?
“Non disse nulla. Fu il primo ad essere catturato. Nelle stanze del covo trovammo un tesoro di indizi circa l’identità degli assassini, biglietti aerei, documenti d’identità, ricevute di noleggio auto, carte di credito ed altro ancora. Da quel luogo, gli autori dei fatti di sangue si erano mossi per compiere gli agguati ed in quel posto si erano rintanati al termine, prima di scappare durante la notte per sottrarsi alle ricerche. Rapisarda era rimasto indietro e quindi restò intrappolato nell’edificio che avevamo circondato. Fu il collega Filippo Fruttini a trovarlo e a tirarlo fuori da un’intercapedine del pavimento dove si era celato”. L’uccisione del commerciante antiracket Gaetano Giordano (10 novembre 1992) significò per tutti la sconfitta dello Stato. Qual è il suo pensiero? “La vicenda di Giordano, oltre che molto dolorosa, è anche estremamente delicata e quindi non si presta ad un commento di poche righe. Per quanto mi riguarda, il suo omicidio non fu una sconfitta dello Stato ma della gente perbene”. Se le faccio il nome di Franca Evangelista, vedova Giordano, cosa mi dice? “Una signora che ha dovuto lottare per tutta la sua vita”. Chi è per lei, Nino Miceli? “Non basterebbe un libro per descrivere Nino Miceli. Il suo coraggio ed il suo contributo alla giustizia, sono stati il riscatto per Gela e per i suoi cittadini, anche se all’epoca erano più le voci di critica che di sostegno, ma era comprensibile fosse così. Anche le valanghe all’inizio sono solo piccole pietre. Nessuno si aspettava che l’azione investigativa potesse raggiungere il cuore delle organizzazioni mafiose, come poi è accaduto. C’era un’atmosfera di rassegnazione complessiva e dolente che occorreva risvegliare. La testimonianza di Miceli ha contribuito a smuovere le coscienze”.
La conferma che la maggior parte dei commercianti pagasse il pizzo, l’aveste quando rinveniste il libro mastro durante il blitz nel quartiere Bronx, attuale Scavone, in cui c’erano i loro nomi e le cifre da elargire mensilmente ai clan? “Si, fu quello il primo passo. Identificare i commercianti e convincerli a collaborare. Occorre contestualizzare: siamo nel secondo semestre del 1992, pochi giorni dopo la strage di Capaci, in una cittadina bersagliata dai fatti di sangue della criminalità: in questa situazione non era facile convincere un cittadino a collaborare con la giustizia. Alcuni di loro l’hanno fatto; altri si sono arresi alla mafia. Nonostante quest’ultimi, però i risultati sono stati comunque estremamente soddisfacenti. L’operazione “Bronx 2″ costituisce una pietra miliare nella lotta alla mafia”. Settimane addietro, su questa testata, un commerciante di Gela,  costretto a fuggire dalla citta natia e trasferitosi al Nord Italia, ha dichiarato di avere pagato per anni il pizzo. Lo ha fatto perché lo facevano tutti; non ha denunciato per paura e perché non si fidava dello Stato. Che chiave di lettura dà a quanto sostenuto dall’interlocutore? “Ho letto anch’io l’intervista. Capisco e mi immedesimo nelle paure di chi deve denunciare, ma solo facendolo possiamo liberarci delle pastoie della criminalità organizzata. Compito dello Stato é quello di stare vicino alle vittime, difendendole con ogni sforzo possibile. Non mi sento di giudicare. Personalmente ho cercato di aiutare chi era in difficoltà”. Lei ha seguito molti fatti di cronaca a Gela, quale le è rimasto impresso in mente e perché?  “Gli episodi sono innumerevoli ma tra tutti spicca la vicenda relativa all’omicidio di Giordano”.    Se tornasse indietro alla sua esperienza a Gela, cosa rifarebbe? “Dopo tanti anni, diventa difficile dirlo. Mi affiorano decine e decine di ricordi di quegli anni.  Credo che sia stata un’esperienza ineguagliabile in un periodo della storia italiana che mi auguro non torni mai più”. Cosa avrebbe voluto fare?                                  “Avrei voluto fornire più risposte alle esigenze della cittadinanza. Mi sono impegnato allo strenuo ma non sempre si riescono a soddisfare compiutamente i bisogni di tutti. Voglio peraltro sottolineare come in quel periodo va Gela ci fossero in servizio dei carabinieri assolutamente determinati a combattere il crimine mafioso ed alcuni di loro, in particolare, avessero delle doti professionali ed umane di prim’ordine”.  Lei è cittadino onorario di Gela. Si aspettava questo importante riconoscimento? “No non me l’aspettavo, è stata un’iniziativa che mi ha piacevolmente sorpreso. Lo ritengo un grande onore. Anche se attualmente abito a Genova, faccio in modo, tutti gli anni, di trascorrere un po’ di tempo per le vie della vostra città”. Cosa le manca di Gela? “Il contatto con le persone, le passeggiate sul corso e le bellezze archeologiche”. Se dovesse mandare una cartolina ai suoi cari, cosa vorrebbe che venisse fotografato? “Gela vista dal mare a bordo di un’imbarcazione”.

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