Il 23 gennaio del 1944, esattamente 78 anni fa, all’inizio del penultimo anno di guerra nel secondo conflitto mondiale, moriva ad Oslo Edvard Munch. L’artista norvegese è stato un grande testimone del suo tempo, la sua pittura ha esplorato l’essenza delle profondità dell’anima interrogando i pensieri e gli stati d’animo più intensi e oscuri dell’essere umano, in un mondo che cambiava velocemente al ritmo di innovazioni scientifiche e orrori mai visti prima, come appunto quelli delle guerre.
Consegnò all’umanità una delle opere più famose e iconiche di tutti i tempi, “L’urlo”, realizzata in più versioni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Un dipinto che esprime quel senso di sofferenza, paura, incomunicabilità tipico dell’epoca del Fin de siècle, sulla scia delle scoperte freudiane sull’inconscio e le sue interminabili voragini così difficili da esplorare. Un’opera a cui non è difficile associare il senso di spaesamento, rabbia, dolore che proviamo tutti in questo tempo di pandemia, tra privazioni e sacrifici, illusioni e incertezze.
L’arte racconta la storia e ne offre una chiave di lettura autentica, resa tale dalla sensibilità dell’artista. Possiamo solo augurarci che la triste esperienza che stiamo attraversando possa donarci, comunque e nonostante, la capacità di riscoprire la bellezza e la purezza intorno a noi, magari partendo proprio dall’arte, per riaccendere senza retorica le luci della speranza sul nostro presente.
(Nella foto, Edvard Munch, “L’urlo”, 1893, National Gallery, Oslo)