Trentacinque anni fa, la strage di Gela
La Stidda uccise 8 persone. Due le vittime innocenti e undici i feriti. La città sprofondò nell'inferno
La memoria è l’antidoto più efficace contro ogni tentativo di cancellare ciò che accadde. Sono passati esattamente 35 anni da quel 27 novembre del 1990, giorno in cui il commando mafioso della "Stidda", con una violenza pianificata e feroce spezzò la vita di 8 persone, ferendone altre undici, in quella che fu ribattezzata la "strage di Gela". Sotto i colpi del clan dei pastori, al cui vertice c'erano Salvatore Iocolano, Gaetano Iannì ed Aurelio Cavallo, caddero affiliati al clan contrapposto, quello di Cosa Nostra, retto da Giuseppe Piddu Madonia. Quattro agguati in altrettanti punti differenti della città.
La prima azione di fuoco si registrò in corso Vittorio Emanuele, a pochi passi da piazza Salandra.
Ore 19.00: quattro sicari, in sella a due moto Enduro, entrarono nella sala giochi Las Vegas, strapiena di ragazzi. Uno dei killer, armato di fucile, sbarrò la porta del locale, mentre gli altri salirono sui tavoli da biliardo cominciando a fare fuoco, impugnando le pistole. Il bilancio fu pesantissimo: tre morti e sei feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni. Emanuele Trainito, 24 anni, finì con la schiena su un flipper. Il secondo ad essere ucciso fu Salvatore Di Dio, di soli 18 anni. Il terzo, il diciassettenne Giuseppe Areddia, tentò invano di fuggire, ma venne colpito alle spalle. Sul posto giunsero nell'immediatezza dei fatti, le forze dell'ordine e varie ambulanze e mentre gli inquirenti prendevano contezza dell’accaduto, via radio giungeva un'altra richiesta di intervento. Colpi di arma da fuoco erano stati sentiti in via Tevere, angolo via Venezia.
Ore 19.07: il commando aveva appena ucciso Giovanni Domicoli, 32 anni, e i cognati Nicola Scerra, 36 anni e Serafino Incardona di 33. I due congiunti, incensurati, erano assolutamente privi di qualsiasi legame con la criminalità. Il fratello di Giovanni Domicoli, Aurelio, pur raggiunto da due proiettili, riuscì a salvarsi nascondendosi dietro il bancone di ferro della rivendita di ortofrutta che si trovava in zona. In quel tragico avvenimento, fu accertato da polizia e carabinieri, furono sparati 50 colpi e oltre ai tre morti, si contarono anche cinque feriti.
Ore 19.15. In via V25, a poca distanza dal cimitero monumentale, viene ammazzato Luigi Blanco, 35 anni, giostraio, incensurato, cognato di Nunzio Trubia, legato alla consorteria di Cosa Nostra
Ore 19.18. In via Venezia, a 300 metri da via Tevere, dove ancora le forze dell'ordine stavano presidiando il luogo della precedente mattanza, un killer spara ed uccide Francesco Rinzivillo, 45 anni. Elemento di spicco del clan Madonia, la vittima si trovava dinnanzi alla macelleria in cui lavorava. Diciotto minuti di terrore che fecero piombare la città nell'abisso o - come scrisse Giorgio Bocca - nel fondo dell'inferno. Il quotidiano francese Le Monde, il giorno dopo, definì Gela "Mafiaville". Una carneficina che per poco non sfoció anche nell'uccisione di un rappresentante dello Stato. Si trattava di un carabiniere che, verso le 22, fu ferito da diversi colpi di pistola, sparati dai componenti di una Fiat Uno che, assieme ad una moto di grossa cilindrata, aveva forzato un posto di blocco istituito sulla statale 115. Gli uomini riuscirono a far perdere le loro tracce. La moto venne ritrovata poco dopo abbandonata. Secondo gli investigatori a bordo dei veicoli si trovavano i killer che poco prima avevano commesso le stragi. Informato di quanto accaduto a Gela, l'allora Ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, dispose subito l’invio dell'Alto commissario antimafia, Domenico Sica, il quale lanciò un appello alla popolazione gelese a collaborare per individuare i colpevoli. In quella circostanza venne anche sancita l'istituzione del Tribunale di Gela, che fu inaugurato in viale Mediterraneo nel gennaio 1991 dall'allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che portò in omaggio alla città il progetto di un palasport (a lui poi intitolato e attualmente fuori uso) e rivolse un toccante appello ai giovani magistrati che prendevano servizio.
Qualche giorno dopo la strage, i carabinieri individuarono ed arrestarono nel corso di imponenti perquisizioni il diciottenne Carmelo Ivano Rapisarda (inteso Ivano pistola), indicato come uno dei responsabili del massacro da alcuni testimoni oculari.
"Fu il primo ad essere catturato - ricorda l'ex comandante dei carabinieri, Mario Mettifogo -. Nelle stanze del covo di Settefarine, trovammo un tesoro di indizi circa l’identità degli assassini, biglietti aerei, documenti d’identità, ricevute di noleggio auto, carte di credito ed altro ancora. Da quel luogo, gli autori dei fatti di sangue si erano mossi per compiere gli agguati ed in quel posto si erano rintanati al termine, prima di scappare durante la notte per sottrarsi alle ricerche. Rapisarda era rimasto indietro e quindi restò intrappolato nell’edificio che avevamo circondato. Fu il collega Filippo Fruttini a trovarlo e a tirarlo fuori da un’intercapedine del pavimento dove si era celato”
Nel periodo successivo, vennero arrestati anche altri pregiudicati di Gela e Vittoria accusati di essere i killer: Carmelo Dominante, i fratelli Claudio e Bruno Carbonaro, Francesco Di Dio, Salvatore Casano ed Emanuele Antonuccio. Nel 1992 la prima sezione della Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale, annullò l'ordine d'arresto per i fratelli Carbonaro. Intanto iniziarono a collaborare con la giustizia Gaetano e Marco Iannì, padre e figlio, ex capi della Stidda, i quali si autoaccusarono e rivelarono i nomi degli altri responsabili della strage pianificata da una vasta coalizione mafiosa, composta da membri delle principali famiglie stiddare della città, Iocolano, Iannì e Cavallo, coadiuvati dai Russo di Niscemi, i Carbonaro di Vittoria e i Sanfilippo di Mazzarino. Il loro obiettivo era quello di imprimere un’evidente prova della forza raggiunta a livello provinciale dagli ex pastori. Per questi motivi, vennero condannati all'ergastolo Carmelo Ivano Rapisarda, Francesco Di Dio e Emanuele Antonuccio. Con oggi - come scrivevamo - sono passati trentacinque anni. E a distanza di 35 anni, possiamo ribadire con forza che la memoria resiste alla violenza mafiosa e possiamo riaffermare che la mafia, nonostante i colpi inferti, non è riuscita — e non riuscirà — a piegare la coscienza civile dei gelesi perbene. Mai!
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