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Ipse Dixit

“Alcuni gelesi sono poco propensi al rispetto delle leggi. Bisogna avere fiducia nella Polizia”

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Buterese di nascita ma gelese a tutti gli effetti, dall’agosto scorso dirige il Compartimento della Polizia Stradale della Sicilia Occidentale. Un ruolo di prim’ordine per il Questore Gaetano Cravana, in un vasto territorio in cui bisogna garantire, tra l’altro, la scorta per la sicurezza della circolazione e la tutela e il controllo sull’uso della strada. A tal proposito, un compito particolarmente importante dal punto di vista della prevenzione è quello “dell’educazione stradale” che viene fatta con il costante incontro con i giovani, presso le scuole di ogni ordine e grado. Gli incontri sono finalizzati, mediante la visione di immagini appropriate, a mettere in rilievo l’importanza del rispetto delle regole previste dal Codice, specie quelle che stabiliscono limiti di velocità  o l’uso delle cinture di sicurezza o del casco e l’assoluto divieto di uso di alcool e droga. Sessantuno anni, sposato e padre di due figli, l’alto dirigente è in possesso di una laurea in giurisprudenza e nella vita avrebbe potuto fare altro.

Perché ha deciso di indossare la divisa della Polizia?

“Non dirò che fin da piccolo volevo fare il poliziotto. Ho conseguito la laurea in Giurisprudenza perché ero appassionato al diritto inteso come quel complesso di regole che disciplinano la società affinché questa funzioni in maniera armonica. Mi è sempre piaciuto il concetto di ordine e quello connesso di libertà individuale che può esprimersi appieno solo all’interno di una società ordinata e governata dalle regole. In questo senso avrei potuto fare con il medesimo entusiasmo anche il magistrato o l’avvocato. Ho fatto il poliziotto perché ho vinto il concorso per Vice Commissario, nel lontano 1989, e sono entrato in un mondo professionale di assoluto fascino e impegno”. 

Primo incarico affidatole, nel 1990, è stato quello presso l’Ufficio Prevenzione Generale della Questura di Palermo, come funzionario di turno nei servizi continuativi (h24) che venivano espletati per lo più all’esterno sulla Volante in quanto volti al coordinamento operativo delle pattuglie impiegate nel quadrante. Che ricordi ha di quella esperienza, in un contesto (soprattutto in quegli anni) contrassegnato dalla spirale mafiosa?

“Quel primo incarico mi ha dato la possibilità di imparare a gestire le emergenze e il pronto intervento   che  è l’attività tipica delle “Volanti”, in occasione di fatti di reato o di soccorso pubblico”.

Sempre nel capoluogo isolano, ha svolto servizio presso il Commissariato Sezionale di “Brancaccio” con le funzioni di responsabile della Squadra di Polizia Giudiziaria. Sicuramente non sarà stato facile operare in uno dei quartieri più critici di Palermo

“Il quartiere palermitano di Brancaccio all’epoca era dominio incontrastato dei Graviano. Era per molti aspetti degradato sia dal punto di vista sociale che da quello urbanistico. Era l’epoca in cui operava Padre Puglisi che assieme ad un gruppo di volenterosi cittadini voleva riscattare molti giovani del posto dall’influenza mafiosa e in genere criminale, coinvolgendoli in attività sociali e sportive e, dunque,  allontanandoli dalle attività criminali quali rapine e spaccio di droga. Si batteva con le istituzioni locali per portare a Brancaccio, scuole ed altre strutture sportive che mancavano”.

Grazie al prezioso lavoro della sezione “antidroga” della Squadra Mobile di Palermo, che lei ha diretto dal 1993 al 1996, è stato accertato che lo stupefacente viaggiava sull’intero territorio nazionale e non solo nell’isola.

“L’esperienza alla Squadra Mobile di Palermo è stata tra le più belle ed esaltanti della mia carriera. Era il periodo immediatamente successivo alle stragi del 1992, e alla Squadra Mobile sentivamo totalmente il peso e la responsabilità di dare risposte decisive alla criminalità organizzata in tutti gli ambiti in cui essa operava, dalle estorsioni al traffico degli stupefacenti, all’infiltrazione e condizionamento degli appalti pubblici, alla cattura dei latitanti. Penso che in quegli anni, con le ripetute operazioni di polizia giudiziaria e la nascita di una nuova consapevolezza e presa di distanza dal fenomeno mafioso delle giovani generazioni, sia iniziato il riscatto di Palermo e della Sicilia intera dal fenomeno mafioso, che comunque ancora non si è concluso”.

Dopo l’esperienza palermitana, si è avvicinato alla sua terra e da maggio del 1996 è stato trasferito al Commissariato distaccato di Gela con l’incarico di responsabile della squadra di polizia giudiziaria. Amichevolmente i colleghi la chiamavano “Commissario Cobra”. Nei quattro anni di permanenza nell’incarico, ha diretto svariate indagini tese soprattutto al contrasto delle organizzazioni criminali locali di stampo mafioso (Cosa Nostra e Stidda). Quale ricorda in particolar modo e perché?

“Le operazioni di polizia di quel periodo sono state molteplici e tutte importanti, sia nei confronti della Stidda che nei confronti di Cosa Nostra. Era cessato il tempo dei contrasti violenti tra le due organizzazioni mafiose. Avevano raggiunto una sorte di pace. Le fibrillazioni vi erano invece all’interno delle due consorterie per il raggiungimento di posizioni di potere, tant’è che in quegli anni si sono registrati svariati fatti di sangue, quasi tutti risolti con l’individuazione dei colpevoli”.

Dopo avere diretto dal 2001 al 2004 il Commissariato di Lentini; dal 2004 al 2007 quello di Vittoria e dal 2007 al 2010 quello di Niscemi, è nuovamente tornato a Gela prendendo in mano le redini del Commissariato, dal 2011 al 2014. Oltre alla location (dagli storici edifici di via Tamigi a quelli di via Calogero Zucchetto), cosa è cambiato in tutti quegli anni?

“Il clima era decisamente mutato. Se negli anni ’90  la lotta alla mafia era esclusiva delle forze dell’ordine e della magistratura, all’inizio del 2000 era nata l’associazione antiracket per cui iniziarono le prime denunce di estorsione e quindi la collaborazione del mondo imprenditoriale che ha facilitato il contrasto alla delinquenza mafiosa. Non è che le attività criminali di stampo mafioso fossero cessate, avevano assunto un carattere – diciamo –  più sottotraccia, le attività estorsive non erano più così sistematiche e avvolgenti come nel periodo precedente, i capi storici erano nelle patrie galere. Si trattava comunque di recuperare un substrato culturale, sempre presente in un certo ambito sociale, alla cultura mafiosa e criminale. In questa prospettiva, devo dire che la parte sana della società, dall’associazionismo alle scuole, ha fatto un buon lavoro per incidere nella formazione delle giovani generazioni tramite incontri proprio nelle scuole, convegni e iniziative varie alle quali le forze di polizia sono state sempre presenti per portare la propria testimonianza”. 

Cosa non è riuscito a portare a compimento nella sua permanenza a Gela?

“Il lavoro del poliziotto si confronta con la realtà in cui opera. La lotta al crimine ma anche la vicinanza alla società civile per rassicurarla e infondere fiducia è la mission.  Mi auguro solo di aver contribuito a rendere un po’ più sicura la città e a far crescere la fiducia dei cittadini gelesi verso la Polizia di Stato”. 

Negli anni, grazie ad un laborioso lavoro investigativo, in città sono stati assicurati alla giustizia mandanti e killer spietati di numerosi fatti delittuosi. Se da un lato la criminalità mafiosa è stata colpita (anche se non del tutto affondata), dall’altra quella comune è difficile da estirpare. Come mai?

“Qui secondo me incidono fattori culturali, non solo nelle famiglie con tradizioni criminali in cui crescono le nuove leve, ma anche in alcuni ambiti della società gelese poco propensa al rispetto delle leggi”.

Perché a Gela, anche le controversie, si risolvono – purtroppo – con gli incendi delle auto? 

“Per quello che ho detto prima”.

Poco fa accennava all’associazione antiracket. Avrà seguito le vicende giudiziarie e amministrative che ultimamente l’hanno coinvolta. Qual è il suo pensiero?

“E’ giusto che la giustizia faccia il suo corso. I giudizi definitivi potremmo darli allora. Purtuttavia dico che l’attività concreta dell’associazione antiracket di Gela ha dato negli anni i suoi frutti concreti a differenza di tante altre associazioni antiracket, non solo siciliane”.

Lei ha operato a Gela, Lentini, Vittoria, Niscemi: quattro territori difficili ad alta densità criminale ed in cui insiste anche una profonda omertà. La gente non denuncia perché ha paura delle ritorsioni o c’è dell’altro?

“C’è tanta paura, prima probabilmente ce n’era di più. Prima che lo Stato approvasse le leggi con cui prevedeva sostegno a chi avesse denunciato, gli imprenditori si trovavano soli con se stessi. Gli strumenti di sostegno e tutela si sono affinati e i risultati sono a poco a poco arrivati. Da non sottacere comunque che qualche imprenditore ha scelto di stare  “borderline” per convenienza”. 

Qual è il ricordo che porterà nel cuore della sua esperienza gelese?

“Ricordi tanti, principalmente quello di aver lavorato per una terra che mi appartiene”.

Qualche mese fa, a causa di una malattia, è venuto a mancare uno dei suoi uomini in servizio al Commissariato di Gela. Chi è stato per lei, Peppe Dispinzeri?  

“L’Ispettore Dispinzeri mi ha collaborato sia negli anni novanta al Commissariato di Gela, che durante la mia direzione del Commissariato di Niscemi. E’ stato un poliziotto che ha svolto il suo lavoro con equilibrio, competenza e molta passione. Conosceva a fondo le dinamiche criminali di Gela ed è stato in prima linea nel contrastarle, subendo anche delle ritorsioni dai mafiosi locali, in conseguenza delle quali, a sua tutela, fu allontanato da Gela. Non arretrò mai di un passo e continuò sempre con la medesima spinta e determinazione a svolgere il suo lavoro con onore. Gela lo dovrebbe sempre ricordare per il suo costante impegno volto a rendere migliore la città in cui era nato e cresciuto”. 

Nel 2014 è stato trasferito presso la Questura di Trapani con l’incarico di Vicario del Questore. Quando parliamo del territorio trapanese – giocoforza – la mente ci porta al boss dei boss Matteo Messina Denaro, arrestato lo scorso 16 Gennaio dai carabinieri. Anche voi gli davate la caccia?

“Certo! La cattura del latitante è stata una priorità della Polizia di Stato nella provincia di Trapani”.

Com’è possibile che per trent’anni, il latitante più ricercato è riuscito a farla franca? 

“Le forze di polizia e la magistratura non hanno risparmiato impegno e risorse per la cattura. Dobbiamo tenere conto del contesto in cui si è operato e delle coperture ad ogni livello di cui ha potuto godere in una provincia, quella trapanese, in cui hanno sempre proliferato le associazioni massoniche, di cui molte “coperte”, quindi illegali”.

Dopo Trapani, nel 2018 è stato trasferito, con il medesimo incarico, alla Questura di Reggio Calabria dove ha svolto numerosi e complessi servizi sia per quanto riguarda quelli connessi agli sbarchi di immigrati clandestini, sia per ciò che concerne le manifestazioni calcistiche, politiche-sindacali e religiose. Cosa le ha lasciato la Calabria?

“Il ricordo di una bella terra soffocata dalla presenza immanente della ‘ndrangheta che ne soffoca l’economia e la possibilità di sviluppo economico”.

Nel 2020, promosso alla qualifica di Dirigente Superiore, è stato assegnato all’Ufficio Centrale Ispettivo, a Roma, dove ha svolto attività ispettiva presso molte Questure e articolazioni minori dislocate su tutto il territorio nazionale. Da più parti si sollecitano più uomini e mezzi. E’ così grave la situazione?

“La Polizia di Stato, così come tutto il settore della Pubblica Amministrazione, ha risentito del taglio degli organici, previsto dalla riforma Madia. L’attuale organico previsto è di circa  16.000 unità in meno rispetto a prima. Al momento si stanno svolgendo molti concorsi per tutte le qualifiche, per compensare le uscite dovute ai pensionamenti. Con processi di riorganizzazione, con l’utilizzo della tecnologia, si cerca di far fronte nel migliore dei modi alle esigenze e richieste di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica con risultati soddisfacenti”. 

Tanti giovani pur non di meno vorrebbero entrare in polizia: cosa si sente di dire?

“Fare il poliziotto non è un lavoro comune. Deve essere svolto con onore, dignità, passione, spirito di abnegazione e di servizio”. 

E’ proprio vero che alla fine la meritocrazia premia? 

“Nel lavoro come nella vita premia sempre la serietà, il lavoro, l’onestà. Non vedo altre scorciatoie anche se qualcuno ogni tanto riesce a prenderle…”

Ipse Dixit

Da Butera alla nazionale under 21 di calcio, la nutrizionista Maria Luisa Cravana si racconta

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Orgogliosa e fiera della sua Butera, la definisce “il mio borghetto del cuore, il paese dei nonni e dell’odore del pane appena sfornato, della mia infanzia e dei miei amici di una vita. Ogni volta che ci ritorno, sorrido e mi sento serena, quando vado via lascio sempre un pezzo di me…”

La dottoressa Maria Luisa Cravana, nel piccolo centro a pochi chilometri da Gela, ha trascorso anni intensi, muovendosi tra gli angoli dove ogni pietra custodisce una memoria, nella piazza principale affollata di storia che suscita un senso di meraviglia e ammirazione per la bellezza del passato. Dopo avere conseguito il diploma di maturità al liceo classico Europeo Educandato di Palermo, Maria Luisa ha bruciato le tappe nel percorso scolastico, laureandosi in dietistica nella facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Catania e conseguendo la laurea magistrale in alimentazione e nutrizione umana alla facoltà di scienze agrarie ed alimentari dell’Università degli studi di Milano. Dedizione allo studio e sacrifici, che l’hanno portata fino alla Federazione Italiana Giuoco Calcio. Agli ultimi Europei Under 21 in Slovacchia, ha curato l’alimentazione degli azzurrini.

“La mia collaborazione con la Figc è nata nel 2017, per caso. Avevo da poco concluso il Master in Nutrizione Sportiva, subito dopo la laurea magistrale; un caro collega mi avvisò che si stavano aprendo delle nuove posizioni per nutrizionisti, con l’obiettivo di creare per la prima volta un gruppo di professionisti a disposizione del Club Italia. Il colloquio è andato bene ed oggi sono ancora qui…”

La nazionale Under 21, ha cambiato commissario tecnico. Conosci Silvio Baldini?

“Non personalmente, ne ho sentito parlare molto bene e sono certa che farà un ottimo lavoro”.

Il tuo rapporto con l’ex ct degli azzurrini, Carmine Nunziata?

“Ottimo!, E’ stato il secondo allenatore che ho incontrato in questo meraviglioso percorso; abbiamo seguito insieme l’Under 17 fino al Mondiale in Brasile, esperienza meravigliosa e due anni fa ci siamo ritrovati in Under 21 continuando la nostra collaborazione con armonia e affetto”.

Qual è stata l’esperienza più significativa in nazionale che ti ha lasciato un segno?

“Sono state due in particolare quelle che mi hanno anche fatto crescere di più lavorativamente: in primis, l’organizzazione del Mondiale in Brasile, itinerante, per la quale c’è stata un’importante organizzazione per poter stare al meglio in quel posto, arrivare carichi, mantenere le energie e recuperarle nonostante il jet lag e poi giocare partire interessanti con squadre provenienti da tutto il mondo; la seconda esperienza più importante, il mio arrivo in Under 21 durante un periodo già complicato per tutti noi, quello del Covid. Tra mascherine, tamponi e attenzioni meticolose, noi preparavamo l’Europeo”.

Hai mai avuto difficoltà a lavorare in un ambiente prettamente maschile?

“Le difficoltà ci sono, non bisogna negarlo; una donna deve sempre stare più “attenta” rispetto ad un uomo, nel comportamento, nell’atteggiamento e deve dimostrare e palesare sempre e più spesso la propria professionalità e serietà”.

Se un giorno arrivasse la chiamata per accedere nello staff della nazionale maggiore?

“Ne sarei felice e lusingata. Nonostante il Club Italia sia una grande famiglia e il lavoro all’interno, in qualsiasi altro staff sia ugualmente gratificante e motivante, ovviamente l’esperienza in nazionale maggiore, sarebbe un po’ la massima aspirazione”.

Sei tifosa del Milan. E’ l’anno giusto per ritornare ai fasti di un tempo con Max Allegri in panchina?

“Sono cresciuta da milanista con tutti i miei zii e la famiglia intera che ha vissuto gli anni d’oro del Milan. Quando posso corro a San Siro a tifare. L’arrivo di Allegri probabilmente è quello di cui il Milan aveva bisogno. Un uomo di esperienza, uno stabilizzatore, oltre che un bravo allenatore. Oltretutto noi tifosi siamo rimasti un po’ affezionati a colui che ci ha regalato quel bellissimo scudetto nel 2011, di fatto il penultimo vinto dai rossoneri”.

Hai sempre avuto parole di elogio per Arrigo Sacchi. Per quale motivo?

“Ho vissuto il nome di Arrigo proprio dai miei familiari. Lui era il mito, era l’eroe. Aver avuto la possibilità di conoscerlo, scambiare delle chiacchiere con lui, persona di una certa cultura e spessore, mi ha emozionato. La prima volta che l’ho incontrato, non credevo ai miei occhi. Gli ho chiesto perfino una foto. Ci sono state diverse occasioni successivamente e confermo che ascoltarlo diventa quasi un’esperienza mistica”.

È stato facile per una ragazza di provincia, emergere nel Nord Italia?

“Non ho mai sentito il peso della provenienza, avendo vissuto molti anni a Palermo, la mia città di nascita, ero un po’ pronta alla città, certo Milano viaggiava ad un’altra velocità ma mi sono adattata in fretta”.

Quando torni a Butera, cosa non deve mancare in tavola?

“Non si può andare via da Butera senza aver mangiato almeno una volta “l’impanata” ma a mia madre chiedo gli anelletti siciliani al forno (nel pranzo della domenica) e un’altra piccola concessione che mi faccio è la parmigiana dello zio. In primavera, magari sembrerà strano, amo pasta e piselli freschi e frittata di asparagi selvatici, due alimenti che non trovo a Milano e mi mancano molto”.

A pochi chilometri da Butera, c’è Gela…

“Gela se non sporadicamente per lavoro, per lo shopping e per il mare con gli amici, la conosco poco. La vedo come una città in evoluzione e che vuole farsi spazio e questo mi rallegra, allo stesso tempo penso debba essere valorizzata di più soprattutto a livello ambientale. C’è uno dei lungomari più belli della Sicilia e non è mantenuto bene. Questo mi fa rabbia!”.

Il rapporto con i tuoi genitori?

“Meraviglioso. Questo è il primo aggettivo che mi sento di utilizzare. Ho la fortuna di avere due genitori che mi hanno sempre sostenuta in ogni mia scelta dandomi sempre saggi consigli. Ciò che io oggi sono, è grazie a loro, ho la tenacia di mio papà Gaetano e la forza e dolcezza di mamma Carmela”.

C’è un grazie che ti senti di dire a qualcuno?

“Ai miei genitori certamente e a mio fratello Giovanni, il mio sostenitore più grande, così come a chi ha creduto in me in tutti questi anni, alcuni colleghi e amici cari”.

Che musica ascolti?

“A questa domanda mio fratello riderebbe. Probabilmente perché la musica che ascolto mi rappresenta molto (cambia con il mio umore). Spazio molto da un genere musicale all’altro ma non deve mai mancare il rock e la musica latina. Il mio must resta però la musica italiana degli anni 70-80, mia madre dice che sono vintage nell’anima”.

Entriamo nel dettaglio del tuo lavoro. Tra poco sarà Ferragosto e si preannunciano pranzi e cene abbondanti. C’è una strada da perseguire per evitare di ingrassare?

“Ciò che consiglio ai miei pazienti è di non abbuffarsi. Ci saranno pranzi e cene abbondanti ma da gestire con intelligenza e consapevolezza. Fare attività fisica o comunque cercare di mantenersi attivi tutti i giorni, idratarsi molto viste le temperature alte e abbondare in verdura. Quest’ultima non deve mancare assolutamente!”

Esiste una dieta perfetta?

“La dieta perfetta è un’alimentazione consapevole ricca in tutto: carboidrati, proteine, grassi, vitamine e minerali. È importante gestire il quantitativo di cibo assunto ma non dobbiamo avere paura degli alimenti, bisogna conoscerli e sceglierli bene”.

Quali sono gli errori da evitare per resistere alle tantissime tentazioni della gola, dolci e salate?

“Assumerne in grandi quantità o ripetere nella giornata la stessa tipologia di alimento, è già sbagliato. Diversificare la dieta può aiutare a non eccedere”.

Pane, pasta e riso fanno ingrassare?

“No, assolutamente, sfatiamo per favore questo mito. I cereali che sostengono la nostra amata dieta mediterranea sono degli alimenti imprescindibili, creano la nostra energia e vanno garantiti in una dieta equilibrata. Gestirne la grammatura e i condimenti invece può fare la differenza”.

Nello specifico, cos’è la dieta mediterranea?

“È uno stile alimentare tipico dei paesi che appunto si affacciano sul Mar Mediterraneo (o meglio almeno lo era un tempo), caratterizzato da un elevato consumo di frutta, verdura, cereali integrali, legumi, pesce fresco e olio extra vergine di oliva, con un uso moderato invece di carne, latticini e uova e un limitato apporto di dolci e zuccheri raffinati. È stata riconosciuta come patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco nel 2010”.

Perché nel Sud Italia – secondo gli ultimi dati – ci sono più obesi rispetto al centro e al Nord del nostro Paese?

“I dati di “Okkio alla Salute” ci mostrano risultati preoccupanti effettivamente sin dall’infanzia; le motivazioni principali sono proprio quelle legate al concetto di nutrimento ideale per i bambini percepito dai genitori; quindi, grosse quantità rispetto al fabbisogno calorico e allo stesso tempo scarso dispendio energico, quindi poca attenzione all’attività fisica che gli si propone di fare. Il sovrappeso e l’obesità sono un problema già durante la fase evolutiva”.

Facciamo un regalo ai nostri lettori. Ci puoi elencare un percorso alimentare da seguire attentamente per rimanere sani e belli?

“Si rimane sani e belli scegliendo l’equilibrio e la moderazione. Partirei col fare una completa colazione e mai saltarla (abitudine che hanno in molti). Delle idee potrebbero essere l’abbinamento di yogurt greco magro e autentico o kefir con frutta secca, frutta fresca di stagione e magari cereali integrali non zuccherati; oppure del pane tostato di segale con formaggio di capra o ricotta e frutta fresca/estratti o ancora dei dolci fatti in casa come pancake con farine non raffinate di avena, mandorla, yogurt, agave e frutta. Spuntini e merende “spezza fame” composti da verdure da sgranocchiare o frutta secca e frutta fresca. Pasti principali come pranzo e cena alternativamente che includano il consumo di cereali integrali, farro, orzo, riso con abbondante verdura e ortaggi di stagione, l’uso di spezie come la curcuma e lo zenzero e l’aggiunta di proteine (da consumare eventualmente anche separatamente nel pasto successivo) come pesce fresco pescato, carni prevalentemente bianche da allevamenti all’aperto e senza uso di antibiotici, legumi e/o prodotti derivanti dai legumi, uova da allevamenti controllati, a terra e formaggi freschi magri. Alla base di tutto l’idratazione, bere almeno 2 litri di acqua al giorno e praticare attività fisica”.

In nazionale, ci sono giocatori vegetariani e vegani? In questi casi, come ci si comporta?

“Si, ci sono. Organizziamo sempre dei menu che prevedono anche scelte completamente vegetali e va monitorato meglio l’introito proteico generale”.

“Il corpo mano è un tempio e come tale va curato e rispettato, sempre”. La citazione di Ippocrate non fa una grinza…

“È la mia filosofia; questa frase già letta e fatta mia al liceo durante i miei studi classici mi ha sempre affascinato, tanto da riportarla nel mio sito come mantra.Il corpo è un tempio, a livello olistico bisogna prendersene cura sempre, è come una casa, la vorremmo sempre pulita, in ordine piena di amore e armonia. Questo ci garantirà sicuramente una salute migliore nel tempo ma sosterrà anche una salute mentale più equilibrata che non va sottovalutata oltre che cercare di gestire lo stress quotidiano anche perché ci aggiungo anche un’altra importante citazione “mens sana in corpore sano”.

Il tuo sogno nel cassetto?

“Non bisognerebbe mai dirlo altrimenti non si avvera, ma noi non siamo superstiziosi. Perché no, un’esperienza in un club sarebbe un gran desiderio ma per il futuro sogno uno studio particolare tutto mio a Milano. Con Butera nel cuore”.

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Ipse Dixit

“Sacrifici quotidiani per garantire sicurezza e legalità nel territorio”

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Nato a Torino cinquant’anni fa, il comandante provinciale dei Carabinieri di Caltanissetta, colonnello Alessandro Mucci, laureato in “Giurisprudenza” con specialistica in “Scienze della Sicurezza Interna ed Esterna”, ha una carriera alle spalle di tutto rispetto. Ha operato soprattutto nel Sud Italia, con diverse tappe nel Lazio dove dal 1999 al 2004 ha guidato (ed insegnato) nel tempo, alla scuola Allievi Marescialli e Brigadieri di Velletri, alle porte di Roma; il Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Latina e dello stesso comando provinciale e la Compagnia di Aprilia. Successivamente, il suo cammino lo ha portato nelle città ad alta densità criminale: Pozzuoli, Locri, Reggio Calabria, Bari. In Puglia, è stato comandante del Ros, il Raggruppamento Operativo Speciale. Ha messo piede in Sicilia nel settembre del 2004, guidando la Compagnia di Santo Stefano di Camastra, nel Messinese, fino al 2007, per poi ritornare nella nostra isola nel 2022, con l’incarico di Capo Centro Dia di Palermo.

Colonnello, partiamo proprio da qui. Nei diversi incarichi professionali, ha combattuto la ‘Ndrangheta, la Sacra Corona Unita, la camorra e la mafia. Organizzazioni simili e spavalde nel compiere reati crudeli ma differenti tra loro. E’ proprio così?

“I caratteri costitutivi – quindi la forza d’intimidazione, l’assoggettamento, l’omertà – e le finalità – di illecito arricchimento, di infiltrazione dell’economia – sono comuni a tutte le organizzazioni di tipo mafioso, che agiscono in diversi ambiti territoriali di operatività e di influenza, e secondo criteri organizzativi interni in parte differenti”.

Abbiamo accennato della sua permanenza in Calabria. Che ricordi ha e cosa di quella terra ricorda piacevolmente?

“Una straordinaria esperienza professionale per intensità e complessità”.

Tra i risultati conseguiti dal colonnello Mucci, sono state numerose le operazioni di servizio che hanno portato alla disarticolazione di importanti sodalizi criminali, al sequestro di ingenti patrimoni, all’identificazione degli autori di efferati fatti di sangue e la cattura di numerosi irreperibili, di cui due compresi nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità inseriti nel “Programma Speciale di Ricerca”. Basti ricordare Ernesto Fazzalari di Taurianova, nel Reggino, considerato all’epoca della cattura il secondo in Italia dopo Matteo Messina Denaro e inserito nell’elenco stilato da Europol dei “Most Wanted Fugitives”, e Giuseppe Giorgi, di San Luca, e altri 6 inseriti nell’elenco dei “latitanti pericolosi”.

Dallo scorso 16 settembre, lei è al comando del Provinciale di Caltanissetta. Massima attenzione, è chiaro, è dedicata a Gela. Se da un lato, nella nostra città, c’è una sensibile riduzione degli incendi dolosi, grazie ad un sofisticato sistema di videosorveglianza, dall’altro proliferano l’uso di armi e lo spaccio di droga. Come legge lo spaccato che si delinea?

“Nel territorio di Gela è giudizialmente accertata l’esistenza e operatività di organizzazioni criminali, anche di tipo mafioso, tra le cui fonti di arricchimento e sostentamento economico, lo spaccio di sostanze stupefacenti occupa certamente un ruolo preminente. Quanto alla disponibilità di armi, anche in questo caso il dato rinviene dalle indagini e dalla quotidiana attività di prevenzione e contrasto svolto dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia, come evidenziato anche in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario del 25 gennaio scorso. Sulla sensibile riduzione degli incendi dolosi, ritengo possano essere fatte due considerazioni di carattere generale: la prima riguarda la costante attenzione rivolta alla specifica fenomenologia delittuosa – di particolare allarme sociale – da parte di tutte le Autorità e le Istituzioni deputate all’ordine e alla sicurezza pubblica, in primis il Prefetto di Caltanissetta che ha svolto importante azione di impulso proprio in tema di controllo del territorio finalizzato alla prevenzione dei reati, accompagnato da qualificate attività investigative svolte sotto la direzione dell’Autorità Giudiziaria; la seconda considerazione in tema di riduzione del dato numerico consegue ad una più approfondita analisi del fenomeno, con particolare riferimento alla matrice entro cui “inquadrare” i singoli eventi: accanto, infatti, ad episodi la cui origine appare contestualizzabile in contesti di criminalità organizzata, si pensi ai danneggiamenti con finalità estorsiva, esiste in apprezzabile misura una fenomenologia connessa e dinamiche di natura quasi “privatistica” potremmo definirla: episodi connessi a vicende interpersonali, la cui valutazione dell’andamento nel tempo è quindi maggiormente “sfuggente” rispetto alle attività di analisi dei fenomeni criminali più strutturati”.

Perché, soprattutto dalle nostre parti, la maggior parte delle persone guarda solo al proprio interesse?

“Non ritengo di avere specifiche competenze per un approfondimento, sotto il profilo psicologico e dello studio dei comportamenti, sul tema dell’egoismo”.

Allarghiamo l’orizzonte: in tutta Italia, sono numerosi gli incontri che le forze dell’ordine hanno con gli studenti al fine di diffondere la cultura della legalità, però se leggiamo i dati dell’ultimo sondaggio, c’è da rabbrividire. Per la maggioranza degli alunni italiani, la mafia è più forte dello Stato e non può essere sconfitta. Solo il 20% (uno su cinque) crede che possa essere annientata. Si tratta, sicuramente, di un dato shock. Non crede?

“Crediamo molto nella diffusione della cultura della legalità tra i giovani e nelle scuole, e lavoriamo ogni giorno perché le parole di Giovanni Falcone, nella celebre intervista a Rai3 il 30 agosto 1991, sulla fine della mafia e sul come si possa vincere la mafia, possano trovare piena credibilità anche tra i giovani di oggi”.

Nel contrasto al crimine, la tecnologia – indubbiamente – vi offre un contributo importante. Come rende il vostro lavoro e le vostre operazioni all’avanguardia?

“Viviamo un’era di profonde trasformazioni e di rapidi cambiamenti, che influenzano il nostro modo di vivere e di interagire. Le tecnologie di uso generale sono in grado di trasformare radicalmente i processi decisionali, operativi ed esecutivi in diversi campi, le continue innovazioni tecnologiche ridefiniscono anche i parametri della sicurezza mondiale: tutto ciò rende le nostre sfide sempre più complesse, per cui l’Arma è impegnata nei programmi di ricerca e di sviluppo al fine di offrire strumenti adeguati per far fronte ad una minaccia in continua evoluzione”.

Parallelamente, della stessa tecnologia ne fa uso anche la malavita. E’ risaputo che il crimine è sbarcato sui social per condurre affari illegali. Come e dove bisogna intervenire per frenare tutto ciò di cui le associazioni mafiose traggono vantaggio?

“Ritengo si debba intervenire lavorando sulla capacità anzitutto di interpretare i mutamenti che stiamo vivendo, propri dell’era digitale, e quindi sviluppando una conseguente capacità di garantire risposte adeguate alle nuove sfide di cui dicevo prima, al passo con i tempi, accanto alle tradizionali strategie di prevenzione e di repressione”.

Qual è la sua definizione di mafia?

“Ritengo che la definizione di “associazione di tipo mafioso” nel nostro codice penale riassuma efficacemente tutti i caratteri del fenomeno mafioso”.

Perché in alcune aree d’Italia, non si è mai sradicata la contiguità tra mafia e politica?

“Al di là del riferimento territoriale, reputo che i legami politico – mafiosi siano, e la storia giudiziaria ne offre piena conferma, strettamente connessi al fenomeno mafioso: al punto da rendere necessaria una specifica previsione normativa, all’articolo 416-ter, in tema di scambio elettorale politico mafioso appunto”.

Quali sono le attività silenti, poco conosciute, che i Carabinieri portano avanti al servizio della comunità?

“Come ricordato in occasione della celebrazione del 211° anniversario della fondazione dell’Arma, ogni giorno di “vita operativa” restituisce storie di rassicurazione sociale, di piccoli gesti di vicinanza, di presenza sempre competente e generosa grazie a quell’attitudine all’ascolto e al dialogo con la gente, che da sempre caratterizzano la “cultura della sicurezza” del Carabiniere: tanti cittadini si rivolgono al Carabiniere per un semplice consiglio, un suggerimento, a volte una parola di conforto”.

Nella nostra provincia, in altrettante caserme, sono presenti cinque stanze dedicate all’ascolto delle vittime di violenza domestica e di genere. Lei, in più occasioni, ne ha sottolineato il ruolo fondamentale ed ha invitato le vittime a denunciare. Il messaggio è stato accolto?

“I Carabinieri sono quotidianamente in prima linea non solo nelle attività di contrasto delle diverse fattispecie di reato in tema di violenza domestica e di genere, ma anche nella prevenzione attraverso la diffusione di materiale informativo, di locandine, mediante la pubblicazione di video sui propri canali social, la realizzazione di spot, come quello che qualche tempo fa ha visto la partecipazione del presentatore Carlo Conti, per invitare le donne a “fare il primo passo” informandole sull’esistenza di misure di natura legale, ma anche di supporto psicologico, lavorativo ed economico a sostegno delle vittime. E ancora le tante occasioni di incontro con le scuole e le comunità, e la sezione dedicata al “codice rosso” sul sito istituzionale www.carabinieri.it. I dati relativi alle attivazioni del “codice rosso” in provincia evidenziano un importante ricorso alla denuncia da parte delle vittime della violenza di genere: e mi ricollego al concetto di “prossimità” e di vicinanza ai cittadini, e ancora al ruolo fondamentale svolo dalle Stazioni Carabinieri, primo sportello di ascolto per le vittime”.

In occasione della cerimonia per i 211 anni della fondazione dei Carabinieri, lei ha ricordato le vittime del dovere e i militari della provincia nissena caduti in servizio, scandendo i loro nomi. Quale esempio hanno lasciato a tutti voi che indossate la divisa?

“L’esempio dei nostri caduti dev’essere per tutti noi Carabinieri costante e immutabile modello di riferimento: un esempio di dedizione, di senso del dovere, di fedeltà al giuramento prestato”.

Quali sono i consigli per evitare di cadere nella trappola delle truffe commesse ai danni di persone anziane?

“L’Arma ha messo in campo numerose iniziative in tema di truffe agli anziani: da ultimo, tra le “buone pratiche” individuate per accrescere l’incidenza dei servizi di prossimità alla popolazione anziana e per sensibilizzarla sul delicato tema, è stata avviata una capillare campagna di informazione, finalizzata ad accrescere i livelli di prevenzione e la funzione di “rassicurazione sociale” in favore degli anziani, coinvolgendo anche “Federfarma Caltanissetta” e l’“Ordine Provinciale dei Farmacisti” in una collaborazione che prevede la distribuzione di un opuscolo informativo sulla specifica tematica, consegnato in ciascuna delle 85 farmacie delle provincia in occasione dell’acquisto di farmaci. Il consiglio principale resta sicuramente quello di contattare sempre il Numero Unico di Emergenza 112 in caso di dubbio”.

Cosa vuole dire ai suoi carabinieri che operano nel Nisseno?

“Come recentemente espresso in occasione della Festa dell’Arma, il mio apprezzamento per l’impegno quotidianamente profuso, ma anche un ringraziamento per lo spirito di servizio, per la competenza e il rigore morale, per quel contributo quotidiano e “silente” di cui si faceva cenno prima, per i sacrifici che spesso il nostro servizio comporta per tutti noi e per le nostre famiglie”.

Ha mai temuto per la sua incolumità?

“La paura è un’emozione umana, la professionalità comporta il saperla gestire, il non farsene condizionare, ma soprattutto il cercare in ogni ambito di prevedere ogni possibile fattore di rischio e adottare le procedure operative corrette per ridurre al minimo l’esposizione al pericolo per l’incolumità propria e del personale”.

Se non avesse fatto il carabiniere, cosa avrebbe fatto?

“Sono appassionato di tecnologia, probabilmente avrei orientato i miei studi in quel settore”.

L’errore da cui ha imparato di più?

“Ogni singolo errore deve far maturare una riflessione sul “cosa si sarebbe potuto fare di più o meglio”.

Le fa paura il tempo che passa?

“No!”

Si pente di qualcosa?

“Assolutamente no”.

Lei è torinese: bianconero o granata?

“Juve tutta la vita”

Qual è il piatto della nostra provincia che le piace di più?

“Adoro tutta la cucina siciliana. Buonissima!”

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Ipse Dixit

Il coraggio di denunciare di Nino Miceli, “nessuno si permetta di non renderci liberi!”

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La sua storia potrebbe ispirare un regista cinematografico (non è escluso che ciò accada) perché evidenzia, in un vortice perenne di pesanti e vigorose emozioni, l’iniziale sottomissione al crimine; la susseguente ribellione; il forzato allontanamento dalla sua terra e la testimonianza contro i suoi carnefici, condannati nei tre gradi di giudizio, a 450 anni di carcere.Poco meno che quarantacinquenne, in quel periodo, Nino Miceli dirigeva la concessionaria Lancia-Autobianchi in via Venezia. Lui, agrigentino di Realmonte, era felice di operare a Gela. La città piaceva anche alla moglie e ai suoi due figli. L’attività andava benissimo e anche i dipendenti erano soddisfatti del lavoro. Si era trovata l’alchimia perfetta. Quando un giorno, un maledetto giorno, tutto crolla. E’ l’aprile del 1990. Siamo in piena guerra di mafia. Accompagnato da un ex dipendente di Miceli, in concessionaria si presenta un boss di Cosa Nostra (un capo mandamento) che chiede lo sconto sul prezzo di una Lancia Thema in esposizione e una detrazione di parte della somma pattuita di 10 milioni di lire, in cambio di un’Alfa Romeo da rottamare. Miceli non ci sta. L’affare non può essere concluso. A quel punto, il capomafia lo fissa negli occhi: “ma tu lo sai chi sono io?”. Non una vera e propria richiesta di denaro (avverrà dopo) ma l’immagine evidente della protervia, dell’imposizione, dell’intimidazione e del disprezzo per chi aveva osato non sottostare alla pretesa. E’ l’inizio della fine. Da quel momento cominciano i guai. Il negozio viene dato alle fiamme alla fine dello stesso mese di aprile. Un danno enorme di 200 milioni di lire. Poi altre avvisaglie, con un ulteriore tentativo di incendio tre mesi dopo. Il biglietto da visita della malavita locale, era stato fatto recapitare. Da quel momento, Miceli comincia a pagare 500 mila lire a Cosa Nostra. Il 28 febbraio dell’anno successivo, un altro rogo. Un inferno di fuoco. Un ulteriore messaggio, eloquente: tra i beneficiari del pizzo, si aggiunge anche la Stidda che pretende la stessa somma elargita ai “rivali”. Miceli è ostaggio, umiliato, sia come uomo che come commerciante, privato della propria libertà, stretto a tenaglia. Dal secondo “contatto”, Miceli comincia a registrare le conversazioni con i mafiosi, mette nero su bianco dinnanzi agli investigatori, facendo nomi e cognomi, raccontando ogni dettaglio, con particolare dovizia. E’ l’inizio della fine ma a parti invertite. Purtroppo però è solo in fase di denuncia e in pochi lo seguono.

Miceli, ha creduto e sperato che in quel periodo la muraglia di silenzio che cinturava Gela perdesse pezzi e che la facciata si sgretolasse?

“L’ho sperato, in particolare quando l’allora capitano dei Carabinieri, Mario Mettifogo ci esortò che uniti nella denuncia, tutti noi commercianti avremmo potuto liberare la città dal cancro mafioso. Purtroppo, è andata diversamente e la muraglia di silenzio ha perso qualche pezzo ma è rimasta in piedi…”

Nel suo trascorso, si staglia lo sfondo di una Gela da girone infernale. Sono stati anni difficilissimi…

“Purtroppo si: sono stati anni difficilissimi, da girone infernale per me e la mia famiglia in particolare, ma Gela, fortunatamente, non è solo mafia. E’ una città dove, per esperienza diretta, ho conosciuto tantissima gente perbene che, in modo seppur diverso, ha vissuto quel girone infernale”.

Da più parti, la sua è stata definita una lotta trentennale non solo contro le cosche mafiose ma anche con alcune frange del movimento antimafia e alcuni esponenti delle istituzioni statali. Perché?

“La mia è stata una lotta, fatta in compagnia di Tano Grasso e con il supporto fondamentale del mio amico Angelo Lo Scalzo, funzionario di Polizia, per me stesso ma anche per chi dopo di me avrebbe fatto scelte coraggiose. Quelle che definiamo Istituzioni allora non avevano piena coscienza del problema racket che soffocava i commercianti. Ricordo a me stesso come l’allora ministro degli Interni, Roberto Maroni, chiese ed ottenne dalla Rai una trasmissione riparatoria dopo la denuncia di Roberto Saviano che affermava come la mafia spadroneggiasse anche nel nord Italia”.

In tutti questi anni di lotte continue per la legalità, lei ha conosciuto anche il magistrato più scortato d’Italia, Nino Di Matteo. Chi è stato per lei?

“Di Nino Di Matteo il ricordo che ho è di un allora giovanissimo magistrato molto preparato che seppe tutelarmi durante la mia lunga testimonianza dai pretestuosi, anche se comprensibili, attacchi da parte degli avvocati difensori dei mafiosi. E’ anche a sua firma la risposta che la procura di Caltanissetta invia al Servizio centrale di Protezione quando quest’ultima chiede un parere su una elargizione che mi avrebbe consentito di rientrare tra i vivi. Quella lettera la definisco nel mio libro “La mia unica medaglia ricevuta”. L’avermi citato nel suo libro “Assedio alla toga” come esempio da seguire è stata una carezza che conforta”.

Perché in quegli anni, in sede di denuncia, le fu consigliato di recarsi dai Carabinieri e non al Commissariato di Polizia?

“Avevo perplessità e sfiducia nei confronti di tutte le forze dell’ordine per alcuni avvenimenti che riporto nel libro. Un mio carissimo amico, che aveva la possibilità di valutare, ritenne di consigliarmi in quel particolare contesto di rivolgermi ai carabinieri”.

Lo abbiamo accennato in precedenza: il comandante Mario Mettifogo…

“Mario Mettifogo è la persona a cui ho affidato la mia vita. Il suo approccio nei miei confronti non è quello dell’Autorità che si rivolge dall’alto in basso al cittadino ma quello di una Autorità che chiede al cittadino di essere aiutato per il raggiungimento di un obiettivo condiviso da ambo le parti. E’ anche l’uomo che mi pone davanti i pericoli che sono insiti in quella denuncia a Gela in quel contesto e si adopera per la mia salvaguardia. Poi con il tempo diventa l’amico con il quale ti intrattieni tra ricordi e attualità”.

Il 10 novembre del 1992, la mafia alza il tiro ed uccide il profumiere Gaetano Giordano. Lo conosceva?

“Non ho un ricordo personale perché non lo conoscevo. Quel barbaro omicidio, accompagnato dal ferimento del figlio Massimo, mi ha messo di fronte ad una realtà per me inimmaginabile. A Gela per una denuncia, si poteva morire”.

“Io, protetto: una vita da incubo. Con l’antimafia dell’Ulivo, io mi sarei anche potuto impiccare”. Cosa l’ha spinta a pronunciare quella frase nel luglio del 1998?

“Leggere che il sottosegretario agli interni, Giannicola Sinisi, nel corso di una audizione alla Commissione antimafia affermava di avere liquidato con 20 o 30 milioni di lire alcuni testimoni, francamente mi ha fatto male e da qui lo sfogo con la giornalista de La Repubblica, Liana Milella”.

Quanti sacrifici ha fatto, assieme ad altri “coraggiosi”, per fare emanare il decreto-legge per l’istituzione di un fondo di sostegno per le vittime delle richieste estorsive?

“Non si è trattato di sacrifici, quanto di legittime richieste per noi e per chi dopo di noi avrebbe fatto la civile scelta della denuncia, di non subire oltre che il danno la beffa economica. E’ tutto merito di Tano Grasso che con il supporto di un manipolo di testimoni riuscì a porre all’attenzione del Paese il problema racket. Il forum organizzato dal Corriere della Sera con la nostra presenza, fu la miccia che avviò la fiammata che fece riscoprire la legge rimasta insabbiata in Senato. A seguire arrivò la convocazione di Walter Veltroni con la promessa, mantenuta, che la legge sarebbe stata approvata al più presto”.

Per quale motivo, c’è voluto così tanto tempo per fare capire allo Stato che il “testimone di giustizia” (come nel suo caso) fosse un soggetto completamente diverso rispetto ad un “collaboratore di giustizia”?

“Voglio ricordare che il fenomeno del pentitismo si sviluppa negli anni 80 per merito di Giovanni Falcone e del pool antimafia e si amplia negli anni 90 con centinaia di pentiti. I testimoni di giustizia non hanno mai superato le 60\70 unità. L’apparato statale abituato a gestire pentiti, ha inizialmente accorpato i testimoni nella stessa struttura che gestiva i pentiti. E’ grazie ad Alfredo Mantovano e a Tano Grasso che anche questa anomalia è stata risolta con la creazione ad hoc di una struttura che gestiva solo i testimoni. E’ gratificante sentire la risposta al telefono, quando chiamo i Nuclei Operativi di Protezione: Antonino, come possiamo aiutarla?”

In quegli anni terribili, chi le è stato realmente vicino?

“Inizialmente Mario Mettifogo che ha condotto l’operazione Bronx 2 con il ritrovamento del libro mastro delle estorsioni; poi l’allora Maggiore Domenico Tucci che mi ha seguito e consigliato in relazione alla mia sicurezza. Il generale Umberto Pinotti che, dopo gli screzi avuti in caserma a Gela, ho rincontrato a Roma consigliandomi una soluzione di uscita dal Servizio centrale di protezione. Tano Grasso che mi ha coinvolto in questa battaglia ideale a favore dei testimoni standomi vicino e trovando soluzioni inizialmente impensabili a favore dei testimoni. Senza dimenticare Antonio Manganelli, allora Direttore del Servizio centrale di protezione che diede parere favorevole alla formulazione che ho proposto per la mia uscita dal Servizio. Alfredo Mantovano, il prefetto Rino Monaco, il maresciallo dei carabinieri di Appignano di Macerata, Giovanni Cardoni. In questo lungo e accidentato cammino, l’uomo a cui devo veramente tutto è Angelo Lo Scalzo, il funzionario di Polizia, amico d’infanzia, che mi è stato sempre vicino nel quotidiano di questo accidentato percorso. il vero mio Angelo Custode in tutta questa vicenda”.

Quanto è stato difficile per lei e per i suoi familiari, assumere una nuova identità, cambiare radicalmente residenza e attività lavorative?

“Inizialmente le difficoltà principali le hanno subito mia moglie e i miei figli. Invito ad immaginare una madre e due ragazzi sradicati dal loro ambiente e trasferiti in una località sconosciuta alla quale dovevano adeguarsi. Per loro, il senso di solitudine ma anche di abbandono vissuto, deve essere stato alienante. In merito alla nuova identità, è come mentire ma con il tempo prendi atto che le nuove generalità ti accompagneranno fino alla fine dei tuoi giorni e quindi convivi con questo dualismo identitario e prendi atto di una interruzione della catena genealogica. Questa interruzione mi fa stare male sotto l’aspetto psicologico”.

Si è sentito un esiliato?

“Si, mi sono sentito esiliato! La città che mi era stata vicina dopo gli incendi, si è allontanata quando divento accusatore e mi costringe ad andare via. Con la cittadinanza onoraria ho creduto nella riconcilazione e il dono dell’opera del maestro Leonardo Cumbo, “Attrazione repulsiva” posta allora sul lungomare, era per me il segno e la volontà rappacificatrice sia mia che della città di Gela. L’asportazione dell’opera (per restauro?) da due anni e il fatto che non sia più tornata al suo o altro posto, cosa significa? Possibile che l’opera dia fastidio? E se si, a chi? Sono domande che non cercano risposta”.

Se tornasse indietro a quegli anni, rifarebbe le stesse identiche cose?

“E’ una domanda che mi sono fatto e mi è stata fatta mille volte e la risposta è sempre la stessa. Rifarei tutto, anche se questa azione di denuncia, che in un paese civile dovrebbe essere un gesto normale, nel mio caso ha sconvolto l’esistenza normale di una normale famiglia. La libertà è un valore che non ha un prezzo”.

Perché ritiene che ci sia una vera e propria oligarchia dell’antimafia?

“Nel momento in cui il problema racket ha interessato seriamente il nostro Paese, mafiosi, politici e soggetti istituzionali vari e non, hanno valutato questo fenomeno come terreno su cui lucrare sia economicamente che come gestione del potere a spese di chi in questa guerra contro la mafia c’è morto o si è sconvolto la vita come me”

Ha avuto timore di essere ucciso?

“Si, è stato un timore ricorrente, quello di subire una ritorsione anche estrema, ma riesco razionalmente a tenere questo timore in cassaforte della quale ho dimenticato la combinazione”.

Ha paura della morte?

“Ho paura della sofferenza che può portare alla morte ed ho coscienza che essa si avvicina”.

Si è sentito solo in quegli anni a Gela?

“Per nulla, ho avuto sempre vicino persone che mi hanno voluto bene e non sono sicuro di averli ringraziati abbastanza. Sono una persona che ha difficoltà a tradurre in parole i suoi sentimenti verso chi vuole bene”.

Attualmente di cosa si occupa?

“Nel 2014 ho vissuto un momento difficile sotto l’aspetto sentimentale ed è in questo momento buio interiore che ricevo la telefonata di Massimo Giordano, il figlio del compianto Gaetano, che mi invita a venire a Roma: ho bisogno di persone di cui mi fido. Massimo è stato nominato Coamministratore Giudiziario, dalla Procura di Roma, di una importante procedura di sequestro preventivo e ritiene di affidarmi l’amministrazione di diverse società facente parte della stessa procedura, che successivamente diventa confisca definitiva e ancora oggi sono qui ad assolvere a questo compito di amministratore che a breve dovrebbe concludersi con l’assegnazione e\o vendita dei beni e definitiva chiusura della procedura. E poi, se ci sarà un poi, la pensione. A Massimo devo dieci meravigliosi anni romani”.

Qual è il suo senso della vita?

“Non credo che la vita non abbia di per sé un senso, ma si è costretti a darglielo. In alternativa, il suicidio”.

A Gela è stato fatto tutto (e bene) sul fronte dell’antiracket?

“La mia visione sul fronte dell’antiracket a Gela è per lo più una visione frammentata, considerata la mia lontananza da Gela. E’ indubbio l’attivismo del presidente della disciolta associazione. Ho partecipato al 25’ anniversario dell’uccisione di Gaetano Giordano e mi sono rimaste impresse due cose: l’autoreferenzialità di un filmato che contrastava con le parole dell’allora procuratore di Gela, Fernando Asaro, che affermava: i commercianti gelesi in dibattimento balbettano. Le ultime vicende sanno di sconcerto e la Prefettura di Caltanissetta ha ritenuto di dovere sospendere l’associazione dall’elenco prefettizio”.

Ai tanti imprenditori, commercianti, artigiani, cosa si sente di dire?

“Abbiamo avuto la fortuna di essere nati in un continente, dove successivamente alle due guerre mondiali, i politici di queste Nazioni, hanno intrapreso un percorso di pace e unione assicurando ai cittadini il bene più prezioso che è la libertà, di espressione, impresa, religiosa ed altro ancora. Si può permettere che una merdaccia di un mafioso venga a toglierci questa libertà? Non si può permettere. Continuare a ripetere “ ma chi te lo fa fare”, è vigliaccheria allo stato puro”.

Nino Miceli, porterà la sua testimonianza diretta in Sicilia, in occasione della presentazione della sua ultima fatica letteraria. “Questo libro non è un romanzo, è un libro confessione – dice – E’ un libro verità su di me e sugli altri. Mi sono messo a nudo, mi sono svelato. Non scrivere i cognomi dei mafiosi, sarebbe stata finzione”. Previsti, durante questo mese, appuntamenti nell’Agrigentino, nel Palermitano e a Gela.

Miceli, più volte ha sostenuto che le piacerebbe passeggiare liberamente lungo il corso principale di Gela. Senza scorta

“Si, è un desiderio ricorrente. Vorrei ma non oggi alla luce di quanto avvenuto. Ma come allora, anonimo a tanti e salutando amici che incontri”.

Trova complicato che tutto ciò possa verificarsi?

“Molto complicato anzi impossibile”.

Cosa dice al boss che le ha stravolto la vita?

“Dovessi averlo davanti gli chiederei: qual è il senso che ha dato alla sua vita? E alla luce di quanto avvenuto, ne è valsa la pena? Un’ideologia fondata sulla legalità, invece che sulla sopraffazione, non avrebbe consentito a lei e ai suoi cari di dare un senso migliore alla vita? Semplicemente la vita”.

Le foto di Nino Miceli, pubblicate nell’articolo, sono state volutamente offuscate per ovvi motivi di sicurezza

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