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Gli scatti vip di Sonia Aloisi, “ringrazio Dio ogni istante della mia vita”

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“E’ il destino che mi ha portato a Gela e mi ha dato l’opportunità di conoscere mio marito che considero la ricompensa che Dio ha deciso per me….”

Quando fato e credenze si intrecciano, è un’esplosione di gioia. La stessa che prova tuttora la fotografa Sonia Aloisi, torinese d’origine ma gelese d’adozione.

“Da parte di mamma sono comunque siciliana,  quindi in Sicilia scendevo spesso anche da piccola per qualche mese di ferie coi nonni” – ci tiene a precisare. Il richiamo materno è indissolubile. Sempre, ad ogni latitudine.

Hai trasformato la passione in lavoro. Come e perché ti sei innamorata della fotografia?

“Penso che abbia sempre fatto parte di me. Ho foto in cui,  avevo appena 5-6 anni, portavo la macchina fotografica al collo, di quelle con le immagini prestampate all’interno. C’è differenza tra fare il fotografo ed essere un fotografo: io penso di esserlo sempre stata anche quando non sapevo cosa fosse la tecnica. Mi ha sempre affascinato il fatto che l’unica cosa che blocca il tempo, che tiene vivo il ricordo,  sia proprio una foto, è l’unica cosa che resta di un ricordo, di un luogo, di una persona cara”.

Hai conseguito la laurea triennale in psicologia ma alla fine hai deciso di non percorrere questa strada. Perché?

“In realtà il mio unico vero grande sogno era diventare medico, ma per una serie di circostanze familiari non mi è stato possibile e questo rimarrà per sempre il mio unico rimpianto. Essendo molto brava a scuola ho optato per un altro indirizzo consono al mio diploma. Adesso invece mi sono iscritta nuovamente all’università scegliendo scienze della comunicazione con indirizzo digital marketing…una grande sfida per me perché incastrare lavoro, famiglia e studio non è semplice. Ma la forza di volontà tutto puo!”

Qual è il tuo stile di foto?

“Non amo classificare o collocare le foto in uno schema, perché ogni storia da raccontare ha dei parametri diversi. Amo alternare delle foto composte e studiate a foto più spontanee. Oggi va molto di moda parlare di “reportage” ma in Italia è impossibile realizzarlo perché siamo legati alle tradizioni, abbiamo un modo diverso di concepire la fotografia, che non è né meglio né peggio, semplicemente diverso. La foto è un linguaggio:  parla, emoziona, analizza e racconta del soggetto ma anche tanto di chi la scatta. Ecco perché non amo rilegare le mie foto all’interno di uno standard, perché per me l’unica cosa che conta è che raccontino una storia. Anzi la storia di chi si è affidato a me”.

I tuoi scatti piacciono e la dimostrazione, negli anni, è arrivata dalle grandi riviste italiane che si occupano prevalentemente di moda. Quando ti hanno contattata, cosa hai pensato?

“Che erano pazzi!  Scherzi a parte, penso che abbia colpito l’idea originale, un po’ fuori dagli schemi. Sicuramente è stata una bella dose di autostima e di soddisfazione”.

Non solo riviste, ma anche set cinematografici, tra cui “Thid Person” di Paul Haggis e il “Tredicesimo apostolo”. Che esperienze sono state e come si sono intrecciate le vostre vite?

“Meravigliose! Conoscere il premio Oscar Liam Neeson è stato un sogno. Ero andata con la scuola a vedere al cinema “Schindler list”, e dopo un po’ di anni proprio lui era davanti a me e alla mia macchina fotografica. Ed è stata la conferma di come persone così grandi e talentuose fossero così umili e semplici. Le esperienze romane anche con Claudio Gioe’ e Claudia Pandolfi le porterò sempre nel cuore, vedere e soprattutto partecipare a quelle fiction è stato un grande insegnamento, tecnico e umano”.

Entusiasmante l’esperienza provata al festival di Sanremo nel 2015, al fianco di Emma Marrone, di cui hai curato l’immagine del dietro le quinte?

“Emma mi è sempre piaciuta moltissimo, per il suo carattere, le sue idee, le sue battaglie sociali, soprattutto dopo essere stata operata per la terza volta di cancro. Essere al suo fianco in un posto sacro per la musica come l’Ariston è stato inebriante. Non si può capire che macchina perfetta ma isterica sia il dietro le quinte di uno spettacolo così importante… migliaia di persone che lavorano come soldati, nessuno può sbagliare o tardare anche solo di un minuto”.

Hai lavorato anche per Gianni Sperti,  per Alessandra Amoroso e Paolo Bonolis. In particolare, di cosa ti sei occupata?

“Per Bonolis il lavoro è stato continuativo, per quattro anni sono stata la fotografa della linea di abbigliamento di sua figlia Adele e di sua moglie Sonia, persona meravigliosa con la quale ancora oggi ho un bellissimo rapporto. Gianni invece mi contatto’ direttamente, dopo avere visto alcune delle foto che avevo scattato, tramite la sua truccatrice, amica mia ma anche di Alessandra Amoroso. In particolar modo era rimasto colpito dalla post produzione delle mie foto e voleva realizzare un servizio fotografico esterno che seguisse quella linea, non posato in studio.  In meno di due giorni organizzammo tutto e partii per Roma. Per Alessandra invece mi sono occupata di realizzare il servizio fotografico all’Arena di Verona, altro tempio sacro per la musica. Ricordo che quando vidi da dietro le quinte 20 mila persone, scoppiai a piangere dall’emozione, perché se apparentemente tutto può sembrare facile, dietro c’è sempre tanto studio, costanza e soprattutto testardaggine”.

Eri stata anche contattata per immortalare Eros Ramazzotti durante i suoi concerti, ma un gravissimo lutto non te lo ha permesso

“Anche Eros mi contatto’ direttamente, ancora conservo le nostre conversazioni, e ancora ci scriviamo di tanto in tanto. Dovevo andare all’Olimpico di Roma, ma un paio di giorni prima mori’ mio padre e l’accordo salto’. O meglio è stato semplicemente posticipato ad altra occasione, che sono certa arriverà. E da lassù, papà ne sarà contento…”

Accennavamo alla famiglia…Cosa rappresenta per te?

“Tutto! È il mio punto fermo, è la mia radice, è l’unico posto in cui torno sempre. Non esiste lavoro, successo, soldi che valgano o abbiano importanza se non hai accanto chi ami.  Perché tutto passa, i periodi buoni e brutti si alternano, la gente intorno è solo di passaggio o approfitta del “momento di gloria”, o giudica pensando di conoscerti . Forse all’apparenza non sembra perché il mio lavoro mi porta ad avere migliaia di conoscenze, e per natura sono una persona molto socievole, ma in questo sono molto selettiva: non permetto a tutti di entrare nei miei spazi privati, mi apro solo con chi decido io, e le mie vere amicizie sono sempre le stesse da 20 anni a questa parte. Niente e nessuno può distrarmi dall’amore che ho per mio marito e per quei pochi veri amici che ho e che considero una seconda famiglia”.

I tuoi cari hanno sempre sposato le tue idee per il lavoro che fai?

“Si. Sempre. Perché conoscendomi davvero sanno perfettamente che se mi metto in testa una cosa è solo questione di tempo ma ci riuscirò’ . Sanno che ho un ottimo intuito e sono talmente testarda che se decido di ottenere qualcosa, studio finché non ci sarò riuscita. Sono sempre stata così, ho sempre bisogno di tenere il cervello in movimento e appena ottengo un risultato professionale ne ho già adocchiato un altro.  Oramai sono rassegnati”.

Nella vita privata, chi è Sonia Aloisi?

“Una persona completamente diversa da ciò che sembra. Sono sempre allegra ma molto spesso introspettiva e malinconica, ho momenti in cui voglio stare sola e in silenzio per i fatti miei. Sono molto altruista ed empatica, troppo sensibile (e ho capito negli anni che forse è più un difetto che un pregio). Alle persone che amo do tutta me stessa, ma pretendo altrettanto. Nonostante il mio lavoro imponga altro, odio la tecnologia, o meglio non sopporto più l’abuso che se ne fa. Ha sostituto per molti la vita reale: io sono rimasta ancorata al bigliettino scritto carta e penna, a quattro chiacchiere faccia a faccia, agli abbracci e ai baci con chi amo. La tecnologia avrebbe dovuto migliorarla la vita, non sostituirla”.

Tornando indietro nel tempo, cosa non rifaresti?

“Non sono quel tipo di persona che rinnega nulla, manco gli sbagli”.

Deduco che sei fortemente credente in Dio

“Si, ma ho imparato negli anni ad avere un dialogo con Lui. E la mia fede si è rafforzata quando cercavo risposte ad eventi difficili da superare che stranamente anziché allontanarmi mi hanno avvicinato e aiutato a sopportare e superare grandi dolori e dispiaceri. Io ogni giorno gli dico grazie per aver messo sul mio cammino mio marito, per avermi fatto superare problemi di salute e soprattutto ringrazio sempre perché non voglio nulla di più, nulla di meno di ciò che ho già”.

Ultimamente, attraverso le colonne di questo giornale, hai voluto esprimere il tuo personale sentimento di cordoglio per il dottor Alfio Garotto, scomparso a seguito di un incidente stradale. Chi è stato per te il noto medico chirurgo e divulgatore, già Direttore del Reparto di Chirurgia Generale e di Chirurgia Metabolica dell’Istituto Ortopedico del Mezzogiorno di Italia di Messina?

“Ancora adesso stento a credere che sia successa davvero questa tragedia. Mi sembra impossibile che davvero non ci sia più una persona come lui. È stato un fulmine a ciel sereno. Io sono sempre stata magra, poi tanti anni fa ho subito un incidente alla gamba che mi ha costretto alla paralisi e ad oltre un anno di ricovero in clinica. Li il mio metabolismo si è bloccato, inceppato. Negli anni a seguire, nonostante non avessi un’alimentazione scorretta, ho iniziato a prendere chili su chili. Nonostante la dieta, non riuscivo a dimagrire… A 122 chili, capii che non potevo andare avanti così. Fu a quel punto che una mia amica mi trascinò a forza alla sua prima visita, che fu scioccante. Tutti siamo abituati a medici frettolosi, che parlano forbito, che non ti guardano mai in faccia, che considerano i pazienti dei numeri. Lui invece era l’opposto: parlava solo in dialetto con tutti, spiegava il metabolismo tra una battuta e una risata, faceva sembrare tutto facile. Mi operó da lì a pochi mesi, “un intervento da manuale e una paziente con decorso perfetto” così mi defini’. Diventammo amici, sapeva che a differenza di molti che provano quasi vergogna a parlare di un intervento subito, io avevo scelto la strada della verità, raccontando a tutti del mio percorso, anche perché potevo essere d’aiuto ad altri. Sapeva che avevo molte persone che mi seguivano e così organizzammo anche delle dirette Instagram per parlare a tutti del mini bypass gastrico. Lui aveva qualcosa di soprannaturale, un carisma unico, un linguaggio per tutti. La sua morte è sicuramente una perdita immensa, perché medici e uomini come lui sono davvero doni di Dio. E mi dispiace per tutti quelli che non potranno più aver la fortuna di conoscerlo”.

Chi è stato per te il compianto Luca Agati, vittima del Covid?

“Questa è una ferita ancora più dolorosa. Poco prima che ricoverassero Luca, in una bruttissima situazione c’ero io… Questo pensiero mi ha divorato per mesi. E la sua situazione familiare e lavorativa,  molto simile alla mia, mi ha resa più sensibile al dolore di sua moglie. Inoltre, vivere questo dispiacere durante la stagione lavorativa è stato uno strazio, perché dovevamo fingere allegria davanti alle coppie quando dentro di noi avevamo solo lacrime. È stato brutto rendersi anche conto che nel nostro lavoro, qualsiasi cosa accada, non ci si può fermare perché sostanzialmente ciò che abbiamo dentro non interessa. Noi siamo gli “addetti ai lavori” e quindi si va avanti. Comunque. Angelica pochi giorni dopo era già al lavoro, non ha avuto neanche il tempo di piangere il suo dolore. Tutto proseguiva normalmente, vorticosamente, un matrimonio dietro l’altro, evento dopo evento. Chi era Luca nel lavoro lo sanno tutti, e spero vivamente che non sarà mai dimenticato,  perché ha fatto davvero tanto per accontentare i suoi clienti e ha fatto tanto per la comunità gelese”.

E’ un vantaggio nell’attività che svolgi, essere una donna?

“Ho sempre pensato di sì. Perché una donna ha una innata sensibilità, un gusto estetico differente. Fondamentalmente io ho a che fare con le spose ed essere una donna ti pone sullo stesso livello empatico di chi hai di fronte, si ha più facilità ad entrare in confidenza. Non so perché la fotografia è sempre stato un settore maschile, ma sicuramente ho aperto la strada a un nuovo punto di vista, appunto quello femminile”.

Chi o cosa vorresti fotografare e perché?

“Avrei tanto voluto fotografare mio nonno, la persona più importante della mia vita, ma purtroppo non ne ho avuto il tempo. Quando ero ragazzina, non esistevano cellulari o iPad, le foto che ho sono tutte da rullino. Quindi non si sprecavano. Si aspettava la scampagnata, i vestiti a festa per scattare, si stampavano e si attaccavano negli album, che ora conservo come gioielli. Un valore totalmente diverso dal presente. Ora invece si scatta di continuo ma inutilmente, perché per la frenesia di non perdere nulla non si guarda più con gli occhi, non si stampa più e i veri ricordi andranno persi. Per sempre”.

Primo premio internazionale “Contest Winter”. Di cosa si tratta?

“Di un concorso a cui si inviano delle foto di matrimonio e una giuria internazionale esprime dei giudizi tecnici e assegna dei voti. È così che mi è stato assegnato il secondo posto nel 2019 e il primo posto nel 2020. Penso di rimettere a giudizio le mie foto quest’anno, purtroppo con la pandemia un po’ tutto è rallentato”.

Qual è stato il complimento più bello che hai ricevuto per il lavoro che svolgi?

“Quando mi sento dire che riconoscono le mie foto ancora prima di leggere chi le ha pubblicate. Lo considero un gran complimento perché vuol dire che ho un’identità, uno stile personale, che può piacere o no. Ma è il mio”.

L’emozione più grande che hai vissuto?

“Avere incontrato Papa Francesco. Ho pianto talmente tanto da non riuscire neanche a formulare una parola di senso compiuto al suo cospetto. Non dimenticherò mai quel giorno”.

In tutti i settori lavorativi, c’è sempre qualche critica dietro l’angolo. Ne hai ricevute?

“Penso di poter scrivere un libro su ciò che sento dire su di me, cose che a volte manco io so di me stessa…Da dove inizio? Si dice io sia antipatica, troppo esigente, troppo cara, che vestivo male quando ero in carne ma che ora pubblico troppi selfie perché sono tornata magra..potrei andare avanti per un bel po’…ma mi fermo qui per non tediare”.

Ti hanno mai chiesto di fotografare scene… osé?

“Mi manca solo questo… (ride) No no,  nessuna richiesta hot, ne a me ne a mio marito”

Qual è stata la richiesta più strana che hai ricevuto?

“Di sostituire in una foto già pronta, la presenza di una donna, inserendo con l’utilizzo di Photoshop una pianta al suo posto…La richiesta è giunta direttamente dal suo ex compagno”.

Soddisfatta della sindacatura Greco?

“Non sono in grado di dare un’opinione, sono troppo stufa di sentire tante promesse durante la campagna elettorale e di vedere poi Gela sempre nello stesso stato da 20 anni. Mi hanno stufato tutti!  Non credo esistano politici a cui interessi davvero il bene comune, forse idealmente si inizia così. Poi gli interessi personali prendono il sopravvento…”

Cosa ha bisogno Gela per emergere?

“Tutto! Gela ha vantaggi naturali come la posizione geografica, il mare e le spiagge, la sua storia, il cibo. Ma sono risorse trascurate. In qualsiasi altro posto al mondo,  creano turismo senza aver nulla, qui c’è tutto e non si fa niente. Ma io non do la colpa solo ai politici.  I primi a sbagliare e a degradare questa città siamo noi cittadini: gettiamo carta ovunque, imbrattiamo muri, sradichiamo panchine e docce pubbliche, parcheggiamo in terza fila, non facciamo nulla per mantenere decoro nel luogo in cui viviamo”

Se dovessi fotografare un angolo della nostra città, su cosa punteresti e per quale motivo?

“Vico Santa Lucia. È un angolo che adoro, perché dà esattamente il senso di come dovrebbe essere tutta la città. L’impegno e la volontà dei commercianti del vicolo lo ha reso un fiore all’occhiello, tutti di comune accordo lo mantengono pulito, colorato, coi fiori e con addobbi e decorazioni. Hanno insistito e resistito visto che all’inizio venivano distrutte anche le piantine di un euro. Ciò vuol dire che se tutti volessimo,  Gela diventerebbe bellissima…”

Il primo vero scatto l’ho sempre fatto col cuore. Poi con l’obiettivo”….è sempre attuale il tuo mantra?

“Assolutamente si. E non cambierà mai. Il giorno in cui non scatterò più col cuore, lascerò la macchina fotografica e farò altro”

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Angelo Famao, il neomelodico gelese che canta l’amore

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Un calendario fitto di impegni che lo vedrà indiscusso protagonista fino al prossimo 10 settembre, data in cui si esibirà a Montemurro, in provincia di Potenza. Basilicata, Campania, Lazio, Molise, Calabria e Sicilia figurano nel tour “Un’altra estate insieme!”, partito lo scorso 25 aprile da San Marco Argentano, nel Cosentino. E le date sono in continuo aggiornamento.

Si profila, nuovamente, il tutto esaurito per vedere dal vivo l’astro nascente della musica neomelodica napoletana, dopo i successi ottenuti lo scorso autunno/inverno in Germania, Svizzera e Francia. Il gelese Angelo Famao, 27 anni, spopola anche sul web con più di 90 milioni di visualizzazioni su Youtube con il brano “Tu si a fine do munno” e oltre 30 milioni di ascolti su Spotify. Su Instagram ha da poco superato i 325 mila follower. Un successo che ultimamente gli ha portato in dote il disco di platino per avere raggiunto il traguardo delle 100 mila copie vendute, dopo avere conquistato, anni prima, il disco d’oro.

“Tutto meritato, perché ho sempre creduto a quello che facevo. I sacrifici che ho fatto sono stati ampiamente riconosciuti…Certe volte mi stupisco di me stesso ma guardando indietro penso a tutto ciò che ho messo in campo per ottenere il giusto riconoscimento. Notti insonni, scrivere e riscrivere un brano, trovare le parole giuste. Beh, non è stato facile ma sono stato testardo e ce l’ho fatta. La meritocrazia paga sempre”.

Quando si ottiene qualcosa, c’è sempre una dedica particolare

“Assolutamente si. Dedico tutto quello che faccio ai miei genitori, i quali hanno sempre creduto nelle mie potenzialità canore, e ai miei più stretti collaboratori”.

Qual è l’emozione più grande?

“Vedere il pubblico che canta con me e che di me è innamorato. Li abbraccio uno ad uno…”

Con un diploma tecnico di meccatronico in tasca, avresti potuto fare altro nella vita ed invece hai scelto la musica. Come è scattata la scintilla?

“Ho sempre avuto la passione per la musica ed in particolar modo per quella napoletana. Fin da piccolo, mio padre mi faceva ascoltare i brani neomelodici e nella nostra casa, nel quartiere Settefarine, era una festa continua. Cantavamo a squarciagola, non ci fermavamo mai. Uno spettacolo”.

Chi dei cantanti partenopei ti piaceva ascoltare, in quegli anni?

“Uno su tutti: Gianni Vezzosi. Io ero completamente pazzo delle sue canzoni. Un idolo”.

Ma la tua carriera, come e dove nasce?

“Cinque anni fa, mi sono trasferito a Catania e ho avuto la fortuna di conoscere numerosi impresari del settore. C’è chi ha puntato ad occhi chiusi su di me e adesso siamo qui”.

Bravura o fortuna?

“La fortuna aiuta gli audaci. Io non ho mai smesso di crederci. Poi una mano è giunta anche da lassù…”

Credente?

“Da sempre. Prego continuamente!”

Ci sono canzoni neomelodiche che esaltano la malavita, in una sorta di Sanremo che strizza l’occhio ai criminali. Perché accade anche questo?

“E’ un ambito che non mi interessa. Io canto l’amore, quello sano, genuino. Poi ognuno è libero di fare ciò che vuole. Posso dire con assoluta sincerità che io non lo faccio…”

Come prendono forma le tue canzoni?

“Non c’è un vero e proprio standard da seguire. Personalmente mi colpisce un episodio, un tema, un fatto e da li prendo spunto per scrivere. Per non andare molto lontani: una personale relazione sentimentale interrotta, mi ha dato l’input per mettere su un pezzo…I testi musicali nascono cosi, anche e soprattutto quando attraversi un periodo assai difficile della tua vita”.

Accennavi ai sentimenti. Fidanzato?

“Diciamo che ho diverse storie….(ride)”

La tua ragazza ideale?

“Devo ancora capirlo”.

I tuoi video clip, sono girati prevalentemente a Gela…

“Credo che sia giusto e doveroso nei confronti della mia città. Io a Gela ci abito (sta ultimando di ristrutturare casa, ndr) e sono attorniato da belle persone. E’ vero che ci sono dei difetti, ma quest’ultimi li trovi dappertutto. A Gela, purtroppo, sono più vistosi. Sfido chiunque però ad avere un mare ed una spiaggia come quelle nostre. Sono un incanto”.

Dicevi dei difetti, delle problematiche che interessano Gela. Rivolgendoti alla classe politica che ci amministra, cosa vuoi dire?

“Uno degli interventi che bisognerebbe portare a compimento, riguarda il porto. Renderlo fruibile, sarebbe un toccasana per tutti. Cosi facendo, si incrementerebbe il turismo e ci sarebbe più lavoro per chi opera nel settore alberghiero e della ristorazione e tanti giovani non lascerebbero la propria città perché impegnati a lavorare in quegli ambiti”.

Economicamente, cantare è redditizio?

“Non posso lamentarmi”.

Qual è il rammarico più grande che ti porti dietro?

“Ogni esperienza ti fa crescere, ti rende forte, ti rende uomo. Ci sono stati episodi, in ambito professionale, che ti lasciano il segno ma l’importante è non ricadere negli stessi errori”.

Cosa consigli ai ragazzi che vogliono entrare a far parte del mondo musicale?

“Di non arrendersi mai, di insistere e di credere in se stessi. Così come ho fatto io. I sacrifici saranno ricompensati. Bisogna avere fede”

Buongustaio?

“Mangio di tutto ma la pizza rimane al primo posto”.

Come ti vedi tra dieci anni?

“Più rilassato, più maturo. Attualmente mi definisco molto vivace, un’anima libera…Spero di mettere su famiglia”.

Nelle tappe del tuo tour, al momento, non c’è Gela. Come mai?

“Ci stiamo lavorando e se tutto andrà bene, sarà a “fine do munnu…”

I suoi fans locali non vedono l’ora. Intanto lo lasciamo alla sua pizza napoletana sfornata a Gela. Il binomio perfetto è servito.

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Il giudice Tona: a Gela la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia

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Da quasi 10 anni a questa parte, compone la prima sezione penale della Corte d’Appello di Caltanissetta, svolgendo il suo lavoro con maniacale attenzione ai dettagli e in ossequio alle procedure previste dal codice. 

“Lo Stato è di chi lo vive.  Conoscere per scegliere liberamente e con consapevolezza”. Quasi come un monito, perentorio, il giudice Giovanbattista Tona, lo ripete spesso e volentieri, soprattutto quando incontra i giovani studenti.

In magistratura dal 1996, oltre ai numerosi procedimenti giudiziari che portano la sua firma, ha svolto seminari e lezioni nelle università di Palermo, Messina, Reggio Calabria, Cosenza, Bologna e Milano.  E continua ad essere invitato per disquisire sul tema del diritto penale. Svolgendo le funzioni di coordinatore per la corte d’Appello, si occupa inoltre di formazione dei magistrati e dei giovani laureati in tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari.

Dottore Tona, come sta la magistratura italiana? 

“Sta in cammino lungo strade impervie e dalle direzioni incerte. Cerca di fare bene con i mezzi limitati che ha e quando non ci riesce deve essere pronta ad essere accusata di tutto. Nel frattempo in questi anni non ha mancato di farsi male da sola”.

D’accordo con la riforma Cartabia? 

“Non è un giudice a dover essere d’accordo con leggi. Devono essere le leggi a riuscire ad andare d’accordo con gli obiettivi che vogliono perseguire e soprattutto con la Costituzione che è la Legge fondamentale. Semmai il giudice, applicando le leggi, deve cercare tutti i modi possibili per farle andare d’accordo con quegli obiettivi e con questa Costituzione. Con la riforma Cartabia non sarà sempre facile ma ci dobbiamo provare”.

Da Cartabia a Nordio. Qual è il suo giudizio sull’attuale ministro della giustizia? 

“Dare un giudizio su un Ministro significa dare un giudizio politico. E un magistrato è sempre opportuno che si astenga dal dare giudizi politici, anche se finiscono per riguardare comunque un altro magistrato”.

Cosa ne pensa di quei magistrati che hanno svestito la toga per sposare la politica? 

“Mi stupisco che se ne parli tanto con scandalo come se fosse un problema dei tempi nostri. Ci sono magistrati passati alla politica e partiti politici che hanno candidato magistrati sin dall’Unità d’Italia, con tutti i regimi e con tutte le maggioranze. E mi pare che la cosa accada in molti altri paesi del mondo, anche molto ben orientati in tema di separazione dei poteri. Tuttora – se si guardano le cose senza pregiudizi – si possono vedere frequenti situazioni in cui forze politiche, pur preoccupate dei rischi di politicizzazione della magistratura, candidano magistrati o ex magistrati o affidano loro compiti di governo. Questo mi fa pensare che finché il problema viene affrontato così o non è un problema o non si può risolvere”. 

Le hanno mai chiesto di entrare in politica? 

“È capitato più spesso che negli ambienti delle nostre periferie sia circolata la voce che entrassi in politica, senza che nessuno me lo avesse chiesto. E già questo è un buon motivo per sottrarsi ad esperienze per le quali comunque non è detto che si sia all’altezza”. 

Per dieci anni (dal 2000 al 2010), ha svolto sia la funzione di Gip che di Gup al tribunale di Caltanissetta. Quale dei due incarichi è più difficile e per quale motivo? 

“Non ci sono funzioni giurisdizionali che si possano dire facili o meno difficili se non peccando di superficialità. Ma senz’altro il giudice per le indagini preliminari svolge il delicato ruolo del giudice terzo nella fase in cui il processo non è ancora iniziato; le sue scelte possono dare un indirizzo di equilibrio alle attività del pubblico ministero quando ancora le indagini non sono concluse ma si può incidere sulla tutela dei diritti delle persone coinvolte e si deve preservare l’utilità degli accertamenti. È un chirurgo con i ferri in mano mentre la diagnosi si sta ancora facendo a cuore aperto”. 

Dal 2013 è componente della prima sezione penale della corte d’appello di Caltanissetta. Di cosa si occupa prevalentemente? 

“Ci si occupa di tutti i processi penali relativi a reati gravi e meno gravi delle province di Caltanissetta e di Enna, senza alcuna distinzione di materia o di complessità; quelli che i media ritengono importanti al pari di quelli che comunque noi siamo abituati a considerare importanti perché tali sono per le persone coinvolte. In un mondo in cui sembra che per essere bravi bisogna essere specializzati noi dobbiamo imparare ad essere bravi senza essere specializzati. E ci conforta quella famosa frase di George Bernard Shaw: “lo specialista è colui che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di niente”. 

Come, in alcuni contesti territoriali, può essere definitivamente debellato il patto di ferro tra politica e criminalità? 

“Mai la criminalità finirà di cercare accordi con la politica. Solo quando e se la politica li rifiuterà non ci saranno più questi accordi. Ma se sopravvivono i patti di ferro di cui lei parla, bisognerà attivarsi, con leggi ben fatte e con le necessarie iniziative giudiziarie, perché si arrugginiscano e si inceppino”.

Perché il giovane è appetibile dalle famiglie mafiose? 

“Perché i giovani sono energia e passione; averli a loro servizio per le famiglie mafiose significa incatenare le loro energie e le loro passioni e alimentare con esse il proprio potere. Se i giovani invece riescono ad essere liberi dal bisogno e dai miraggi che il mondo criminale propone, allora possono impiegare i loro talenti per il loro futuro e per quello delle loro comunità”. 

Con il Pnrr arriveranno tantissimi soldi. Si sa, quando c’è denaro, la criminalità accende i fari…Come e dove bisogna intervenire per evitare tutto ciò? 

“Mi piacerebbe dare una risposta semplice ma il problema è complesso. Nel dibattito pubblico da una parte c’è chi reclama l’intensificarsi dei controlli e dall’altra chi lamenta che troppi controlli costano e ostacolano la realizzazione delle opere pubbliche. L’esperienza giudiziaria invece mostra che il cuore del problema non sta in quanti controlli si fanno ma nel come si fanno”. 

Lei conosce bene l’ambiente di Gela per averci lavorato sia in fase inquirente che giudicante. Perché si delinque? 

“Nel 2004 il prof. Stefano Becucci, sociologo dell’università di Firenze, svolse un’analisi accurata sul territorio di Gela e intitolò il suo saggio “La città sospesa”. Sintetizzava così la condizione di una città che rimaneva a mezz’aria in un’evoluzione che non riusciva mai a compiersi del tutto: da centro agricolo ad area altamente industrializzata, da luogo di storia e archeologia a scenario di stabilimenti ed impianti chimici, da terra di mafia a terra di antimafia, prospettive di trasformazione spesso promesse e mai del tutto realizzate. In questa sospensione in cui spesso non si trova una sintesi si alimentano contraddizioni, inefficienze, arroganze e frustrazioni. Mi pare che questa chiave di lettura spieghi molte cose anche oggi, in cui tante promesse che vent’anni fa sembravano ancora un orizzonte raggiungibile, ora hanno lasciato nei cittadini gelesi tanta disillusione”. 

Nonostante, in tutti questi anni, le innumerevoli operazioni di polizia giudiziaria e le successive condanne penali, i clan mafiosi gelesi (è quanto emerge dalle cronache) sono sempre attivi. Come se lo spiega? 

“Se si taglia la gramigna senza mai bonificare il terreno, si continuerà sempre a tagliare gramigna. Senza purtroppo potere raccogliere altro di buono. Se le cosche, nonostante non abbiano il potere di un tempo, nonostante non garantiscano gli ingenti guadagni di una volta e nonostante non offrano concrete prospettive di impunità, trovano sempre persone disponibili alla militanza, alla mera alleanza o compiacenza, forse allora bisogna ammettere che per sconfiggere la mafia ci sono anche altri fenomeni di cui occuparsi. A Gela, come anche in tutta Italia e in diversi Stati europei, la criminalità si innesta nelle debolezze della società e dell’economia e vi prospera; segue le prassi già distorte della vita sociale e del mercato, intuisce prima degli altri le opportunità, offre servizi, promette appoggi, semplifica con la violenza le complessità, crea alleanze opache e informali per risolvere conflitti e con il suo agire quotidiano alimenta relazioni in cui nemmeno più si riconosce il confine tra l’illegalità diffusa e la mafia vera e propria, in un sistema comunque efficiente e attraente capace di sopravvivere agli interventi repressivi e di sostituire velocemente i singoli che incappano nella costante attività repressiva dello Stato. Che purtroppo, nonostante l’impegno di molti suoi uomini e la crescita della consapevolezza in ampi strati della società gelese, laboriosa e ricca di intelligenze, non riesce ancora ad intercettare la fiducia dei cittadini”.

Perché a Gela è così frequente il fenomeno degli incendi dolosi? 

“È il segno di una delle debolezze della società di cui parlavamo prima. L’incapacità di dare sfogo civile, oltre che legale, ai conflitti genera fenomeni come questi. L’incendio doloso diventa strumento di regolamento di conti, dalle questioni private alle contese sugli affari illeciti. Spesso non sono opera di mafia ma sono modalità di cui la mafia si può avvalere più facilmente se le sa usare chiunque”.

Nel 2010, un gruppo di fuoco della mafia gelese era pronta ad ucciderla, “colpevole” di avere comminato pene agli affiliati del clan. Tempestivi, in quell’occasione, furono gli arresti immediati eseguiti dalla Polizia, che scongiurano l’episodio. Quando è venuto a conoscenza del progetto criminoso, cosa ha provato? 

“Sulle prime i sentimenti sono stati di sorpresa. Si sa che sono cose che con il nostro lavoro possono succedere ma quando succedono veramente ci si rende conto che, senza mai dirlo a se stessi, si era sempre pensato che non sarebbero mai accadute. Subito dopo sono subentrati pensieri di gratitudine per chi ha svolto le investigazioni ed è intervenuto tempestivamente, e soprattutto per tutti coloro i quali hanno perso la vita per noi quando ancora il contrasto alla criminalità mafiosa non aveva raggiunto livelli tali da riuscire ad impedire per tempo le sue azioni violente”.

Lei vive costantemente sotto scorta. Cosa si sente di dire ai suoi angeli custodi? 

“A loro dico sempre due cose: “grazie” e “bisogna avere pazienza”. La seconda la dico anche a me stesso”.

Ha mai avuto paura? 

“Mi basta pensare alle tante persone che ne potrebbero avere ben più di me e non la fanno mai prevalere, per capire come devo comportarmi”.

Denunciare conviene? 

“Non denunciare certamente crea più danni e più rischi di quelli che, non denunciando, si crede di evitare”. 

La giustizia è proprio giusta? 

“Se si riferisce alla giustizia amministrata nei tribunali, quella è una giustizia umana e come tale vive anche di limiti e di errori. Quindi spesso può dare l’impressione di non essere giusta o può effettivamente non esserlo. Però se la giustizia pretende di non essere umana, ma di essere infallibile, formale, rigida, efficientista, perfezionista e insomma, in una parola, sovrumana, allora sì che potremmo avere la certezza che sarà sempre ingiusta”. 

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Ipse Dixit

“In Sicilia più salite che discese”. Gino Astorina punta sull’energia dei giovani

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Da oltre trent’anni è protagonista incontrastato della scena teatrale siciliana. La sua comicità è sempre influente e i temi che porta in scena rispecchiano la realtà di quel preciso momento. Attuale, contemporaneo, senza retorica. E senza bavaglio. Disquisendo con Gino Astorina, si tocca con mano la minuziosa sottigliezza che lo caratterizza. Da sempre.

Com’è nata la passione (poi trasformatasi in lavoro) per lo spettacolo?

“Casualmente come tutte le cose. Già in oratorio ho cominciato a muovere i primi passi (classica compagnia amatoriale della parrocchia), poi al liceo, quando ho scoperto che in classe c’erano altri “folli” che amavano il teatro come me”.

Hai pure creato un teatro che prende il nome del gruppo “Il Gatto blu”.  Ma cos’è “Il Gatto blu” e perché la scelta di questo nome?

“Il Gatto blu nasce come nome di un gruppo cabarettistico (ultimo anno poco prima del diploma, nel 1976) per poi diventare il nome della sala (Hàrpago in verità) dove ci esibiamo. Il nome è quanto di più strano poteva accaderci.  La nostra prima sala aveva bisogno di una imbiancata, la classica bella mano di colore per non far vedere i buchi e le macchie sul muro. Comprammo il colore che costava meno e durante la prima passata, notammo di avere dimenticato la latta aperta…Bene, un gatto ha pensato di macchiarsi le zampine lasciando le orme per tutto il pavimento. Invece di scoraggiarci, trovammo il nome del gruppo”.

Sei d’accordo se scrivo che il teatro, così come un campo da calcio, una palestra, una sala di incisione, deve rappresentare un punto di riferimento, soprattutto per i giovani?

“Certissimamente! Questi luoghi hanno il dovere di accogliere l’energia dei giovani affinché possano esprimersi al meglio”.

Rimanendo in tema di giovani: perché in tanti (troppi), dopo avere conseguito il diploma, scappano via dalla Sicilia?

“La risposta potrebbe essere ovvia e scontata: per mancanza di prospettive e di futuro, non ultima l’assenza di strutture che consentano di poter realizzare i propri sogni. Ma non è sempre così. A volte si ha voglia di cambiare aria, di scoprire qualcosa di diverso, ma se riusciamo a non essere provinciali si va via dalla Sicilia perché ci sono più salite che discese”

 Perché è ancora così evidente la differenza (soprattutto in ambito occupazionale) tra Nord e Sud Italia?

“Questa è una domanda dalle mille risposte e tutte plausibili. Perché conviene, per poter gestire meglio il parco voti, per avere un’area sviluppata ed una depressa è così che funziona l’economia, perché come dicevano i latini divide et impera!”

La Sicilia potrebbe vivere solo di turismo, avviando un connubio tra diretto e indotto. In pochi, però, si spendono per questo. Qual è secondo te il motivo?

“Copia ed incolla la risposta che ti ho dato prima!”

Dopo fiumi di parole, adesso c’è il via libera del governo sulla realizzazione del ponte sullo stretto di Messina. Favorevole?

“Si, purché si faccia! E non rimanga solo un progetto da rivangare o eliminare col prossimo governo”.

Per la prima volta c’è una donna alla presidenza del Consiglio dei Ministri. Qual è il tuo giudizio su Giorgia Meloni?

“Troppo poco tempo per giudicare, posso solo dire che dev’essere molto brava a difendersi dal fuoco… amico!”

Cosa provi quando la Sicilia viene etichettata solo ed esclusivamente come terra di mafia?

“Meschinità per chi fa di tutta l’erba un fascio. E’ senza dubbio un disagiato”.

Sei stato più volte a Gela per una serie di spettacoli. Cosa ti ha colpito in particolare della città e dei gelesi?

“Che rappresenta in pieno la Sicilia nel bene e nel male, nella bellezza, nella solarità, nell’indolenza, nell’attesa che qualcuno venga a risolvere i propri problemi. Nella genialità di fare di necessità virtù”.

Se tornassi indietro nel tempo, rifaresti le stesse cose in ambito professionale?

“Credo di si, non perché abbia fatto tutto bene, anzi!!! Ma non conoscendo le conseguenze…”

Cosa avresti voluto portare in scena ma per una serie di circostanze, non sei riuscito?

“Avevo programmato per i trent’anni della nostra sala, uno spettacolo di trenta ore consecutive, con l’intervento di tutti quegli amici che ci avevano onorato della loro presenza durante questi anni. Avevo già preso i contatti e le ore di esibizione… l’anniversario cadeva a marzo del 2020 (in piena pandemia)…vuol dire che festeggeremo per 35 ore!”

Chi ritieni sia stato negli anni il migliore attore teatrale siciliano e perché?

“Dovremmo fare un distinguo per epoca… Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro…  non mi sento di nominarne solo uno, è come dire del miglior giocatore al mondo parlando di Maradona senza ricordare Pelè”

Qual è il rapporto che hai con i tuoi omologhi?

“Terapeutico! Racconto delle mie ansie, delle mie fobie, perciò se il pubblico ride vuol dire che non sono solo ed in più ho risparmiato soldi dell’analista”.

Com’è nata la collaborazione cinematografica con Ficarra e Picone?

“C’eravamo conosciuti anni prima a Palermo perché facevamo una trasmissione curata da Gianni Nanfa ed Ignazio Mannelli dal nome Grand’hotel cabaret, poi loro hanno avuto l’opportunità di girare il primo film “Nati stanchi” ed io l’opportunità di interpretare un sindaco a metà tra il sognatore l’imbonitore”.

Divertente la tua interpretazione del commissario di Polizia nel film “La Matassa”. Esilaranti soprattutto le gag con Gaetano Pappalardo, nelle vesti del poliziotto tuttofare. Si percepisce che tra voi due c’è una vera e propria amicizia…

“Si, ma anche tanti anni di televisione fatta insieme. Poi, quando ci si diverte tutto viene più semplice e facile. Ed in quel film ci siamo divertiti veramente tanto”.

Nella serie “Incastrati” su Netflix, sei il dottor Tantillo, medico al servizio del boss. Sovente, le cronache raccontano che tutto ciò accade anche nella realtà. Come ti spieghi questa commistione?

“Nella vita purtroppo la realtà supera la fantasia e quando scrivi una sceneggiatura, stai attento a non esagerare per rendere credibile la storia, ma poi sei puntualmente smentito dai fatti di cronaca che superano in grottesco e di gran lunga l’inventiva”.

Con chi ti sarebbe piaciuto lavorare?

“Avrei un elenco telefonico di nomi con i quali avrei voluto lavorare, ma l’età anagrafica non me l’ha consentito. E poi chi l’ha detto che loro avrebbero voluto lavorare con me???”

Che genere musicale ascolti?

“Tutti, amo la musica in generale, però se devo rilassarmi, pensare, cominciare a scrivere qualcosa, non trovo niente di meglio che ascoltare i Beatles nella versione della London Symphony Orchestra”.

Il Catania ha stravinto il campionato di serie D. Dopo tante amarezze, adesso c’è un’alba nuova. L’effetto Pelligra ha funzionato. Sarai strafelice, credo…

E’ chiaro, spero che questo successo calcistico possa fungere da volano per un’altra promozione…”

Quale?

“Quella della mia città. Catania, in questo momento, si trova nei bassifondi di una classifica che mortifica tutti noi. E c’è poco da ridere. Anzi…”

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