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“Garantire la speranza tra i detenuti”

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L’ho conosciuto anni addietro durante un reportage sulle condizioni del carcere di contrada Balate a Gela. Mi ha colpito la sua ampia disponibilità nell’accoglienza e l’alta professionalità nel rispondere alle mie domande. Senza tentennamento alcuno,  rispettando i ruoli. Col tempo, ne ho apprezzato doti umane e professionali. Così come hanno fatto gli altri. Francesco Salemi, 47 anni, laureato in giurisprudenza, regolarmente iscritto all’Albo degli avvocati e abilitato alla professione, nella vita ha scelto di…indossare la divisa della Polizia Penitenziaria. E’ stato comandante di reparto presso il nuovo complesso penitenziario “Solliciano” di Firenze e dopo l’esperienza in Toscana, è tornato nella sua Sicilia (è originario di Acate), guidando gli agenti nella casa circondariale di Gela (dal 2012 al 2018), e successivamenti quelli in servizio a Caltanissetta e a Caltagirone. Da quattro anni a questa parte, è comandante di reparto presso la casa circondariale di Piazza Lanza, a Catania. Nel 2021, ha avuto l’incarico di supporto nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto per poi riprendere il suo originario servizio nella città etnea. 
Comandante, carceri sovraffollate ovunque. Quale potrebbe essere il rimedio per evitare tutto ciò?

“Le soluzioni sono ampiamente note a tutti i soggetti istituzionali e rientrano nell’ambito delle scelte di politica penale. Personalmente ritengo che ancora oggi ci sia una concezione della restrizione della libertà personale, quindi del carcere, come l’unica “pena vera” a fronte dei comportamenti penalmente rilevanti. Mi auguro che questa concezione possa essere superata e che nel tempo maturi la convinzione che il ricorso alle pene alternative al carcere non è solo una necessità per decongestionare gli istituti di pena, ma una scelta di modernità”.
Le carceri riescono a redimere?

“Le carceri non redimono. Il concetto di redenzione non si può utilizzare, a mio avviso, per descrivere le finalità rieducativa dell’istituzione penitenziaria. Il carcere può e deve offrire degli strumenti di “inclusione sociale”, ossia opportunità di lavoro, formazione e riflessione tali da consentire, al detenuto che ha la voglia di coglierle, una ricostruzione personale su basi diverse rispetto a quelle che lo hanno portato a delinquere. Lo sforzo della polizia penitenziaria e di tutti gli operatori del carcere è quello di promuovere un processo di revisione critica del comportamento che, tuttavia, deve essere maturato dalla persona. Un processo condizionato da fattori esterni su cui l’istituzione carceraria non può incidere. Mi riferisco alle condizioni familiari, ai legami con gli ambienti criminali di provenienza, al contesto sociale di riferimento del soggetto. Il concetto di recupero della persona deviante va oltre il fine e gli strumenti dell’istituzione carceraria: impatta sulla cultura, sulla maturità e sulla ricchezza della società”.
 Quante delle persone che hanno trascorso i loro giorni in galera, subito dopo la loro scarcerazione sono ritornate purtroppo a delinquere?

“Il tasso di recidiva è alto, troppo alto rispetto agli sforzi e alle risorse che tutti gli operatori del carcere mettono in campo quotidianamente. Sulle cause della recidiva vi è una letteratura sconfinata che non è il caso di richiamare. La mia personale convinzione è che laddove la società si dimostra pronta a riaccogliere quel soggetto che è stato in carcere, evitando la “ghettizzazione” ed offrendo occasioni di lavoro e di libertà, la recidiva diminuisce. L’andamento della recidiva segue la diversità sociale, culturale e, soprattutto, la ricchezza economica delle varie regioni d’Italia”.
 Qual è il rimedio per fare in modo che ciò non accada?

“La cultura, la conoscenza e il lavoro che costituiscono le basi della dignità della persona”.
 Quando interagisce con i carcerati, cosa le dicono in particolare?

“Un Comandante della Polizia Penitenziaria operativo nelle carceri “deve” interloquire con i detenuti, deve cercare di intercettarne i bisogni e deve agire con fermezza per prevenire comportamenti illeciti e potenzialmente dannosi per l’ordine e la sicurezza interna e l’ordine pubblico. Il Comandante deve conoscere personalmente e attraverso il lavoro dei suoi ispettori, sovrintendenti e, soprattutto agenti, la personalità del detenuto. Durante la mia carriera ho sempre rispettato questo principio ed interloquito con la popolazione detenuta ascoltando le storie dei singoli, spesso brutali, ma altrettanto spesso dense di una umanità negata. Eccezion fatta per quei soggetti, quelli di maggiore spessore criminale che oserei definire irriducibili, i detenuti comuni chiedono chiarimenti rispetto ai diritti previsti dall’Ordinamento Penitenziario, o a tematiche di convivenza, o attinenti alla vita quotidiana penitenziaria e, soprattutto, chiedono di poter svolgere un lavoro all’interno al carcere che consenta loro di sostenersi e sostenere le famiglie. Lavoro che, purtroppo, non c’è per tutti”.
 Sbagliamo quando indichiamo la quotidianità dei carcerati, una vera e propria “libertà sospesa”?

“Non si sbaglia. Condivido. I detenuti, in quanto tali, non sono liberi e dipendono in tutto e per tutto dai loro custodi. Ma tale sospensione prima o poi, anche per i condannati a “fine pena mai” a determinate condizioni, può concludersi. Rientra nella facoltà del singolo gestire al meglio, entro le regole penitenziarie, questo periodo di libertà sospesa”
Come passano le giornate i detenuti?
“Le giornate sono scandite da tempi, modalità e disposizioni previste nel Regolamento Interno vigente in ciascun istituto penitenziario della Repubblica e secondo prescrizioni di legge. In generale, negli istituti di pena, vengono attivati degli strumenti di formazione, scuola, lavoro, sostegno, che possono accompagnare il detenuto in questo periodo, da lei correttamente definito come di sospensione della libertà”. 
 Perché ha deciso di indossare la divisa della Penitenziaria?
“Da giovane studente di liceo ho urlato di rabbia alla notizia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Ho percepito quella cappa di violenza e prevaricazione che portò a quelle decine di morti ammazzati nei primi anni 90 a Gela. Ho maturato in quel momento la convinzione di intraprendere gli studi di giurisprudenza e di provare a servire lo Stato. Ho esercitato per un breve periodo la professione forese e sono entrato nella Polizia Penitenziaria perché volevo far parte di una Forza di Polizia. Oggi, dopo anni di carriera, posso di dire di avere fatto la scelta giusta perché faccio parte di un Corpo chiamato a contrastare l’illegalità e la prepotenza criminale nelle carceri e nel territorio. Un Corpo che mi onora e che io onoro con tutto me stesso”.
 Ha mai avuto paura del lavoro che svolge?
“Non sono mancati, nel corso della mia carriera, momenti di forte contrasto nei confronti di quei detenuti che intendevano affermare la propria posizione di supremazia con l’intimidazione e la sopraffazione a discapito dei più deboli, ma ho sempre svolto il mio servizio applicando la legge. Credo nei valori dello Stato ed ho sempre sentito forte la tutela della mia Istituzione. No. Non posso dire di avere avuto paura. Piuttosto ho il rammarico di non aver sempre compreso fino in fondo la vera personalità di alcuni soggetti che sono stato chiamato a custodire”. 
 Che ricordo ha dell’esperienza di Gela? 

“Un ricordo meraviglioso. Di una struttura modello, con un personale di polizia penitenziaria dalla grande esperienza e professionalità. Struttura non a caso onorata della presenza del Provveditore della Sicilia, fra tutti i penitenziari della regione in occasione della festa del Corpo del 2018. Porto dentro di me i frutti di quella esperienza: la grande sinergia tra la Polizia Penitenziaria, le Istituzioni locali, le altre Forze dell’ordine,  Magistratura, un Direttore capace di valorizzare la struttura ed il territorio”.

Ci sono delle differenze tra il carcere di Gela e quello di Piazza Lanza in cui attualmente presta servizio?
“La differenza è data dalla struttura, dalle dimensioni, dai numeri e dalla complessità territoriale. La Casa Circondariale di Catania Piazza Lanza riceve il 25% circa degli arrestati della Sicilia, insiste in pieno centro cittadino, è una struttura storica, del 1910, ma esempio di virtuosa ristrutturazione. Ma al pari del carcere di Gela ho trovato un reparto di Polizia Penitenziaria eccezionale, operatori dalla grandissima professionalità e conoscenza, un terzo settore estremamente attivo ed un Direttore di grandissimo spessore ed illuminazione. Posso dire, con non poco orgoglio, di avere avuto la fortuna, nel corso della mia carriera, passando dalla Toscana alla Sicilia e svolgendo disparati incarichi per l’Amministrazione Penitenziaria, di lavorare con delle eccellenze”. 

Abbiamo visto e letto ultimamente di fatti di cronaca che hanno interessato il corpo della Polizia Penitenziaria. Il riferimento è alla violenza perpetrata da agenti – secondo quanto sostiene la magistratura – ai danni dei detenuti a Santa Maria Capua Vetere. Qualcuno l’ha definita una vera mattanza. Qual è il suo pensiero?
“Non posso esprimermi su fatti per i quali vi è ancora un processo in corso. Osservo solamente che il motto del Corpo è: “despondere spem munus nostrum” ossia “garantire la speranza è il nostro dovere”, ed altresì che nel nostro Paese, patria del diritto, esiste un sistema di garanzie costituzionali a tutela di tutti i cittadini, anche detenuti. La Polizia Penitenziaria è un Corpo sano, bisogna avere fiducia nelle Istituzioni e nella loro capacità di resilienza”. 
 Come avete gestito (e fate ancora) l’emergenza Covid tra i detenuti?

“Vi sono dei protocolli firmati tra le Direzioni degli istituti e le Asp di riferimento (la medicina penitenziaria, infatti, dipende dall’Azienda Sanitaria del territorio) che disciplinano le modalità di ricezione degli arrestati e, in generale, dei nuovi giunti nelle strutture nonché le procedure di “quarantena” dei casi positivi e dei loro contatti. I nuovi per alcuni giorni, a seconda dello stato di salute nonché vaccinale, vengono messi in stanza singola in domiciliazione fiduciaria e, solo dopo tampone negativo, molecolare o rapido, acquisito il nulla osta sanitario, vengono avviati a vita in comune nelle sezioni ordinarie. Gli eventuali casi positivi gestibili in istituto – asintomatici o paucisintomatici- vengono associati in una sezione a ciò dedicata all’interno della quale, tutto il personale, di polizia penitenziaria e operatori sanitari, presta servizio con i dispositivi di protezione individuale integrale. Ciò fino alla loro negativizzazione allorquando, acquisito il nulla osta sanitario,  vengono riportati a vita in comune. Nel tempo, inoltre, sono stati acquistati ed installati dei sanificatori degli ambienti e le singole stanze detentive sono oggetto di sanificazione periodica ed alla bisogna. Di certo non sono mancati i momenti di criticità e di tensione, specie nel primo periodo dell’emergenza quando abbiamo dovuto adottare una serie di misure rigidissime per limitare l’ingresso del virus in carcere – la sospensione dei colloqui in presenza ne rappresenta quella più eclatante – struttura chiusa per eccellenza, tuttavia, il mio reparto ha saputo arginare e gestire al meglio gli eventi in sinergia con i sanitari dell’Asp di Catania. Il reparto ha dimostrato con senso di responsabilità, professionalità ed umanità attraverso una costante opera di informazione e persuasione nei confronti della popolazione detenuta che ha sempre avuto contezza delle motivazioni delle misure”. 
 D’accordo con l’ergastolo ostativo?
“Si. L’articolo 4bis e l’articolo 41bis sono i capisaldi del contrasto alla criminalità organizzata sul versante penitenziario e, come già hanno detto uomini dello Stato ben più autorevoli di me, non vi è dubbio che ancora oggi siamo chiamati a gestire soggetti strutturati per i quali solo la collaborazione con la giustizia può essere considerata la prova della cesura dei legami con l’organizzazione d’appartenenza. Sono sicuro che il legislatore, come già avvenuto in passato, riuscirà a trovare il giusto equilibrio per garantire l’efficacia dell’impianto normativo oggi esistente e le indicazioni della Corte Costituzionale”. 

 Sono altissimi i suicidi e i tentativi nelle carceri italiane, così come è alto il numero di atti di autolesionismo. Come fronteggiare quest’allarmante sequela?
“Potrei risponderle con la creazione del carcere che vorremmo! Quello in cui funziona tutto: manutenzione della struttura rapida ed efficace, condutture e rifornimenti d’acqua efficienti, cucine moderne, riscaldamenti, tempi di risposta rapidi alle esigenze personali dei detenuti, più lavoro, più formazione, più poliziotti in numero e qualifiche adeguate, più educatori, più psicologi, più mediatori culturali, più operatori del terzo settore! In realtà non sempre è così. Il carcere resta un luogo di sofferenza. Un luogo pieno di difficoltà che amplificano il disagio dei soggetti più fragili. Ed allora la risposta è: con gli strumenti che abbiamo. Parlo di professionalità, conoscenza e senso di umanità. Con la reale presa in carico dei soggetti fragili da parte di tutti gli operatori del carcere tra i quali un ruolo preponderante è quello della Polizia Penitenziaria che osserva 24 ore su 24 i detenuti e grazie alla quale possiamo parlare, nella maggior parte dei casi, di “tentativi” e non di tragici fatti consumati”.

Parlavamo di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti. Non mancano – purtroppo – anche aggressioni agli agenti. Più volte il sindacato ha fatto la voce grossa, chiedendo interventi immediati e risolutivi al Dap sulle disfunzioni e sugli inconvenienti che si riflettono sulla sicurezza e sulla operatività delle carceri siciliane e del personale di polizia penitenziaria che vi lavora con professionalità, abnegazione e umanità nonostante una significativa carenza di organico…
“Purtroppo il fenomeno delle aggressioni è presente ed, a mio avviso, è ampliato, da un lato, dalle grandi difficoltà gestionali collegate alla pandemia, dall’altro, dalla elevata presenza di soggetti con problematiche psichiatriche, che limitano gli interventi di sicurezza e le scelte dell’organizzazione. I sindacati fanno la loro parte in quanto elementi fondamentali, per stimolo e critica, a volte anche aspra, dell’amministrazione e ci aiutano, ad intercettare un certo malessere del personale. Per questo li ringrazio. In linea generale il personale di polizia penitenziaria conosce le regole d’ingaggio ed è ben addestrato ma, purtroppo, la carenza di organico e l’esiguo numero di professionisti del trattamento, cui l’amministrazione sta cercando di far fronte con nuove assunzioni, allo stato attuale, rappresentano una grossa criticità. Di certo esistono alcuni aspetti di sistema che si possono affrontare in via amministrativa: penso ad esempio alla rimodulazione dei rapporti dei detenuti con le loro famiglie in un’ottica di premialità o, relativamente al personale di polizia penitenziaria,  all’attivazione di alcune specializzazioni e ad una formazione specifica per i soggetti psichiatrici. Ciascuno di noi, ai vari livelli dell’amministrazione,  è in campo su questo fronte”. 

Non soltanto fatti di cronaca ma – ce lo auguriamo – anche aneddoti. Ce ne può raccontare qualcuno?
“Le racconto due aneddoti che, a mio avviso, possono far riflettere su cosa fa il carcere e su cosa fanno la società e le relazioni umane. Il primo è quello di un giovane finito in carcere per reati legati a sostanze stupefacenti ma con una storia dietro di famiglia emarginata, servizi sociali, abbandono scolastico, carcere minorile. Quando lo conobbi, poco più che ventenne, era ancora analfabeta ed in perenne conflitto con tutti gli operatori, specie i poliziotti. Abbiamo capito che l’unico trattamento per lui era quello di mandarlo a frequentare la scuola elementare interna al carcere, cosa che abbiamo fatto con non poche difficoltà. Praticamente all’epoca l’abbiamo quasi adottato! Dopo qualche mese, questo giovane incominciò a leggere e a scrivere e dopo un anno partecipò addirittura, grazie a dei volontari, ad un corso di scrittura creativo componendo una poesia per la mamma che venne pubblicata in un libretto poi dato alle stampe. In seguito, è uscito dal carcere e mi auguro che oggi sia stato capace di rompere con il passato. Il secondo riguarda un altro giovane entrato per reati contro la persona, collaterale ad una delle organizzazioni criminali che ammorbano il nostro territorio. Qualche tempo dopo il suo ingresso seppe dai suoi familiari che la sua fidanzata, di una famiglia dignitosa, era in gravidanza. Da quel momento assistemmo ad un cambiamento di questo detenuto evidente. Smise i suoi comportamenti oppositivi, accettò tutte le offerte che il carcere poteva dargli (formazione, scuola e una borsa lavoro),  cambiò anche fisicamente rilassando lo sguardo ed imparando a relazionarsi correttamente. Uscì dopo un anno circa ma non gli andò bene. Fu coinvolto in un fatto di sangue e rientrò in carcere. Quando lo rividi, di nuovo con quello sguardo cattivo, intimidatorio, negazionista ed oppositivo, gli chiesi: “come sta la sua compagna e suo figlio?” Mi rispose: “non lo so. Comandante, quando sono uscito dal carcere dovevo trovare la pace ed invece non ho trovato nulla. La mia compagna e mio figlio mi hanno lasciato”. Queste storie sono comuni alla maggior parte dei detenuti. Poi ci sono gli irriducibili. Quelli dell’ergastolo ostativo”
Cosa c’è dietro le sbarre? 
“Un mondo parallelo, in cui metà della popolazione dipende in tutto e per tutto dall’altra metà. Un mondo in cui si osservano tutte le caratteristiche dell’animo umano: da quelli peggiori, mi riferisco a quei soggetti strutturati, incapaci di proiettarsi al di fuori dell’ambiente criminale da cui provengono, al soggetto psichiatrico, che ad un certo punto la società si stanca di gestire e manda in carcere. Un mondo in cui coesistono fermezza, rigidità e controllo, ma anche opportunità e responsabilizzazione”. 

 Voltaire diceva che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”….E’ proprio così? 
“È così se intendiamo che il carcere rispecchia la società. In realtà la civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di garantire opportunità di lavoro e di cultura, dalla capacità di creare e distribuire ricchezza al maggior numero di persone, dalla capacità di non lasciare nessuno indietro, anche i detenuti. Purtroppo, c’è ancora tanta strada da fare”. 

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“Bisogna continuare a lavorare nelle scuole per veicolare e diffondere la cultura della legalità”

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Desidero sapere, come premessa iniziale, se cortesemente preferisce essere chiamata Questore o Questora?

“Pur essendo una forte sostenitrice del rispetto dei generi, tuttavia, ci sono degli incarichi che non hanno bisogno di essere declinati al femminile, anche per un fatto di orecchiabilità. Signora Questore mi piace di più”.

Pinuccia Albertina Agnello, il prossimo 15 maggio, compirà un anno alla guida della Questura di Caltanissetta. Nata a Scordia, graziosa cittadina in provincia di Catania, circondata da agrumeti e uliveti, il Dirigente Superiore della Polizia di Stato si è laureata con lode in Scienze Politiche nel 1986 e in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni nel 2007 presso l’Università degli Studi di Catania. Ha sempre avuto una vocazione per la legalità e per la giustizia. 

Quale bilancio traccia a quasi un anno dal suo insediamento alla Questura nissena?

“Un bilancio positivo in termini di rimodulazione del controllo del territorio a cura delle pattuglie preposte sia nel Capoluogo che nei territori di competenza dei Commissariati distaccati di Gela e Niscemi col costante supporto delle pattuglie del Reparto Prevenzione Crimine di Palermo o di Catania, messe a disposizione dal Servizio Controllo del Territorio di Roma; progetti di realizzazione di adeguati spazi per uffici deputati alla ricezione pubblico; istituzione di presidi di polizia presso i Pronto Soccorso di Caltanissetta, Gela e Niscemi; organizzazione di seminari formativi per tutto il personale della Polizia di Stato, allargati alle altre forze di polizia, su temi importanti quali il Codice rosso, il disagio psico sociale ed altro ancora.  Nel bilancio positivo ci tengo a inserire il consolidato ottimale rapporto interistituzionale che intercorre con la locale Prefettura, con i comandi delle altre forze di polizia e con altri importanti enti istituzionali operanti sul territorio della provincia”.

La pianta organica della Polizia nel Nisseno è sufficiente o bisognerebbe incrementarla?

“Dopo il lungo blocco del cosiddetto turn over a causa della legge di stabilità che aveva anche impedito di indire concorsi per l’assunzione di giovani leve per i ruoli degli agenti e degli ispettori, da qualche anno la ripresa dei concorsi pubblici ha cominciato a dare linfa vitale agli uffici di polizia. Non abbiamo ancora del tutto coperto le previste piante organiche ma siamo a buon punto. Peraltro, ogni 6 mesi, in coincidenza con la fine dei corsi di formazione per agenti della polizia di stato e all’incirca ogni 12/18 mesi, in coincidenza con la fine dei corsi di formazione per vice ispettori, il Dipartimento della pubblica sicurezza prevede il potenziamento costante di personale anche per la Questura di Caltanissetta”.

Quali sono i reati più diffusi in provincia e dove e come bisogna intervenire?

“Quella di Caltanissetta è una provincia vasta con una concentrazione urbanistica variegata e per niente   uniforme rispetto al territorio complessivo. Anche i fenomeni criminosi hanno questo aspetto disgregato, concentrandosi di più in alcune zone rispetto ad altre. L’attenzione degli uffici investigativi è dedicata alle zone dove ancora insistono storiche famiglie mafiose (sia quelle vicine alla Stidda che quelle facenti capo a Cosa Nostra) che purtroppo sono dedite al traffico di sostanze stupefacenti. Tuttavia, si dedica molta attenzione agli aspetti di prevenzione dei reati attraverso il pedissequo controllo del territorio, sia con i servizi ordinari che con la predisposizione di servizi straordinari, alcune volte interforze sulla base di intese raggiunte in sede di Riunioni tecniche di coordinamento presiedute dal Prefetto”.

Più volte è stato rimarcato che bisogna segnalare ogni fatto delinquenziale di cui si è vittima. Il vostro appello è stato recepito dal cittadino?

“Bisogna continuare a lavorare nelle scuole o attraverso i mass media per veicolare e diffondere la cultura della legalità, intesa anche nei termini di una sicurezza partecipata che passa anche attraverso le segnalazioni del cittadino. In questo ambito, buoni risultati si stanno ottenendo attraverso la conoscenza dell’utilizzo dell’App YouPol, sulla quale l’utente gratuitamente anche in forma anonima può denunciare dei fatti di cui è venuto a conoscenza ovvero chiedere aiuto”.

In provincia di Caltanissetta, sono presenti quattro mandamenti mafiosi. Tanti sono stati negli anni gli arresti e le successive condanne.  Si sbaglia quando si pensa che le “famiglie” e i loro intrecci siano stati definitivamente debellati?

“Tantissimo è stato fatto dalla Polizia di Stato e dalle altre forze di polizia preposte alle attività di polizia giudiziaria già a partire dai primi anni ’90 nel territorio della provincia avverso le organizzazioni mafiose ma non bisogna demordere o allentare le attenzioni investigative. La mafia sa come adeguarsi alle nuove economie ovvero al tessuto socio-economico del territorio su cui punta i propri illeciti interessi; pertanto, è importante che si continui a studiare l’evoluzione del fenomeno e affrontarlo di conseguenza”.

Per decenni, all’ingresso della città, abbiamo letto il cartello “Gela città videosorvegliata”. Nei fatti non è stato mai così.  Poche settimane addietro, in Commissariato, avete presentato l’impianto di videosorveglianza, immediatamente attivo. Cosa prevede il nuovo (e finora unico) occhio del grande fratello?

“Il Prefetto, proprio in occasione della presentazione del nuovo sistema di videosorveglianza cittadina non ha avuto alcuna remora a sottolineare quel paradosso ma ha anche rimarcato l’importanza di guardare oltre e andare avanti per il bene della società pulita della città di Gela. Come autorità di pubblica sicurezza tecnico operativa della provincia, posso aggiungere che si tratta di un sistema di videosorveglianza di alti livelli che consentirà alle forze di polizia e alla magistratura di perfezionare la ricerca e quindi la raccolta di prove oggettive di reati da perseguire”.

Ci sono le condizioni per riavere a Gela un’associazione antiracket dopo la cancellazione di quella precedente?

“Perché no? Siamo pronti a collaborare il Prefetto, nell’ambito della sua specifica competenza, a valutare l’attendibilità delle richieste e l’aderenza ai criteri previsti dalla normativa vigente”.

Inchieste hanno permesso di sgominare a Gela numerosi soggetti dediti alla detenzione e allo spaccio di sostanze stupefacenti. Nonostante tutto, il flusso della droga è in continuo aumento. Come mai?

“Tutto dipende purtroppo dalla elevata domanda e, come una qualsiasi legge di mercato, l’offerta va di pari passo alla domanda…Ecco perché è importante lavorare a 360 gradi in rete tutti gli attori istituzionali, ognuno per la parte di specifica competenza, al fine di consentire alle giovani generazioni di crescere in un ambiente sano, non degradato, culturalmente alto, con buone occasioni di impiego facendo di tutto per non indurli a entrare nella macchina infernale della dipendenza”.

Perché tanti ragazzini, soprattutto nelle piccole realtà della provincia, abbandonano gli studi?

“In certo qual modo, la risposta che le ho dato prima fornisce una chiave di lettura adeguata a quello che mi sta chiedendo. La povertà culturale di una società si ripercuote soprattutto sui giovani. Le istituzioni preposte ai controlli della frequenza scolastica non possono mollare la presa perché la dispersione scolastica è già la punta di un iceberg che non lascia intravedere nulla di buono”.

Lasciando la scuola e non trovando lavoro, non sono facilmente appetibili dalla malavita?

“Sono sicuramente più a rischio, anche perché la malavita attira con la falsa illusione del facile guadagno che darebbe la possibilità di ostentare una qualità della vita basata soltanto sulle cose materiali, prive di valori e fondamenti etici e morali”.

Troppi femminicidi in Italia, le cronache sono all’ordine del giorno. Nonostante le giornate di sensibilizzazione e di approfondimento sul tema della violenza di genere, si continua ad uccidere. Perché tanta violenza?

“Da qualche tempo, mi sembra di leggere un bollettino di guerra che dovrebbe sconvolgere tutti e che dovrebbe indurre la società sana a reagire con un “no…basta”. Tanto si sta facendo nelle scuole, così come all’interno dei nostri ranghi per una formazione quanto più adeguata ad affrontare situazioni che lasciano intravedere il pericolo della violenza di genere. Tuttavia, bisogna puntare sulla informazione/formazione dei giovani, sin dalle scuole primarie, degli insegnanti e dei genitori. Infatti, tra gli incontri calendarizzati dalla Questura con l’Ufficio provinciale scolastico ne sono previsti alcuni specifici con gli insegnanti e con i genitori. Quello che diciamo sempre ai ragazzi è di non nascondere il disagio e di confidarsi con un genitore, con un/a amico/a, con un insegnante per farsi aiutare ad uscire allo scoperto davanti a qualificate figure professionali (psicologi, avvocati dei centri antiviolenza, poliziotti) per affrontare la delicata situazione in tempo utile”.  

Il Questore Agnello, è entrata nel ruolo dei Commissari della Polizia di Stato nel 1987 dopo aver vinto il concorso per Vice Commissari.  Dall’agosto del 1988 al gennaio del 1990 ha rivestito l’incarico di funzionario addetto presso la Squadra Mobile della Questura di Agrigento, coordinando le Squadre Volanti, mentre da marzo a luglio dello stesso anno, è stata reggente del Commissariato di Palma di Montechiaro, ricoprendo la carica di dirigente dall’agosto del 1990 al luglio del 1992.

Lei ha rivestito diversi ruoli che hanno impreziosito il suo bagaglio personale per le parecchie esperienze professionali in diverse comunità in cui ha operato. Quale città le ha lasciato un ricordo indelebile e perché?

“La città che mi ha lasciato più ricordi indelebili sia da un punto di vista professionale che personale è stata senz’altro Palma di Montechiaro. Da giovanissima Commissario Capo, ho diretto il Commissariato in un periodo terribile per la guerra apertasi tra Cosa Nostra e Stidda che mieteva ogni anno decine di vittime. Avevo un gruppo di poliziotti giovani come me con i quali facemmo squadra, compatti, uniti, forti della responsabilità che avevamo di perseguire i criminali ma allo stesso tempo di restituire alla cittadinanza sana una adeguata percezione della sicurezza. Sono stati due anni e mezzo di sacrifici, sotto tanti punti di vista ma alla fine, collaborando anche la Squadra Mobile di Agrigento, arrivammo a concludere una operazione di polizia (denominata Gattopardo) che è rimasta tra gli annali della polizia giudiziaria di quella provincia e non solo, ma, soprattutto, avevamo riportato la gente di Palma ad avere fiducia nelle istituzioni e a riprendersi spazi cittadini, come il centro storico e le piazze, che per anni avevano visto il coprifuoco a partire dalle prime ore del pomeriggio. Personalmente, mi ha arricchito il rapporto che instaurammo con i ragazzi del locale liceo, con un coraggioso Comitato spontaneo di cittadini che chiedevano sicurezza dicendo basta alla mafia e soprattutto il riconoscimento della gente comune che ci fermava anche per strada per chiederci qualunque tipo di informazioni. Ricordo che davanti alle perplessità dei miei agenti a tale ultimo proposito, dicevo che mai avrebbero dovuto rispondere di non esserne competenti ma di attivarsi comunque per indirizzare chiunque ne avesse avuto bisogno”.

Nel luglio del 1992, mese terribile per la strage di via D’Amelio a Palermo, è entrata a far parte della Direzione Investigativa Antimafia di Roma dove ha ricoperto l’incarico di funzionario addetto del Reparto Relazioni Internazionali, con compiti di coordinamento di unità organiche anche all’estero.

Come giudica quell’esperienza che l’ha portata a lavorare anche fuori dall’Italia?

“Straordinaria. Avevo partecipato a quel concorso interno forte dell’esperienza maturata tra Squadra Mobile di Agrigento prima e Commissariato di Polizia di Palma Montechiaro dopo e perché determinata a contribuire alla causa, secondo i criteri condivisi dal Dipartimento della Ps con il giudice Giovanni Falcone. Fui chiamata a Roma subito dopo le stragi del 1992 e ancora di più capii che quella era la mia strada, almeno per qualche anno. Rifarei tutto, anche se per parecchi anni mi allontanai dalla mia famiglia (che ha sempre condiviso e rispettato le mie scelte) e dai sentimenti; tuttavia, ero troppo entusiasta di condividere quel nuovo modo di fare investigazioni, a fianco di qualificati funzionari e ufficiali provenienti da tutti i reparti del territorio nazionale”.

Nel suo vasto curriculum, la dottoressa Agnello ha diretto la Sezione Operativa della Dia di Agrigento. Portano la sua firma, svariate e delicate operazioni di Polizia Giudiziaria eseguite sia sul territorio agrigentino che all’estero. Ha lasciato la sua impronta anche alla Questura di Catania e in quella di Ragusa. E non solo.

 “Sono stata la vice Dirigente del Compartimento della Polizia Ferroviaria per la Calabria tra il 2006 e parte del 2010. Erano anni in cui col Servizio Polizia Ferroviaria di Roma si studiavano nuovi moduli operativi, sia per evitare la devastazione dei treni che puntualmente avveniva durante le trasferte dei tifosi ultras delle squadre di calcio sia per garantire più sicurezza nelle stazioni ferroviari e sui treni. L’impegno è stato notevole ma anche la soddisfazione di riuscire ad applicare nuovi metodi di approccio con i tifosi e con l’utenza non è stata da meno. Quello è stato un periodo in cui mi sono confrontata spesso con la gestione dell’ordine pubblico in concorso con la Questura di Reggio Calabria ed è stata un’esperienza di certo concreta e utile per il prosieguo del mio percorso di carriera, specialmente quando ho ricoperto l’incarico di Vicario del Questore di Siracusa”.

Cosa porta dentro di sé della permanenza in Sardegna dove ha diretto il Compartimento della Polizia Stradale?

“La Sardegna è una terra magica che ti ammalia e quando la lasci senti che ti manca. E’ stato un periodo intenso di lavoro e di conoscenze su tutto il territorio dell’isola; la competente Direzione Centrale mi aveva affidato il compito di intensificare la presenza della Polizia Stradale su quel territorio, curando anche i rapporti con le Questure e con le Prefetture. Ho trovato dei validissimi collaboratori che mi hanno sostenuta e consentito di raggiungere gli obiettivi prefissati”.

Divaghiamo un attimo: quando ha la possibilità, che musica ascolta?

“Sono un’appassionata di musica lirica (adoro Tosca e la Cavalleria Rusticana) ma ascolto molto volentieri la musica leggera e pop. Continuo ad ascoltare alcuni tra i più grandi cantautori italiani, quali Pino Daniele, Lucio Dalla e Fabrizio De Andrè”.

Qual è il complimento più bello che ha ricevuto in ambito lavorativo?

“Più che di un complimento vero e proprio, si è trattato di un grazie particolarmente sentito da parte di una madre per aver trattato con professionalità e trasporto umano il delicato caso di una figlia vessata dal convivente”.

Cosa vuole dire al personale della polizia che opera in provincia di Caltanissetta?

“Direi loro un grazie senza fine per il lavoro costante e spesso sacrificante che svolgono al servizio dei cittadini, qualche volte in condizioni non del tutto favorevoli. E chiederei loro di ringraziare le proprie famiglie per il sostegno morale e materiale che garantiscono e che consente loro di lavorare più serenamente per portare avanti la nostra importante mission: servire il cittadino e farlo sentire al sicuro”.

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“Negli ultimi 5 anni a Gela non ha funzionato nulla. A breve avremo il candidato sindaco”

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Lo ha rimarcato più volte, lontano dai classici tatticismi, alchimie, giochi di prestigio: entro oggi, tutti i gruppi che hanno un candidato a sindaco devono presentare il nome e da domani un gruppo ristretto composto da un loro rappresentante esaminerà le varie candidature e farà sintesi su chi può garantire governabilità e può fare da bilancia alla coalizione.

L’onorevole Nuccio Di Paola, sta cercando di tessere la tela nell’ambito del progetto politico che vede insieme (attualmente) il Movimento 5 stelle, il Partito Democratico, i movimenti civici, Sud chiama Nord e le forze moderate. E’ stato investito di un ruolo importante al fine di chiudere i giochi in vista delle prossime amministrative a Gela. Un vero e proprio moderatore.

“Siamo a buon punto. Miriamo a trovare la sintesi tra tutti gli attori che hanno preso parte agli incontri”.

Lei ha in mente un candidato che possa ambire a ricoprire il ruolo di sindaco?

“Si, mi sono fatto un’idea e penso che non sia solo mia. Immagino un candidato che sia garante di tutta la coalizione. Prima viene la squadra e naturalmente verrà il nome del candidato. Il noi viene prima dell’io”.

Come mai (almeno fino ad oggi) non ha pensato lei a candidarsi direttamente?

“Vicepresidente vicario dell’Ars, coordinatore regionale del Movimento 5 Stelle, referente territoriale per la provincia di Caltanissetta, deputato, papà e marito penso di essere già apposto così. In ogni caso starò sempre accanto a Gela e ai gelesi…”

Anche se fisicamente non sempre presente a Gela, impegnato giornalmente a Palermo e in giro per la Sicilia, lei segue (attraverso i suoi fedelissimi consiglieri) l’evolversi della politica locale. In una sola domanda: cosa non le è piaciuto dei cinque anni di amministrazione Greco?

“Basta camminare per la città e parlare con i cittadini per rendersi conto di tutto quello che non ha funzionato in questi 5 anni”.

Il dissesto finanziario del Comune – dicono gli attuali amministratori della giunta – è figlio di un percorso pregresso. Se andiamo indietro nel tempo, il penultimo sindaco è stato (fino ad un certo punto) uno dei vostri. Dunque e’ colpa (anche) di Domenico Messinese e della sua squadra di governo di cui lei ha fatto parte, se si è arrivati a questo punto?

“No! Sono stato in giunta per 6 mesi, e sono stato buttato fuori perché in contrasto con quell’amministrazione. Il sindaco è andato avanti per altri due anni e mezzo, poi con tutto il consiglio comunale lo abbiamo sfiduciato”.

Ah proposito di Domenico Messinese: come sono i vostri rapporti, dopo l’esclusione dal Movimento 5 stelle?

“Non abbiamo rapporti. Le pochissime volte che ci vediamo le nostre interlocuzioni sono cordiali”.

Lei è componente della commissione regionale bilancio. Analizzando il settore di cui si occupa, nel dettaglio cosa è stato fatto per Gela?

“Da componente della commissione bilancio ad ogni finanziaria Gela e tutta la provincia che rappresento sono al centro dei miei emendamenti. Una delle mie ultime proposte che è stata accolta nella finanziaria 2024 è quella di vedere riconosciuto ai comuni di Gela, Butera e Licata le compensazioni per il progetto Argo-Cassiopea. Parliamo di cifre notevoli, nell’ordine di 20 milioni di euro l’anno garantiti alle casse comunali”.

Lei è vicepresidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, assieme alla collega Luisa Lantieri di Forza Italia. Il presidente Gaetano Galvagno è espressione di Fratelli d’Italia. In tanti (troppi) si chiedono come riuscite a dialogare, considerato che siete agli antipodi su tutto in ambito strettamente politico?

“Politicamente è vero siamo agli antipodi ma prima di qualsiasi ruolo o appartenenza politica siamo siciliani, coetanei innamorati profondamente della nostra terra e per il bene dell’istituzione che rappresentiamo, cerchiamo sempre un punto di incontro nel rispetto delle diversità di ognuno”.

Si profilavano agli orizzonti accordi con Pd e Sud chiama Nord in vista delle Europee. E’ saltato tutto?

“Nessun accordo coi partiti alle prossime elezioni Europee e liste aperte solo a personaggi di spicco della società civile. Il MS5 camminerà sulle proprie gambe, col contributo di ottimi apporti dalla società civile e in questo senso ci stiamo muovendo. A stretto giro comunicheremo anche le modalità per le candidature. Per quanto riguarda le amministrative, il simbolo del Movimento non sarà presente in tutti i Comuni, ma solo dove esiste un gruppo fortemente radicato con un serio e credibile progetto a supporto. Il simbolo va tutelato e non può essere concesso a cuor leggero anche a chi, magari, spera di raccattare qualche consenso confidando esclusivamente sul voto d’opinione”.

Facciamo un passo indietro: lei alle ultime regionali, si è candidato alla presidenza della Regione. I risultati però hanno premiato Renato Schifani, espressione del centro destra. Non ha mai pensato (anche per un attimo) che fosse una partita persa in partenza, considerato che aveva solo il suo movimento ad appoggiarla?

“Assolutamente no. Come M5S Sicilia abbiamo fatto il massimo per dare ai siciliani un‘alternativa al governo fallimentare di destra. Peccato solo aver avuto poco tempo per la campagna elettorale per veicolare ai siciliani la nostra visione di Sicilia”.

Ritenterà la corsa alla presidenza della Regione?

“È stata un’esperienza meravigliosa. Se i siciliani lo vorranno, sarò sempre a disposizione”.

C’è un punto (almeno uno), in cui come Movimento 5 stelle siete d’accordo con i lavori portati avanti dal governatore?

“Aspettiamo ancora che agli annunci seguano i fatti. Nessuna riforma è stata portata in aula. Siamo orgogliosamente alternativi a questa destra che sta deludendo in primis i siciliani che l’hanno votata”.

Quando ha saputo che Giancarlo Cancelleri, storico grillino, vi ha lasciati per approdare in Forza Italia, cosa ha provato?

“Ognuno fa le sue scelte e si assume le proprie responsabilità”.

L’asse Palermo – Roma con le interlocuzioni con i senatori gelesi Damante e Lorefice, funziona?

“Assolutamente sì. Si lavora da squadra, facendo il massimo per la nostra Sicilia e la nostra Gela”.

E’ sempre contrario alla realizzazione del ponte sullo stretto?

“Ritengo che ci siano altre priorità. Come si può parlare di ponte se l’acqua delle dighe finisce a mare, se basta la pioggia per rendere le strade impraticabili, se viaggiare in treno è impossibile per molti territori, se la sanità pubblica ha notevoli carenze…”

Gli ultimi sondaggi nazionali, evidenziano un crollo del Movimento. Siete distanti oltre 10 punti da Fratelli d’Italia. Come legge questi dati e da dove bisogna ripartire?

“Io non vedo nessun crollo del M5S, vedo invece tanti italiani prima illusi ed adesso delusi da questa destra di sola propaganda. Meloni e Salvini stanno saccheggiando il Sud e la Sicilia. Noi del M5S siamo orgogliosamente opposizione a questa visione di società divisa per caste. Per fortuna sono tantissimi i cittadini che ci vedono come ultimo baluardo alla malapolitca che a livello nazionale ha azzerato il welfare e che con l’autonomia differenziata, che rischia di affossare definitivamente il Meridione, oggi ha raggiunto l’apice, senza dimenticare altre vergogne dell’agenda Meloni come la legge bavaglio. Non è certo migliore l’agenda Schifani, i cui riflettori sono puntati più che sui bisogni dei cittadini, su norme vergognose come la salva ineleggibili, la sanatoria delle ville abusive o sull’incommentabile spartizione della sanità, mentre ospedali e pronto soccorso esplodono, i medici scappano verso il privato e le liste d’attesa risultano cancellate solo sulla carta”.

Perché ha scelto di fare politica?

“Mi è sempre piaciuto essere parte attiva della società. Ai tempi dell’università mi sono avvicinato alla politica per poi nel 2010 iscrivermi al blog di Beppe Grillo: da lì è cominciato tutto”.

Perché ha deciso di sposare proprio il progetto del Movimento 5 stelle?

“Perché tutte le altre forze politiche si erano staccate dal Paese reale, dai bisogni dei cittadini preferendo le logiche del palazzo. C’era bisogno di una forza politica fatta da cittadini e non professionisti della politica che rimettesse al centro del dibattito battaglie fondamentali come la legalità, la giustizia sociale, la tutela dell’ambiente, della salute e dell’istruzione pubblica e la lotta agli sprechi. Battaglie in cui mi riconosco, portate avanti dal M5S che quindi ha rappresentato la mia scelta naturale”.

Cosa non rifarebbe di tutto ciò che ha fatto in politica?

“Rifarei tutto!”

Il suo sogno?

“Dare una nuova speranza ai siciliani con un governo regionale a 5 stelle”.

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Ipse Dixit

Giovanni Cacioppo, la risata gelese al cinema e in teatro

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Il suo ultimo spettacolo, “Che rimanga tra Noi”, continua a riscuotere successo in un vortice di risate, frutto dei migliori monologhi proposti da una carriera trentennale che lo ha portato ai vertici della comicità italiana. Quando è sul palco, si rivolge direttamente al pubblico, come se si trovasse al bar con degli amici, instaurando un rapporto quasi confidenziale, senza alcun filtro, privo di qualsiasi barriera. Il “nostro” Giovanni Cacioppo è fatto così. Diplomato geometra, ha subito puntato l’orizzonte al cabaret. E ha fatto centro.

“Ufficialmente ho cominciato trent’anni fa allo Spaghetti house ma in realtà credo di avere cominciato molto prima. Mi è sempre piaciuto fare ridere la gente, portare allegria. Lo facevo già a scuola e nelle scampagnate; poi un giorno ho deciso di farlo sul serio ed eccoci qua”.

C’è un attore che ha profondamente influenzato la tua professione?

“Il comico che mi ha ispirato e che mi ispira tutt’ora è Massimo Troisi, insuperabile nella sua visione della vita”.

Per coloro i quali si affacciano al mondo del cabaret, quale consiglio dai?

“Sappiate che è un lavoro difficilissimo e non ci sono garanzie di risultato”.

Nei tuoi monologhi, spesso e volentieri risalti le differenze che insistono tra Nord e Sud. Come mai?

“È un una chiave che usiamo in parecchi, sono due mondi distanti ed è bello metterli a confronto”.

Il pubblico ha cominciato a conoscerti nel 1994, quando, a Bologna, partecipasti al concorso “Zanzara d’oro”, arrivando al secondo posto. Puntavi al trofeo più ambito?

“Alla Zanzara d’oro partecipai per caso dopo avere letto un annuncio su un giornale. Arrivai secondo su cinquecento partecipanti…potevo già sentirmi un miracolato, ma non mi bastò”.

Cosa ha rappresentato il monologo comico “Acqua e seltz” che hai portato in teatro?

“Acqua e seltz è stato il mio primo monologo, era un collage di tanti pezzi, da testa di cane al videocitofono al motorino”.

Giovanni Cacioppo in teatro ha portato numerosi spettacoli: L’uovo e la patata, In nomine patris, Io labora ed il monologo Aprite quella porta (per piacere).  Con Paolo Rossi ha partecipato allo spettacolo Romeo & Juliet – una serata di delirio organizzato.  Come tutti gli attori, è stato indispensabile lo spazio televisivo. Lo ricordiamo a “Tivù cumprà”, “Solletico”, “Scatafascio”, “Torno sabato”, “Mai dire lunedì”, “Che tempo che fa”, “Colorado Cafè”, “Fratelli e sorelle d’Italia”, “Made in Sud”, “Only Fun”. 

“La Tv è fondamentale per farsi conoscere. Fino a qualche anno fa era la via di comunicazione migliore, adesso sta per essere soppiantata dal web!”

Cosa ti ha colpito delle tue frequenti partecipazioni al Maurizio Costanzo Show?

“Maurizio Costanzo negli anni 90 era la migliore vetrina della televisione. Un passaggio al teatro Parioli era una consacrazione”.

Delle tue innumerevoli presenze televisive, quale ti ha lasciato un ricordo indelebile e perché?

“Zelig mi ha dato la popolarità; Mai dire martedì è il programma dove mi sono divertito di più”.

Come sono nati i personaggi Graziello e il viaggiatore-cittadino Cacioppo?

“Per caso, osservando la gente”.

A distanza di anni, suscita ancora emozione avere vinto nel 2009 il Delfino d’oro alla carriera al festival nazionale adriatica cabaret?

“Premi come il Delfino d’oro ne ho vinti molti ed anche più prestigiosi. Ogni volta è stata una bella emozione che conservo nei miei ricordi”.

Giovanni ha esordito sul grande schermo recitando in “Così è la vita” del 1998, film diretto da Massimo Venier e dal trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo. Chi non ricorda la scena in cui, lungo una strada deserta dell’Abruzzo Aquilano,  la moglie in auto sta per partorire e lui chiede disperatamente aiuto. Un anno dopo ha preso parte al film diretto da Massimo Ceccherini,  “Lucignolo”, e nel 2000, è stato scelto per interpretare un ruolo nella pellicola diretta da Giorgio Panariello dal titolo “Al momento giusto”. Nel 2002 è tornato a collaborare con il trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo interpretando “Schiena di legno” nel film “La leggenda di Al, John e Jack”.  Tre anni più tardi, entra nel cast di “Tutti all’attacco”, il film diretto da Lorenzo Vignolo. Ha preso parte anche ai film “All’ultima spiaggia” di Gianluca Ansanelli, “Non c’è più religione” di Luca Miniero e “Una festa esagerata” di Vincenzo Salemme. Straordinaria la sua esibizione nel ruolo di don Pasquale. Lo abbiamo visto anche nei film “Come se non ci fosse un domani” diretto da Igor Biddau, “Sbagliando s’impara” per la regia di Alessandro Ingrà e “Ancora volano le farfalle” di Joseph Nenci. Ha lavorato alla sit-com “Taglia e Cuci” in coppia con il Mago Forest, per il canale satellitare Fox della piattaforma pay-tv Sky.

Com’è nata la tua collaborazione con Aldo, Giovanni e Giacomo?

“Con Aldo, Giovanni e Giacomo c’è un’amicizia oramai trentennale. La prima volta che salii sul palco di Zelig in viale Monza lo feci dopo un loro spettacolo”.

Ultimamente, durante un’intervista televisiva (divenuta virale) sei stato scambiato per Aldo Baglio. Come mai non hai segnalato subito l’errore ed invece hai assecondato chi ti poneva le domande?

“Ho cercato di non mettere in imbarazzo la giornalista ma è stato peggio…”

Parlavamo di collaborazioni. Cosa ti hanno lasciato quelle con Massimo Ceccherini, Giorgio Panariello e Vincenzo Salemme?

“Essere chiamato a partecipare ad un film ogni volta è stata una gratificazione ed un riconoscimento, specialmente quando vieni chiamato da altri comici. E’ una sensazione bellissima, gratificante”.

Quali dei personaggi che hai interpretato al cinema, è stato quello che più ti ha coinvolto?

“Cerco di interpretare qualsiasi ruolo al meglio delle mie capacità”.

Se tornassi indietro nel tempo, quale invece non rifaresti e perché?

“Rifarei tutto. Senza ombra di dubbio!”

Come trascorri le tue giornate?

“Ho parecchi hobby. A volte dipingo o costruisco oggetti, riparo qualcosa oppure scrivo nuove idee. Sono sempre impegnato”

Vivi solo di teatro e cinema?

“Vivo solo di spettacolo”.

Cosa ti aspetti dal 2024?

“Dall’anno nuovo non mi aspetto niente di eccezionale, mi basta solo continuare a fare questo lavoro bellissimo”.

Quando hai occasione, ritorni a Gela. Come l’hai trovata ultimamente?

“Gela si evolve con coerenza con i suoi pregi e difetti”.

Perché tanti gelesi sono costretti a fare le valigie? 

“Per turismo…” La risposta è una gag esilarante. 

Credi in una rinascita (sotto molteplici aspetti) di una città che sembra amorfa? 

“Per rinascere bisogna prima morire”.

Qual è il consiglio che ti senti di dare a chi amministra la cosa pubblica a Gela?

“Trattate tutti i cittadini come se fossero parenti”.

Quando con i colleghi parli della tua città, cosa dici?

“Non parlo della mia città, non ho motivo”.

Quando torni a Gela, cosa non deve mancare sulla tua tavola?

“U capuliatu!”

Il tuo personale augurio ai gelesi per il nuovo anno?

“Stringete i denti e non so se basta”.

La risposta è fulminea ma nasconde troppe verità. Amare ma assolutamente reali. E c’è poco da ridere.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
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