La Divina Commedia secondo Don Procopio e pensata dalla coppia letteraria Zappulla-Muscarà

Pubblicata a puntate sul "D'Artagnan", La Divina Commedia di don Procopio Ballaccheri di Nino Martoglio è la gustosa parodia dell'Inferno dantesco (Canti I -XXI) e, ancor più, di Catania e dei catanes...

A cura di Redazione Redazione
26 dicembre 2021 11:26
La Divina Commedia secondo Don Procopio e pensata dalla coppia letteraria Zappulla-Muscarà -
Condividi

Pubblicata a puntate sul "D'Artagnan", La Divina Commedia di don Procopio Ballaccheri di Nino Martoglio è la gustosa parodia dell'Inferno dantesco (Canti I -XXI) e, ancor più, di Catania e dei catanesi, in un dialetto sempre in fermento, aperto, mobile, creativo, tra pastiche linguistici, doppi sensi, calembour, funambolismi. Una "Commedia a rovescio", quella di don Procopio, soltanto in apparenza innocua, in realtà una denuncia, talora fortemente graffiante, della prosopopea di tanti letterati, o aspiranti tali, della corruzione politica, amministrativa, ecclesiastica, sociale, della Catania a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento (che gli procurò non pochi duelli), di singolare attualità, e insieme una briosa opera d'invenzione.

A rimetterlo in circolo la coppia letteraria Zappulla -Muscaà . E' appena approdato in libreria, per i tipi dell’editore Maimone, il volume “La Divina Commedia di don Procopio Ballaccheri”. Inferno (Canti I – XXI), a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, ai quali si devono fondamentali studi sui nostri maggiori autori da Verga, De Roberto, Capuana a Pirandello, Martoglio, Patti, e sul teatro siciliano tra Otto e Novecento da Giovanni Grasso a Turi Ferro.

Alla sua Commedia presepiana Il figlio di Iorio Eduardo Scarpetta ha apposto il sottotitolo di Parodia. Vale a dire quel genere letterario che, modificando l’indole, il tono, il carattere, il fine, lo spirito animatore dell’opera originaria e rendendola così ridicola e buffonesca, sostituisce al pathos tragico la vis comica.

       Dal greco paröidìa, che “imita un canto”, travestimento caricaturale, pastiche linguistico di un’opera letteraria, la parodia ripropone elementi del modello testuale che riutilizza, stravolgendoli o portandoli all’assurdo o provocando “lo scoronamento dell’eroe” (Michail M. Bactin). Se la contraffazione è copia letterale, la parodia è trasformazione ingegnosa, creativa. D’altra parte, come osserva Guido da Verona, “non v’è grande opera d’arte la quale non proietti da sé, come un’ombra, la propria caricatura. Più perfetta è quest’opera più facile parodiarla”. Né le parodie debbono o possono scandalizzare giacché, stavolta con Gletto Arrighi, “non si fanno parafrasi né parodie che delle opere e degli autori insigni, Omero, Virgilio, Dante”.

     Ma la parodia di Martoglio, La Divina Commedia di don Procopio Ballaccheri (o il Ballacchieri notabeli della Civita), non portata a termine, apparsa a puntate sul “D’Artagnan” dal 3 settembre 1899 al 9 novembre 1900, è sì la parodia dell’Inferno dantesco ma ancor più, per sua stessa dichiarazione, di Catania e dei catanesi, del poeta Giacomo Patti in primo luogo.  Don Procopio Ballaccheri (lo Duca), lo stesso Martoglio, è qui Dante, il Merro (il Trabante, il cantore, il maestro e guida), il poeta Giacomo Patti, è Virgilio, Cicca Stonchiti (“il sol sbampante”) è Beatrice. Ma il protagonista è don Procopio Ballaccheri che, nel “D’Artagnan”, è stato “quel che poi Oronzo E. Marginati nel ‘Travaso delle idee’; e il Lucatelli lo riconosceva e lo dichiarava; e il Martoglio ne era orgoglioso” (Luigi Pirandello).

        Grande la disinvoltura di don Procopio per nulla intimorito dall’ardua impresa di misurarsi, seppur per gioco, col sommo Poeta nell’uso della terzina dantesca con versi endecasillabi e rima alternata. Gli basta un dialetto sempre in fermento, aperto, mobile, creativo, criteri segnici cangianti, instabilità grafica e lessicale senza posa, ambiguità etimologiche, alternanze, oscillazioni, incongruenze, contaminazioni, pastiche, allusioni, irriverenze, doppi sensi, calembour, funambolismi, parole o sintagmi del tutto privi di senso.

   Fra i personaggi illustri vittime degli strali di don Procopio, scrittori e giornalisti: Mario Rapisardi, “il pueta mundiali”, “omo tanto artero che re del Pindo fuce e del Parnaso tenne in disdegno sempri il mundo intero”, Peppi Burrello, maestro che gli insegnò “come l’uom s’eterna”, Tino Perrotta, poeta e commediografo, “che senti le peccati delle genti e li distina con pinsata dotta”,  il Cervantes del “D’Artagnan”, qui Minosse, Giuseppe Romero, “poeta sagristano”, Robertino Biscari, redattore-capo de “Le Grazie”, Peppi Fazio, commediografo, “ch’ha il prorito di fari il dibetato”, Paolo Arrabito, giornalista Excelsiò, Cosimo Sgroi, “cronista e supercritico teatrale”, Saro Sciuto, “quello che si ’nfurcò nel pier del letto scrittori e giornalista conosciuto”, Pippo Marchese, commediografo; musicisti: Cicco Paolo Frontini, “sommo”, Nino Borzì, “banda Bellini con le trancasse ed i piatti soi”; politici: Giuseppe De Felice Giuffrida, “il quali si trova in tutti gli scarroni, pirchì avi morti vizi”, “che cci prisagisce una mala praneta di doversini scappari di Catania,  ed altri oggette”, Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, “Sangioliano so’ Eccillenza che di Catania fice spenni e spanne”, Gigi Macchi, avvocato, socialista, Giuseppe Carnazza Puglisi, sindaco di Catania, Pepè Bonajuto, “che per esseri precipitoso nei suoi vogli, volendoci fare la rifardezza al Coverno, appi la sua malanova”, Pasquale Moncada, “lo dio dei malantrini Pasqual Muncada di Fenicia antica, chi ha fatto assai fracasse e assai roini”, Mario Bonajuto Scuto, “cavaliere”, “il magestrato primo di quel paise di simenza”, “che un tempo vosi fare lo ’ndemina menture dei tramiti elettriche e smammò il dio dei papalate, come si vitte in secoto”, “questo fu quello sindaco dei tramme che troppo vosi fare il pitolante”, Antonino Dall’Oglio, “gran prifetto ranni” di Catania, Pietro De Logu, “il gran”, rettore dell’Università di Catania, Giorgio Arcoleo, giurista, politico, letterato di Caltagirone, Luigi Landolina, “gran baroni Lannolino”, sindaco di Catania, Giuseppe Rosso di Cerami, barone, Giuseppe Zappalà Asmundo, “sautampizze”, “barone fui di un vecchio baronato ed in mia vita feci assai prodizze benché più sicco del Signore Asciato”, Giovanni Auteri Berretta, avvocato e politico, “che ognor si munce l’occhie di pianto chine e ognora sferra”; il cardinale Giuseppe Francica Nava, “archimandrita”.

     Frutto di una propensione alle burle dei siciliani, dell’area orientale in particolare, il gusto di Martoglio delle distorsioni caricaturali, degli esperimenti bislacchi, delle divertite contraffazioni. Di lui sul “D’Artagnan”, a firma dell’Amministratore (di fatto, come per i tanti pseudonimi, lo stesso Martoglio), leggiamo: “Il valoroso moschettiere, come tutti sanno, ha il motto: castigat ridendo mores; e difatti ha sempre castigato i mori ridendo. Il turco catanese informi”. 

    Una “Commedia a rovescio”, quella di don Procopio, soltanto in apparenza innocua, in realtà una denuncia, talora fortemente graffiante, della prosopopea di tanti letterati, o aspiranti tali, della corruzione politica, amministrativa, ecclesiastica, sociale, della Catania a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento (che gli procurò non pochi duelli), di singolare attualità, e insieme una briosa opera d’invenzione.

Prefazione

Un giorno, avendo appurato che un certo signor Dante, fabbricante di pelle omonima, aveva scritto un libro soprannominato Divina Commedia e per mezzo di questo libro s’aveva acquistato una certa lomina, mi presi di impegno e muto giubbo feci la mia Commedia che arrisortò più migliore assai della sua.

Aventocela fatto leggeri al direttori del Tartagnan, ci piacìo tanto che fui in costretto di darcela per stamparla nel suo confratello — prima pagina.

Però, siccomi in questa mia Commedia si montuvono dei personi comi si forono morte e inveci sono vive e potendoci esseri un piccolo odore di bastonati, io sin da ora dichiaro che non voglio assumeri corrisponsabelità, quindi, se qualchedunu si sentirebbi offeso è pregato di bastonari solamenti detto direttori — io non mi ci intrico.

In quanto ai versi, se il lettori nni trova quarcheduno con uno o due peri mancanti, mi non s’abbarrùa, che appresso nni troverà altri con parecchie piedi di più. Quindi compenza.

E non dico altro.

don Procopio il Ballacchieri

notabili della Civita.

Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla

Il libro verrà presentato a Gela prossimamente

Segui