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Ipse Dixit

Tringali, il cronista-detective in cerca della verità

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Apartitico dal 1999 dopo una lunga esperienza maturata nel Partito Comunista e in Rifondazione, di cui è stato segretario di sezione a Comiso. Si dichiara attivista pacifista e nel suo tempo libero, matita e fogli in mano, si dedica interamente alla realizzazione di vignette. Lui è Emilio Tringali, 55 anni, vittoriese di nascita e residente a Pozzallo. Appassionato di cronaca nera e giudiziaria (un cronista -detective) ha scritto un libro, il cui titolo è un ossimoro vero e proprio: “Sbirromafia”. Il sottotitolo è ancora più marcato, diretto, esplicito e non lascia spazio a nessun equivoco: “La mafia delle mafie, la fine di Emmanello e il sistema Montante”. 

Chi è lo “sbirro mafioso”?

“È un funzionario pubblico venduto, traditore del giuramento di fedeltà allo Stato, che agisce in favore del “sistema”. E per “sistema” intendo il gruppo di potere dominante occulto del momento, la “casta”, che comprende lobby industriali, mafie, politica, massonerie”. 

Nel libro si fa riferimento a fatti e personaggi che orbitano nelle province di Ragusa e Caltanissetta. Si tratta di terre di trincee?

“Sono “luoghi del destino”. Centrali dei prototipi nazionali dei “sistemi”. Non manca nulla qui, “oro nero” ed “oro verde”, presidii militari fondamentali, traffici di ogni genere (narcotici, umani, d’armi)”.

Tra le pagine del tuo manoscritto, definisci Antonello Montante, ex potente leader degli industriali in Sicilia e sotto processo in Appello per corruzione, criminalmente magistrale nello svuotare il fronte antimafia. In che senso?

“Montante ha abilmente costruito il suo personaggio pubblico e lo ha imposto alla politica e alle istituzioni, modulando la strategia, fino ad arrivare a tenere tutti in pugno attraverso il dossieraggio, con relativo ricatto verso tutti. L’antimafia è la sua vittima più eccellente. Vedere don Luigi Ciotti di Libera, difenderlo allo spasimo malgrado le evidenti prove oggettive (registrazioni audio, decine di testimonianze), lascia basiti. Persino lo scrittore Andrea Camilleri si prestò, inventando bugie congeniali al “paladino della legalità” cavalier Calogero Antonello Montante”.

Cosa vuoi dire quando scrivi che Cosa Nostra comincia a penetrare in politica e si fa progressivamente istituzione a se stessa, avendo un rapporto diretto con le masse popolari?

“Il rapporto tra Democrazia Cristiana e “Cosa nostra” è verità processuale e storica. La mafia, agevolata dalla politica, è stata protagonista della ricostruzione post-bellica e portatrice, quindi, di lavoro e di sviluppo. In breve, il popolo capì che era più efficiente dello Stato”.

Definisci la “Stidda” ripresa e rimodernata con vaga ambizione di patriottismo campanilistico. Sarebbe?

“La criminalità comune entrò a contatto con elementi di “Cosa nostra”, arrivati dalle metropoli siciliane per provvedimenti di obbligo di dimora, scontrandosi sugli interessi che questi nuovi “forestieri” cominciavano ad erodere al territorio, prima esclusivo per gli autoctoni (pascoli, commercio, racket …). Per galvanizzarsi, i delinquenti locali si riunirono sotto un antico cartello pseudomafioso, la “Stidda”, originata nei territori dell’agrigentino e nel nisseno tra i pastori. Simbolo di adesione e appartenenza, un tatuaggio sulla base del pollice, cinque semplici puntini disposti a stella”.

Quali sono le differenze tra Cosa Nostra e Stidda?

“Abissali. “Cosa nostra” è strutturata da un suo codice articolato e disciplinata da procedure che passano per una catena di comando. Entra in crisi solo a seguito del capolavoro giudiziale che fu il “maxi processo”, ma ne sopravvive per la capacità di rigenerarsi attraverso l’uso delle stesse istituzioni e della grande finanza (sistema Montante, ad esempio). Il periodo “corleonese” non deve trarre in inganno. Per cui, a differenza della “Stidda”, “Cosa nostra” rappresenta un’entità onnipresente nella storia moderna italiana ed internazionale. La “Stidda” è un tentativo di rivendicazione territoriale da parte di giovani criminali ambiziosi che, brutalmente, vogliono avere un ruolo autonomo riconosciuto da Cosa nostra”.

Quando scrivi di imprenditorie pulite, a cosa ti riferisci in particolare?

“Quelle funzionali al “sistema” che vengono acquisite o affiliate. Lavatrici, stipendifici, coperture. Montante è un artista nel dipingere aziende complici come “vittime della mafia”, che per questo ottengono benefit vari e le “patenti della legalità” emesse dalle prefetture (white list). Il metodo mafioso più comune per insinuarsi nelle aziende, pulite ma in difficoltà (spesso causate ad arte), consiste nel soccorrerle economicamente, al momento, ed indurle a cedere le quote o rami d’azienda a nuove società costituite al bisogno,  mandarle al fallimento dopo aver trasferito beni, personale e clientela. Per questo, un esercito di commercialisti e ragionieri ha sostituito parte di quello dei “picciotti” con la 7 e 65”.

Sostieni che la Stidda è un utile capro espiatorio, mediatico poligono repressivo della potenza statale. La definisci una formula vincente di propaganda della distrazione, argomento di campagne elettorali antimafia retoriche… 

“Lo afferma anche Attilio Bolzoni in una sua audizione presso la Commissione parlamentare antimafia nazionale. Appositamente, la stampa blasonata del “sistema”, giornalisti e scrittori, esaltano le gesta della “Stidda” per coprire la delicata fase di metamorfosi di “Cosa nostra” che diventa, con Montante, partner di Confindustria. Così, piccoli criminali legati alla “Stidda” vengono elevati a “boss mafiosi”. Il tutto per dare, alla pubblica opinione, la sensazione di continuità della lotta alla mafia e la necessità di mantenere tutto l’apparato elefantiaco della gestione dei beni sequestrati. Beni che, come sappiamo, finiscono spesso in mano alle solite associazioni oppure, velatamente, a “Cosa nostra”. La realtà è che Brusca esce libero, ricco e i giudici Falcone e Borsellino giacciono da decenni sottoterra. Chi ha vinto? La Sbirromafia”.

Daniele Emmanuello, rimasto ucciso il 3 dicembre del 2007 durante un conflitto a fuoco con la Polizia che lo aveva scovato nell’Ennese, dopo anni di latitanza, lo descrivi come indisciplinabile ed irredimibile e disfarsi di lui è di vitale importanza…Disfarsi sembra eccessivo, non credi?

“Ho cercato di immaginare l’uomo, ma per i fatti miei, senza che ciò influenzasse la parte di “Sbirromafia” che lo riguarda. Mi è venuta in mente, invece, un’altra persona, Claudio Motta, una delle vittime della strage di San Basilio del 2 gennaio 1999 avvenuta a Vittoria. Claudio lo “beccai” anni fa mentre rubava un utensile esposto al pubblico durante la Fiera Emaia, dove io ero responsabile di questa esposizione. Lo raggiunsi, mi ripresi l’oggetto e lo rimproverai amorevolmente. Gli offrii del denaro per fargli capire che chiedere è più produttivo di rubare. Rifiutò il denaro. Mi spiegò che per lui era importante rientrare con la refurtiva e dimostrare così di essere stato lui a rubare. Altrimenti, a mani vuote, avrebbe preso le legnate. Viveva, cioè, una condizione di schiavitù. Ed era adolescente, a quei tempi. Non dimentichiamoci mai che è anche il contesto a creare il delinquente. Daniele Emmanuello era il nipote di Angelo “furmiculuni”. Accusato di tante malefatte (anche del sequestro del piccolo Di Matteo, poi assolto), di certo è colpevole di sola associazione mafiosa, unica condanna definitiva. Sicuramente ha carisma. Per certe mentalità mafiose, gli fa onore l’aver vendicato lo zio. Emmanuello ha rapporti con ‘Piddu” Madonia. È, cioè, un’interfaccia tra “Stidda” e “Cosa nostra”. Tiene duro perché rappresenta un mito. Eliminarlo ha un valore simbolico. Alla sua morte, da un lato Crocetta festeggia la “liberazione” di Gela, dall’altro “Cosa nostra” si libera di una gran rogna … e, da entrambi, la “Sbirromafia” accontenta due clienti”.

Insisto. Perché ritieni che la vicenda della morte di Emmanuello, sia stata blindata per zittire ogni perplessità sul nascere, glissando su valutazioni tecniche e peritali d’indagine?

“Le circostanze della morte di Daniele Emmanuello restano oscure. La dinamica inverosimile. Angelo Ruoppolo, il cronista di Teleacras, lo intuisce subito. Il fatto è stato ricostruito per l’opinione pubblica. Piero Grasso e Francesco Forgione assicurano “piena luce”. Resteranno, invece, zitti zitti. La moglie della vittima non nomina un perito di parte per l’autopsia, che viene svolta dal solito accreditato. Il procuratore di Caltanissetta, Renato Di Natale apre un fascicolo contro ignoti di cui nessuno segue l’epilogo. Ammesso che ci sia. Chi sparò? Chi condusse realmente il blitz? Chi vide nella “folta nebbia” il latitante fuggire (tutti e 30 o uno solo)? Come fece a centrarlo in testa, a distanza, al buio e con la nebbia? Emmanuello percorre di corsa 37,5 metri (dalla finestra al burrone) e nel frattempo ingoia 6 pizzini come se fossero piccoli semini di sesamo (o respiri o inghiotti)? Non serve essere il “Tenente Colombo” per capire che le cose non quadrano, di brutto! Tutti tacciono … soprattutto Emmanuello!”

Sostieni che a molti non interessa il come sia morto Emmanuello, importa solo che sia morto, eliminando un “mostro”. Cosa ti spinge a sostenere questa tesi?

“Da vergognarsi. Esponenti della società civile che commentano “meglio lui che un agente!”. Emmanuello sarà stato un mostro? Non lo so. Certo meno di Giovanni Brusca, pluriassassino attualmente libero e ricco cittadino. Ora, la campagna elettorale di Crocetta parte dalla decisione di Montante. È un pezzo della sua strategia. Per cui, la sconfitta del clan di Emmanuello proclama il sindaco di Gela a “eroe del no pizzo”. La vecchia Democrazia Cristiana, ora Udc, lo appoggia. Il “San Giorgio” che sconfigge il drago, il “mostro mafioso” incarnato da Daniele Emmanuello. In più, la cacciata della moglie da un posto di lavoro precario al comune, ad infierire. E tutti inebriati della vittoria, pompata da media e pezzi da 90. Luci blu intermittenti e sirene, coreografie e spettacolo. La passerella antimafia”.

Avere trovato nell’esofago e nello stomaco di Emmanuello dei pizzini, non è però una “leggenda metropolitana”, non credi?

“I “pizzini” sono il fondamento delle operazioni successive. Ho forti dubbi. Mi piacerebbe che tutte queste prove fossero fruibili ed esaminabili, come il fascicolo sull’omicidio. Però la legge lo vieta, a meno che non si è parte nei procedimenti giudiziari specifici. Ma questo è paradossale! Il giudice emette le sentenze in nome del popolo italiano però il popolo italiano non può vedere cosa ha determinato le sentenze a suo nome. Sapremo mai la verità?”

Daniele Emmanuello è stato indicato dalla magistratura e dalle cronache giudiziarie come un boss. Anche numerosi pentiti hanno parlato di lui. Non stiamo parlando del classico ruba galline…

 “Senza dubbio, Daniele Emmanuello ha un ruolo di spessore nella storia criminale della Sicilia. È certo, come già accennato, il suo rapporto con “Piddu” Madonia. Però i fatti raccontati da “pentiti”, cronisti, giornalisti e scrittori d’inchiesta spesso risultano alterati da superficialità o condizionamenti. Io non condanno, io non assolvo. Mi limito ad analizzare i fatti basandomi su sentenze, rapporti e cronaca. Dal confronto di essi cerco di ricavare una logica, liberamente, con onestà intellettuale e senza padroni o linee editoriali imposte. Non è un caso che mi manca l’editore e ho auto-pubblicato “Sbirromafia” sulla piattaforma “Amazon”. Il giornalismo non è solo un mestiere, è una missione sociale indispensabile per tutti”.

Come ritieni la condanna in primo grado a Montante (14 anni per associazione finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico)?  

“Onestamente, non ho letto le 1.350 pagine della sentenza del giudice Luparello. Io, a priori, darei già l’ergastolo per alto tradimento a chi ha passato le informazioni a Montante attraverso l’accesso ai sistemi informatici dei servizi segreti. Si badi bene, si tratta dei vertici. Spaventoso! Degli 007 al servizio di “Re Montante”. Se solo penso che ci tenevano sotto controllo telefoni ed email … Vorrei che la gente comprendesse che hanno utilizzato e falsificato dati e documenti anche per rovinare gli avversari di Montante, gente perbene e innocenti. È lo scandalo più eclatante degli ultimi decenni ed anche il più taciuto”.

La politica si nutre della mafia o è l’esatto contrario?

“Non sono entità omogenee, specie la politica, e spesso coincidono. Gli stereotipi sono artefatti giornalistici di comodo. Entrambe hanno a che fare con un potere monolitico più forte, dentro le istituzioni, quello che io chiamo “la Sbirromafia”. Questa agisce su tutti i territori, su tutti i fronti, in tutti gli ambiti. Ad esempio c’è il “caso Boda”, la dirigente del ministero dell’istruzione, che lo scorso aprile si gettò dalla finestra del suo avvocato: contiene prove di aderenze al “sistema”. Nell’ambiente, sapevamo già l’anno precedente dei collegamenti ed era nelle cose la sua imputazione per reati con cifre esorbitanti. Un’inchiesta che sto riprendendo, interrotta dalla scomparsa di un mio carissimo ed esperto collaboratore”.

Come si combatte la mafia? 

“Con gente capace. Lo può fare chiunque lo senta come un dovere civico. Il mio motto è “la polizia siamo tutti”. Si fa leggendo negli albi pretori dei comuni e confrontando i costi delle forniture con quelli sostenuti da altri comuni virtuosi. Identificando chi compra più di una casa all’asta. Con la richiesta di ispezioni ministeriali. Insieme, crescendo, entrando in politica per batterci i pugni dentro. La politica è la chiave. Con il controllo delle infrastrutture; con il ripristino della legge elettorale costituzionale e del finanziamento pubblico ai partiti, soprattutto. Con l’agire di ciascun cittadino da pubblico ufficiale. La lotta alle mafie è un dono ai futuri cittadini, ai bimbi di oggi. Possiamo davvero costruire una nuova società basata sulla dignità umana, sul piacere della conoscenza e della cultura, sulla bellezza in tutte le sue forme, artistiche e naturali. Vinceremo, prima o poi. Non si scappa”.

Tringali ha dedicato la sua opera letteraria al ragusano Giovanni Spampinato, giovane corrispondente da Ragusa per l’Ora di Palermo e l’Unità. Aveva 25 anni, quando fu assassinato con 6 colpi di pistola sparati da due pistole. Pagò con la vita perché aveva semplicemente cercato la verità. 

“Fin dalla scuola primaria, andrebbe insegnata la logica e la ricerca della verità; così come l’ipocrisia, per dare la possibilità di conoscerla e decidere se viverci o combatterla”. 

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Ipse Dixit

Il sinistro fatato del goleador Alma, “rispetto per i tifosi gelesi”

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Custodisco gelosamente la sua maglietta, regalo della permanenza al Gela Calcio. Quei colori biancazzurri,  Giuliano Alma, 31 anni il prossimo 27 luglio, non potrà mai dimenticarli. Attaccante esterno, nato a Niscemi, la casacca gelese l’ha indossata per cinque stagioni di seguito, dal 2014 al 2019, tra campionati di Promozione, Eccellenza e serie D. 104 presenze e 40 gol.

“A  Gela sono cresciuto tanto sia come giocatore che come uomo – si affretta a dire -. Un’esperienza positiva e formativa sotto tutti gli aspetti “.

Con chi in quel periodo hai legato di più?

“Con diversi miei compagni. Sicuramente i vari Bonaffini, Evola, Cuomo, Brugaletta, Bonanno…Con tutti è rimasto un ottimo rapporto anche se ci sentiamo sporadicamente”

Il tuo rapporto con i tifosi gelesi?

“Direi molto buono anche se quando sono andato via, purtroppo, c’è stato qualche screzio. Avviene dappertutto,  quasi nella normalità. Personalmente ho sempre rispettato la tifoseria del Gela e continuerò a farlo”.

Col Siracusa, quest’anno, Giuliano Alma si è piazzato al primo posto nella classifica dei cannonieri con 17 gol, tanti quanti ne ha realizzati il compagno di squadra Domenico Maggio. Tutto ciò non è bastato, però, a vincere il campionato di serie D.

“Ci è mancato essere perfetti per arrivare primi. Chi lo ha fatto praticamente lo è stato. Siamo stati ugualmente fantastici perché realizzare 84 punti non è da tutti”

Troppo forte il Trapani o meno forti le altre, Siracusa compreso?

“Con 84 punti conquistati, non posso considerare il Siracusa inferiore a nessuno ma il Trapani evidentemente ha fatto meglio di noi ed è giusto che lo abbia vinto”.

La carriera di Alma comincia nella stagione 2011-12 con l’Aquila Caltagirone in Eccellenza, con cui gioca 17 partite realizzando 7 gol. Poi il trasferimento a Ragusa in serie D (44 incontri in due campionati e solo due gol) e il successivo passaggio alla Pro Favara in Eccellenza, prima di approdare a Gela. Ha giocato anche con il Mantova, la Turris (coi corallini anche un’esperienza in C), la Caratese e il Lamezia. Il suo nome – adesso – gira parecchio. Ci sono tanti club che sono interessati a lui.

“Per adesso mi godo le vacanze e appena ci sarà qualcosa di concreto deciderò…”

Ti piacerebbe rimanere al Siracusa?

“Devo ancora valutare dove sarà il mio futuro…”

Qual è il gol più bello che hai realizzato in questa stagione?

“Sicuramente quello contro il Licata. Un sinistro da fuori area sotto il sette. Si si, rivedendolo confermo che è stato un bel gol”.

E quello che non potrai mai dimenticare?

“Il mio primo gol tra i professionisti con la maglia della Turris. Giocavamo a Teramo ed ero reduce da una frattura alla gamba. Ho attraversato un periodo da incubo, quel gol è stata una liberazione. Ai fini del risultato, però, non è bastato perché perdemmo 2-1”.

Il miglior allenatore che hai avuto?

“Emilio Longo alla Caratese. Un maestro di vita, una persona perbene…Un grande tecnico”.

Il miglior presidente?

“In assoluto il compianto Angelo Tuccio. In tutto quello che faceva ci metteva passione, amore. Non ci ha mai fatto mancare nulla. E’ stato un padre…”

Qual è la tua squadra del cuore?

“Il Milan”.

Il tuo idolo?

“Andriy Shevchenko. E’ stato un attaccante completo, come pochi”.

Cosa adori fare durante la giornata?

“Amo ascoltare musica…ed allenarmi”.

Che genere di musica?

“Soprattutto hip hop e Rhythm and blues americano”.

Cosa detesti?

“Lavare i piatti dopo avere mangiato. Non lo sopporto proprio…”

Il viaggio che ancora non sei riuscito a fare?

“Spero di visitare la California. Non voglio perdermi le bellezze di San Francisco, Hollywood, Los Angeles…”

Hai un portafortuna?

“No”.

Cosa ti piace leggere?

“Mi piacciono i libri formativi  che aiutano ad arricchire la persona”

Se non avessi fatto il giocatore, cosa avresti voluto fare?

“Sicuramente il deejay, amo la musica in ogni sua forma”.

L’Italia è stata eliminata dall’Europeo. Qual è il tuo commento sulla disfatta azzurra?

“C’è tanta rabbia e tanto rammarico. Siamo l’Italia e non possiamo fare queste bruttissime figure. Purtroppo ad oggi viene soppresso parecchio il talento, si pensa più a far diventare un aspirante calciatore,  un semplice atleta con doti fisiche e poca qualità e fantasia. Bisogna puntare sui vivai, valorizzare i giovani che hanno qualità e non confinarli in limiti tattici”.

Chi vincerà l’Europeo?

“Credo che per rosa, qualità ed esperienza europea la Francia sia la più attrezzata, ma occhio alla Germania”

Se un giorno dovesse arrivare una chiamata per indossare nuovamente la maglia del Gela, cosa risponderesti?

“Perché no, nel calcio mai dire mai…”

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Ipse Dixit

Il genio delle colonne sonore si racconta, “comporre è la mia vita”

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Ci siamo emozionati ascoltando la sua colonna sonora nel film “Mascaria”, trasmesso ultimamente su Rai 1. Una brillante espansione armonica che ha reso la pellicola di Isabella Leoni, un vero e proprio capolavoro. Quando gli elementi probanti si intrecciano tra loro, il riscontro del pubblico assieme ad un’attenta riflessione su quello che la vicenda racconta, sono garantiti: una storia di cronaca vera (quella del suicida Riccardo Greco, l’imprenditore edile gelese vessato dalla mafia e abbandonato dalle istituzioni); un cast di attori d’eccezione (Fabrizio Ferracane e Manuela Ventura su tutti) e quell’intreccio musicale al punto giusto, quando le scene lo richiedevano. Non è necessario argomentare: bisogna solo vedere ed ascoltare. Quelle melodie struggenti sono arrivate dritte al cuore.

Artefice di tutto questo è il catanese Santi Pulvirenti, 51 anni. Custode di una laurea in Fisica della Materia conseguita all’Università di Catania con il massimo dei voti (e lode) ha al suo attivo numerose realizzazioni di colonne sonore. E non solo.

Quando hai capito che era giunto il momento di dedicarti interamente alla musica?

“Il mio percorso musicale è cominciato da ragazzino. Ricordo che sopra l’armadio di casa mia, c’era una chitarra tutta impolverata. E’ stato subito amore. Un amore che si è evoluto in studio in tantissime esperienze, con tanti gruppi musicali della città, della provincia. La passione è cresciuta giorno dopo giorno. Avevo un sogno: suonare sui grandi palchi, davanti a tanta gente. E quel sogno si è concretizzato. Il vero salto in ambito musicale l’ho fatto quando ho cominciato a collaborare con Carmen Consoli. Un’esperienza sia umana che artistica, assolutamente fondamentale nel mio percorso. E lì ho veramente cominciato a percepire la possibilità che potesse diventare un lavoro a tempo pieno con cui vivere, da cui avere soddisfazioni, su cui investire tempo, energie, idee, cuore. C’è stato un momento in cui ho dovuto decidere tra due amori: la scienza e la musica.  Ha prevalso quella che aveva il fuoco dentro e così ho continuato a coltivare l’arte che mi ha portato anche a scrivere le colonne sonore per il cinema e per la Tv”

Dicevamo di Carmen Consoli con cui hai realizzato numerosi brani (Mediamente isterica, Stato di necessità, In bianco e nero, L’eccezione, Eva contro Eva, Elettra)…

“Collaborando con lei, ho cominciato a percepire la musica come un lavoro: concreto e reale. Carmen rappresenta tanto. Insomma una parte importante della mia vita, sotto tutti i punti di vista. E’ un’amica storica, abbiamo condiviso tantissime esperienze con numerosi tour in Italia e all’estero, siamo stati tantissimi anni insieme. Poi ci conoscevamo fin dai tempi in cui eravamo ragazzini. La sua voce soul potentissima, che non ha eguali, l’ha portata anche a Sanremo. Assieme abbiamo cominciato questo percorso di scoperta e crescita reciproca. Entrambi ci siamo evoluti, siamo cresciuti tanto. Carmen è, assolutamente, un pezzo importante della mia vita. È un pezzo di cuore. Insomma…una sorellina”.

Oltre alla “cantantessa”, hai lavorato con parecchi mostri sacri della musica: chi ti ha lasciato un segno e perché?

“Nel mio percorso artistico musicale, ho avuto la possibilità di conoscere tantissime persone che mi hanno lasciato una traccia, ricordi bellissimi e intensi. Dal Vip del momento a quello meno famoso ad un’icona come Patti Smith, con cui ho condiviso il palco in tante occasioni. Lo dico con cognizione di causa: si tratta di una persona che possiede un’umanità incredibile ed un carisma pazzesco. Ricordo che a Roma lei cantava “People Have the Power” e tutto quello che diceva non erano frasi fatte ma frutto di un pensiero comune. Identica cosa per Franco Battiato, meraviglioso in tutti i sensi, grandissimo maestro. Un dono della sintesi, della sostanza. Un personaggio assolutamente carismatico. Scrivere in uno dei suoi brani più ascoltati, “….perché io avrò cura di te…”, sembrerebbe, anche in questo caso, una frase fatta ed invece è molto semplice, essenziale perché cantata da lui, arriva come un treno emotivo dettato dalla sua influenza. Se poi aggiungiamo la sua ironia e la sua semplicità, parliamo veramente di un mostro sacro. Franco manca a tanti…”

Santi Pulvirenti, oltre a Patti Smith e l’indimenticato Battiato, ha suonato con Angelique Kidjou, Max Gazzè, Tiromancino, Rocco Papaleo, Paola Turci, Marina Rei. Infinita la realizzazione delle colonne sonore: porta la sua firma il film La mafia uccide solo d’estate di Pif. Con il brano Tosami lady, interpretato da Domenico Centamore, ha ottenuto la candidatura al David di Donatello per la migliore canzone originale nell’ambito dei David di Donatello del 2014. Nel 2016 ha composto la colonna sonora per il film In guerra per amore sempre di Pif, che comprendeva il brano Donkey Flyin’ in the Sky nominato ai Nastri d’argento del 2017 come Miglior canzone originale. Ha inoltre composto le colonne sonore di Questo nostro amore e Le indagini di Lolita Lobosco trasmesse su Rai 1. Ha composto inoltre le musiche di Io c’è per cui ha ottenuto la nomination ai Ciak d’oro per la Miglior colonna sonora cinematografica, Cops – Una banda di poliziotti,  The Italian Recipe  e L’ultima notte di Amore. Ha inoltre realizzato le colonne sonore delle serie Lea, Bang Bang Baby e, quest’anno, della miniserie sulle reti Mediaset, Vanina – Un vicequestore a Catania. Ed ancora:  Due vite per caso, Orecchie ed Era Ora per la regia di Alessandro Aronadio; La gente che sta bene di Francesco Patierno;  Io rom romantica, di Laura Halilovic; La scuola più bella del mondo e Tutti a bordo di Luca Miniero; Un paese quasi perfetto di Massimo Gaudioso; In guerra per amore e Noi come stronzi rimanemmo a guardare, per la regia di Pif e Il mio posto è qui di Daniela Porto. Sono sue, inoltre, le musiche dei documentari  Piccola pesca, L’odore della terra, L’isola delle colf,  La guerra dei vulcani, Tsunami Tour,  What Is Left?, Limbo e Looking for Kadija.

Sono tantissime le colonne sonore che hai realizzato. Qual è quella che ti ha letteralmente fatto sudare al fine di comporla? E per quale motivo?

“In realtà ogni colonna sonora la sudi…La vera difficoltà sta nel trovare il linguaggio. Devi stare concentrato sulla sceneggiatura. Poi ti devi misurare con le aspettative del regista, della produzione, insomma dei committenti. E quindi ogni percorso che fai, ogni nuovo progetto è una nuova sfida. Se penso al mio primo film vero, quello di Pif, con una produzione imponente ed importante come la Wildside, mi sentivo piccolo piccolo, avvolto da tanti pensieri, come se fossi intimorito. Tutto questo fa parte del percorso di ricerca, come quando cerchi di scoprire le cose di te stesso, in un vero e proprio processo creativo. Poi ti impegni, li porti alla luce e li fai ascoltare. Quella è stata una lavorazione molto lunga, con tantissimo impegno, tantissima scommessa da parte di tutti. Anche per il nostro conterraneo Pif era il suo primo film. E’ stata una scommessa vinta. Il film è stato apprezzato da tutti.  Abbiamo messo assieme cuore, energia, sudore. In tutta sincerità, la pellicola ha aperto le porte ad entrambi…”

C’è una regola per precisa per comporre una colonna sonora? Personalmente studi la sceneggiatura o è il regista che invece si adatta alla base musicale che gli proponi?

“Non credo ci siano regole precise per comporre una colonna sonora. Ovviamente si, leggo attentamente la sceneggiatura, mi confronto molto col regista. Ecco, diciamo che attraverso la lettura della sceneggiatura elaboro il mio film in testa, quindi incomincio a delineare i personaggi. E a dargli la sonorità, una tematica, un’emotività, una tensione, un’ironia alla scrittura che mi è stata presentata. E io parto assolutamente dalla sceneggiatura. Mi capita a volte di scrivere le colonne sonore ancor prima che il film sia girato e misurare le musiche sulle immagini. Altre volte mi capita di scrivere.
direttamente sulle immagini. Tra le due preferisco la prima tipologia, nel senso quella di scrivere su sceneggiatura, perché comunque, in qualche modo, ti offre una scrittura libera. È molto importante, fondamentale lo scambio col regista perché ti sa trasmettere la sua idea. Le due visioni alla fine si fondono. Quindi è fondamentale lo scambio di idee. Anche se i registi spesso non usano termini tecnicamente musicali, ti trasmettono delle emozioni, delle visioni che comunque ti danno, ti creano degli stimoli e portano la tua mente e la tua creativa in un’unica direzione”.

In tanti ti definiscono il figlio anagrafico della Catania degli anni Settanta e musicale degli anni Novanta. E’ proprio cosi?

“Assolutamente si! La mia crescita musicale, la mia evoluzione musicale passa per gli anni 90. In quel periodo a Catania ardeva il fuoco, c’era tanta voglia di fare, c’era un fermento incredibile e c’era grandissima cooperazione tra band. C’era questo filo diretto con una parte della musica dell’America indipendente. Catania, non a caso, fu definita dalle riviste musicali, la Seattle Italia. Per  me è stato un periodo molto importante di formazione creativa, con scambi di idee e progetti con altri musicisti, La mia band storica su chiamava Plank. Esploravamo tantissime sonorità. Un’esperienza bellissima che mi ha formato e fortificato”.

Più i poliziotteschi degli anni Settanta rielaborati o Morricone?

“Ho amato i poliziotteschi degli anni 70. È anche bello insomma, pescare gli elementi ed elaborarli in chiave attuale, questo è anche un esercizio creativo meraviglioso. Però se devo scegliere, Morricone ovviamente è stato il numero uno dei compositori. Geniale e grandioso, aveva una forza espressiva incredibile. Noi tutti ci ricordiamo le musiche più famose che avevano una capacità melodica e armonica allo stesso tempo assolutamente evocativa che funzionava ovviamente in maniera incredibile sulle scene. Molte scene sono diventate emblematiche anche grazie alla sua musica. Le melodie sopravvivono anche al di fuori, perché hanno questa forza di entrare nella testa, di non uscire più. In qualche modo possono essere definite popolari perché recepite a tutti i livelli. E questa quindi è una grande forza. E poi aveva anche una grandissima curiosità timbrica perché lui studiava tantissimo sui suoni, come ad esempio sui film western. Non è facile trovare gli strumenti e le melodie giuste per quel tipo di pellicola. Tutto quello che sembra scontato, non lo è affatto. Dietro ad ogni suono, c’è un pensiero di ricerca. Un’altra grandissima colonna sonora, è quella della classe operaia che va in paradiso in cui comincia a giocare coi rumori, quasi un precursore della musica industriale. Si, lo ammetto: sono un fan sfegatato di Ennio Morricone, il più grande compositore di colonne sonore che l’Italia abbia mai avuto. C’è da dire, inoltre, che abbiamo avuto la fortuna, nel territorio nazionale, di avere una scuola di compositori che andava di pari passo con un grandissimo cinema. E quel tipo di cinema, fortunatamente, sta ritornando…”

Comporre colonne sonore è produttivo in termini economici?

“Diciamo che si vive abbastanza bene. E’ giusto ribadire che un compositore non guadagnerà mai come un attore…Crescendo e facendosi apprezzare, tutto verrà da se”.

Come definisci il periodo che stiamo vivendo?

“Molto particolare. Siamo passati attraverso una pandemia che nessuno si aspettava e che ha condizionato fortemente le nostre vite sia durante che dopo. Ancora abbiamo strascichi, soprattutto i più giovani hanno perso una parte della loro adolescenza. Anche noi, anche se in misura più contenuta, considerata l’età. In questo momento ci troviamo in mezzo a guerre assolutamente inaspettate, a delle vere e proprie carneficine. Si tratta di un momento sicuramente doloroso per tutti. C’è chi parla di momenti di assestamento, di nuovi ordini mondiali, anche in termini economici. Il periodo è molto particolare, instabile, complicato, soprattutto per le nuove generazioni che poi si troveranno ad affrontare i resti di questo periodo, E’ una fase molto delicata. L’augurio è quello di uscirne fuori al più presto e di trasformare le brutture in nuova energia, linfa vitale per dare vita a nuovi progetti. E’ un momento, inoltre, in cui i social hanno un ruolo fondamentale: pare che ci sia una vita virtuale più importante di quella poi realmente vissuta. No, io credo che le relazioni concrete abbiano un valore sempre fondamentale. Così come è stato per me e per i miei coetanei.  Senza nulla togliere ai social, la vita va vissuta in modo reale e non solo virtuale. Mi rivolgo ai ragazzi: vivete intensamente e cercate di relazionarvi sempre con gli altri. Non isolatevi!”

In più di un’occasione, hai detto che quando componi “hai bisogno di sentirti immerso nella musica, quasi con un approccio carnale”. Vogliamo specificarlo meglio?

“Io quando scrivo, mi devo perdere assolutamente, devo lasciare un po’ i freni inibitori da parte e in qualche modo connettermi con la parte più intima di me in modo da far uscire quei semi che fanno germogliare un lavoro. Quei semi non sono altro che la lettura della sceneggiatura, lo scambio di stimoli, di suggestioni con il regista. Quindi sì, l’approccio direi che è quasi carnale, nel senso che ti devi veramente lasciare andare e farti prendere da questo vortice di suggestioni. Poi dipende anche molto dalla tipologia di musica che fa in quel momento. Però l’approccio è assolutamente istintivo e la prima parte quella proprio più creativa, perché arriva prima per poi diventare colonna sonora a tutti gli effetti. Devi andare veramente a toccare quello più intimo che c’è in te e che è stato generato dalla sceneggiatura, dalle immagini che stai vedendo o dalle suggestioni…”

Quali sono gli strumenti che non devono mancare per il componimento di una colonna sonora?

“Non credo che ci sia uno strumento in particolare che non debba mancare. Oramai il mondo sonoro è assolutamente molto vario perché ti asseconda e spazia da suoni molto diversi. Puoi realizzare una colonna sonora fatta di rumori insieme, magari poi integrando l’orchestra cosi come è successo anche nel film “L’ultima notte di amore” dove ho utilizzato dei fiati. E me li sono campionati, sono i miei, personali. Successivamente ho utilizzato altri rumori (soprattutto le percussioni) creati con vari oggetti, miscelandoli con sonorità orchestrali. Non c’è una regola aurea per una cosa che non deve mai mancare. Posso dire che non deve mai mancare la creatività. Inoltre abbiamo la fortuna, oggi, di avere computer che ci aiutano in questo lavoro per poter appuntare tante cose, tante idee. Ci offrono un aiuto consistente in fase realizzativa, perché ormai puoi registrare in autonomia tantissime cose. E poi ovviamente il resto lo vai a registrare negli studi”.

Chi è il regista che ammiri di più e per quale motivo?

“Non ho un regista preferito in assoluto. Ho tanti registi che ammiro, che ho ammirato nel tempo, che ho seguito nel corso degli anni, da Wim Wenders a Lars von Trier. Ho amato tanto, per esempio Yorgos Lanthimos in “Povere Creature” e nei suoi film precedenti che ho trovato geniali. Mi piacciono inoltre Matteo Garrone e Paolo Sorrentino”.

Con chi ti piacerebbe lavorare?

“Con tutti quelli che ho appena citato. Parliamo dei migliori registi in circolazione…”

Il tuo cantante preferito?

“Così come per i registi, non ho un cantante preferito. Nella mia vita ho amato i Beatles, i Rolling Stones, i Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jeff Buckley, Nick Drake. Nel panorama italiano, trovo interessante Madame e Ghali”.

Che musica ascolti?

“La musica che ascolto è molto variegata. Dipende anche dalle giornate…L’ascolto musicale per il lavoro che faccio, è molto eterogeneo, perché magari se sto lavorando su una colonna sonora con una certa sonorità, come per esempio la solidità elettronica, sei quasi costretto ad ascoltare chi propone quel genere di musica; se devo comporre una colonna sonora sinfonica, mi immergo in quel mondo. Spazio dal jazz di Miles Davis alla pop. Ascolto veramente di tutto, senza alcun pregiudizio. Posso anche essere incuriosito da un brano trap, perché può trasmetterti un suono che ti colpisce”.

Ultimamente, nella categoria miglior compositore, c’eri anche tu tra i candidati al David di Donatello con il film “L’ultima notte di Amore”. Hanno vinto i Subsonica per il film “Adagio”. Ugualmente contento?

“Assolutamente si! Conosco i Subsonica, ed in particolare Max Casacci, e mi fa piacere per loro. Con onestà intellettuale, ribadisco che sono contento, perché l’importante era esserci con un film a cui tengo molto e per il quale abbiamo scommesso tutti. Tra l’altro le candidature sono arrivate a un anno di distanza dall’uscita del film, a testimonianza del fatto che i giurati ci avevano visto bene, perché il prodotto cinematografico ha lasciato un segno. Così come accaduto in Francia, in Germania…La pellicola ha prodotto delle tracce molto positive e dei segnali tra il pubblico. Tutta la sequenza iniziale del film, è stata girata in elicottero mentre il regista Andrea Di Stefano, ascoltava la musica e indicava al pilota dove andare, a seconda di quello che gli suggeriva la musica, per girare a tempo”.

Se dovessi scegliere: Paola Cortellesi o Matteo Garrone?

“Si tratta di due registi molto diversi tra loro. Forse propenderei verso Garrone, per la sua storia, per quello che ha raccontato nel corso degli anni, perché ha dimostrato insomma di avere una visione sempre e comunque. Paola Cortellesi ha fatto un esordio in pompa magna, sconvolgendo tutti in termini di incassi. Il cinema italiano sta riscuotendo successi enormi anche all’estero. Quindi devo dire che come opera prima è stata molto, molto brava. E’ sempre complicato riconfermarsi, quando fai un esordio col botto. Le auguro il meglio. C’è bisogno di nuove energie, di nuova linfa”.

Ti piacerebbe lavorare con lei?

“Certamente!”

Quando al cinema e in tv, ascolti le tue colonne sonore, cosa provi?

“E’ sempre emozionante risentirsi. Anche a distanza di tempo ho provato una sensazione piacevolissima.  Se rivedo “La mafia uccide solo d’estate” mi commuovo pure. Vedere quel lavoro fatto di sudore e cuore, realizzato poi sulle immagini, è stata un’emozione che non riesco a descrivere. Una gioia immensa è riduttiva…”

Progetti per il futuro?

“Sto lavorando ad una serie Netflix su Adelina Tattilo, la giornalista e produttrice cinematografica, nota per le sue battaglie iniziate negli anni sessanta, per la trasformazione dei costumi sociali e sessuali , Una vicenda molto importante, tutta al femminile. Attualmente sto per chiudere una serie prodotta da Groenlandia per Sky: si tratta della storia degli 883 dal titolo “Hanno ucciso l’uomo ragno”. Personalmente mi ritrovo in questo racconto…”

Perché?

“Non posso spoilerare nulla…”

Era il sogno della tua vita diventare un compositore?

“All’inizio il mio sogno era quello di fare il musicista, di esibirmi davanti a tanta gente.  Lo è diventato man mano, quasi un sogno di seconda generazione. Ho sempre avuto un grandissimo amore per il cinema e ovviamente un grandissimo amore per la musica. Ad un certo punto ho voluto fare incontrare le due arti. Pian piano c’è stato questo passaggio dal mondo della discografia al cinema e alle serie tv. Sono molto felice per quello che ho fatto finora e che continuo a fare. La vita mi sta portando dove ha deciso il cuore…”

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Ipse Dixit

“La politica deve stare lontana dalla mafia. A Gela, esperienza di valore”

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Il prossimo 6 maggio, a Roma, assumerà il ruolo di Consigliere Ministeriale presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza. E’ stato nominato direttamente dal Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: gli sono state ampiamente riconosciute elevate attitudini investigative, frutto di un percorso professionale contraddistinto dalla lotta alla mafia in territori difficili del Sud Italia e per essere riuscito a gestire eventi e fenomeni assai complessi e complicati sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica. Nato a Messina, sessantadue anni appena compiuti, il dottore Salvatore La Rosa, laureato in Giurisprudenza ed abilitato alla professione di avvocato, ha conseguito i titoli dell’Alta Formazione ed il Master di II livello in “Sicurezza, Coordinamento Interforze e Cooperazione Internazionale” e quello in “Scienze Criminologico Forensi” presso l’Università di Roma “La Sapienza” e, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, la Laurea specialistica in “Scienze delle Pubbliche Amministrazioni”. Dal 2019 e fino ai giorni nostri, ha diretto la Questura di Trapani e prima ancora quella di Ragusa. Tra gli altri incarichi, è stato anche vicario del Questore di Messina. Dal 2005 al 2007 è stato a capo del Commissariato di Gela. 

“E’ stato un biennio intenso e di grandi soddisfazioni professionali – ci tiene a precisare -. Ricordo che l’impatto fu davvero complicato: il primo giorno, subito un intervento per un omicidio a Mazzarino e, a seguire, la partecipazione al Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica in ragione della partita di calcio di Serie C Gela – Napoli, che si sarebbe tenuta la domenica seguente con la previsione dell’arrivo di 1000 tifosi partenopei. Ma ero già discretamente “strutturato”. Arrivavo a Gela dopo un triennio passato a Lamezia Terme, dove era in corso una guerra di mafia, ed in precedenza avevo lavorato in Sicilia, nel siracusano, per una dozzina d’anni tra la Squadra Mobile e i Commissariati distaccati. A Gela ho trovato un ufficio ben organizzato, composto da tante persone perbene che non si sono mai risparmiate. Il lavoro era tanto, sia nell’ambito della Polizia Giudiziaria che sotto il profilo del controllo del territorio, ma gli uomini erano disponibili e professionali. Peraltro, in quel periodo, il Commissariato di Gela era impegnato in parecchi servizi di scorta e tutela che assorbivano un gran numero di personale. Per me è stata un’esperienza molto positiva che mi ha ulteriormente rafforzato”.

In quel periodo di tempo a Gela, è stato fatto tutto oppure si poteva fare di più?

“Si può sempre fare di più e meglio ma, certamente, non possiamo rimproverarci nulla, almeno sotto il profilo dell’impegno. Grande è stata la collaborazione con la Squadra Mobile di Caltanissetta e con le Procure pur nella consapevolezza degli impegni sempre maggiori. Proprio in ragione della palpabile sofferenza dovuta al grande carico di lavoro, l’Amministrazione, nel periodo in cui io ho diretto l’Ufficio, ha spostato al Commissariato di Gela quasi 50 uomini che già prestavano servizio in quel territorio ma nell’ambito delle specialità della Polizia di Stato e che, verosimilmente, erano sottoimpiegate. La soppressione degli Uffici di Polizia di Frontiera Marittima e del Posto di Polizia Ferroviaria, con conseguente trasferimento del personale al Commissariato di Ps. fu di grande aiuto non solo sul piano pratico ma anche su quello psicologico, soprattutto per gli uomini che già prestavano il loro servizio al Commissariato di via Calogero Zucchetto”

A Gela convivono due se non tre consorterie mafiose: Cosa Nostra, Stidda e gruppo Alferi. Andando specificatamente nel dettaglio, come sono organizzate – secondo la sua esperienza sul campo – e come riescono (nonostante i numerosi arresti) ad infiltrarsi nel tessuto locale?

“La domanda dovrebbe essere rivolta a chi ha oggi il polso della situazione. Io sono andato via da Gela nel 2007 e a distanza di 17 dalla chiusura della mia esperienza nel territorio sarei, a dir poco, presuntuoso a cimentarmi in un’analisi di questo tipo. Posso solo dire che, nel periodo della mia permanenza, tra “Cosa Nostra” e “Stidda” vi era un patto di “sospettosa” non belligeranza, condito da una equa spartizione dei profitti. La situazione era, a mio modo di vedere, determinata dalla necessità delle consorterie mafiose di mantenere una posizione più defilata in ragione del gran numero di carcerazioni e condanne subite, che le avevano fortemente indebolite ed, ancora, dall’esigenza di evitare di innalzare troppo il livello dell’attenzione da parte delle Forze di Polizia in ragione della presenza nell’area di importanti latitanti. Con riferimento al cosiddetto gruppo “Alfieri” posso dire che “u Ierru”, (Giuseppe Alfieri, ndr) capo dell’organizzazione, già all’epoca era attivo e riusciva a convivere con le consorterie mafiose più strutturate sul territorio per le identiche ragioni che ho esposto e anche perché si occupava di segmenti del malaffare cui non erano direttamente interessate “Cosa Nostra” e “Stidda”.

C’è voglia di cambiamento, di ribellione all’oppressione mafiosa in Sicilia. Almeno così sembra.  La gente, però, scende in piazza solo a seguito di fatti emergenziali. Come mai secondo lei?

“Si, è vero. I grandi movimenti di massa contro la mafia, in Sicilia come altrove, si percepiscono solo quando succede qualcosa di veramente eclatante e questa è la risultante di una percezione attenuata, se non addirittura assente, del fenomeno. Dalla stagione delle stragi son passati 30 anni e più e le giovani generazioni non hanno vissuto quei momenti tragici. Il ricordo è labile o del tutto mancante. La necessità di fare memoria dei fatti accaduti e dei martiri della mafia nonchè di spiegare il fenomeno ai giovani è oggi ancor più importante che in passato. Noi della Polizia di Stato siamo, purtroppo, “azionisti di maggioranza” nella triste graduatoria di operatori uccisi dalla ferocia mafiosa e ci impegniamo in ogni parte del territorio nazionale a dare il nostro contributo a quest’opera di sensibilizzazione delle coscienze nella lotta al crimine organizzato. Purtroppo non tutte le agenzie e le formazioni sociali che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei nostri giovani si stanno dimostrando all’altezza del compito. Molto di più si potrebbe fare sia nell’ambito scolastico, dove sarebbe opportuno dare più spazio allo studio della nostra storia recente e ai valori che ispirano la Carta Costituzionale, che in quello familiare, dove spesso si educano i figli non ai valori su cui si fonda la nostra società ma, piuttosto, all’utilizzo di espedienti e prepotenze per ottenere guadagni e successo. Per formare una “cultura antimafia” occorre intervenire sui giovani, anzi sui giovanissimi, con un’attività di formazione ed informazione che deve, affondando le radici nella storia, spesso misconosciuta, della mafia e dell’antimafia, servire ad educare ai valori della giustizia, della solidarietà, dei diritti e dei doveri che sono il distillato della nostra Costituzione. Lo dico da padre di tre figli, tutti nati dopo le stagioni delle stragi e che hanno un posto di osservazione privilegiato derivante proprio dall’essere figli di un operatore impegnato “per mestiere” nella lotta alla mafia, ma mi raccontano della assoluta assenza di conoscenza del fenomeno da parte di molti dei loro amici e compagni. In una parola: occorre una rivoluzione copernicana per fornire ai giovani gli strumenti culturali per costruire una società libera da condizionamenti”.       

Le cronache raccontano di un intreccio tra mafia e politica. E’ la mafia ad avere bisogno della politica o l’esatto contrario?

“La politica vera è esclusivamente “servizio” ed ha quindi bisogno solo di valori positivi da mettere in campo nel quotidiano a favore dei cittadini. Dato ciò e considerato che la mafia è solo disvalore, sono convinto che è la politica che debba stare lontano. La criminalità, di contro, diventa mafiosa proprio perché si infiltra nel tessuto sociale contaminandone le strutture, in primis quelle politico/amministrative. La mafia non sarebbe mafia senza infiltrarsi nella politica condizionandone l’operato. Se questa contaminazione non ci fosse saremmo di fronte ad organizzazioni criminali ma non alla mafia. Fatto questo breve quadro di riferimento, non posso che affermare che la politica che ha bisogno della mafia per affermarsi non è più politica ma essa stessa è mafia. Quindi, ad esempio, pensare che di fronte a 10 o 10000 voti che puzzano di mafia non prenderli equivarrebbe a farli prendere ad altri non significa ragionare pragmaticamente ma pensare da mafioso”.

Con quali mezzi potrà essere limitato se non completamente sradicato, questo subdolo legame che persiste nel Sud Italia e soprattutto in Sicilia?

“Come ho già detto, è solo una questione culturale. Occorre informare e formare le nuove generazioni fornendo loro gli strumenti culturali. La normativa di settore credo sia più che adeguata nonchè tra le più avanzate nel mondo. L’attività della Magistratura e delle Forze di Polizia è forte e determinata ma pensare che con la sola repressione si possa debellare il fenomeno è pia illusione”.   

Quando il 16 gennaio del 2023, ha saputo che il boss dei boss Matteo Messina Denaro era stato arrestato, cosa ha provato?

“E’ stato un importante momento di riscatto e di liberazione per la nostra terra di Sicilia e, credo, per tutta l’Italia. Si trattava del latitante in cima alla lista dei maggiori ricercati d’Europa e nella top five mondiale. Un successo strepitoso per lo Stato, anche se avvenuto dopo 30 anni di ricerche. Per quanto mi riguarda mi è dispiaciuto che non sia stato rintracciato dalla Polizia di Stato ma la cosa che ho subito pensato è che la sua cattura avrebbe determinato una profonda rivisitazione degli equilibri all’interno dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, non solo trapanese ma nel suo complesso, e che occorreva tracciare, senza ritardo ed in perfetta sinergia con la Magistratura inquirente e con la altre Forze di Polizia, una nuova strategia per individuare, per tempo, i percorsi che l’organizzazione mafiosa avrebbe potuto seguire dopo l’arresto”.

Anche voi eravate sulle tracce del padrino?

“Lo sforzo della Polizia di Stato per individuare il latitante è stato grande e ininterrotto. Il risultato, purtroppo, non ci ha premiato ma non abbiamo nulla da rimproverarci. Onore al merito, oltre che alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo che ha coordinato le attività di ricerca, ai colleghi che hanno materialmente proceduto alla cattura. Mi preme sottolineare che, comunque, questa è la risultante dello sforzo, prolungato e determinato, che tutti gli Enti che si occupano di Polizia Giudiziaria sul territorio hanno prodotto. L’attività dispiegata negli anni nei confronti della famiglia del latitante e dei suoi sodali è sotto gli occhi di tutti. Una pletora di arresti e fermi, con le conseguenti condanne, nonchè di sequestri di beni di ingente valore, che sono stati sottratti alla famiglia e ai suoi fiancheggiatori, danno la dimensione dello sforzo prodotto dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia, nessuna esclusa, e della determinazione con cui è stata indebolita la rete di protezione che era posizionata attorno al ricercato”.

Ha sperato che, dopo il suo arresto, Matteo Messina Denaro cominciasse a collaborare?

“Certamente. Tutti coloro che stanno dalla parte della verità e della giustizia lo hanno auspicato”.

Quanto sono importanti le rivelazioni dei pentiti?

“L’apporto fornito alle indagini dai collaboratori di giustizia è stato ed è determinante per penetrare fino in fondo nei gangli delle famiglie mafiose e nelle poliedriche interessenze criminali che le riguardano. Si tratta di uno strumento irrinunciabile per combattere le mafie”.

Delle tante tappe lavorative, qual è stata l’esperienza che l’ha formata e fortificata e perché?

“Non saprei dare una risposta secca. Ho affrontato l’avventura professionale con umiltà e tanta voglia di imparare, anche dagli inevitabili errori fatti. Dal punto di vista della mia formazione si è trattato di una sorta di “working in progress” e, quindi, posso affermare che tutto è stato importante. Tuttavia, il periodo che, dal punto di vista operativo, mi ha più di altri formato è stato quello trascorso, nella prima metà degli anni ’90, alla Squadra Mobile di Siracusa. Eravamo nel bel mezzo della guerra di mafia e l’attività di investigazione e di repressione era febbrile ed appassionante. I risultati investigativi furono eccellenti. Si dormiva poco o nulla ma bisognava restare lucidi e soprattutto umani. Il rischio più rilevante era, infatti, quello di perdere, di fronte ai tanti orrori che si presentavano frequentemente davanti agli occhi, la sensibilità che, invece, deve essere la caratteristica principale per un poliziotto che, per mestiere, è chiamato ad intervenire lì dove c’è il dolore. Dal punto di vista organizzativo, invece, ho ricevuto tanto dall’esperienza fatta, subito dopo il periodo trascorso a Gela, quale Capo di Gabinetto della Questura di Siracusa (dall’agosto 2007 all’ottobre 2012). Sono stati 5 anni intensi durante i quali abbiamo affrontato tante situazioni emergenziali come ad esempio, e senza la pretesa di essere esaustivi, i tanti sbarchi di immigrati, i frequenti scioperi che coinvolgevano il Polo Petrolchimico, i confronti, talvolta anche serrati ma sempre costruttivi, con le Organizzazioni Sindacali. Ma, soprattutto, nel 2009 abbiamo organizzato in modo inappuntabile, e lo dico con un pizzico di immodestia, il G8 dei Ministri dell’Ambiente. La pianificazione e la gestione dei complessi servizi di ordine e sicurezza pubblica correlati a quell’importante evento hanno segnato senz’altro il mio percorso e mi hanno completato professionalmente, atteso che sino ad allora mi ero misurato con uffici più prettamente “operativi”, segnatamente i Commissariati distaccati e la Squadra Mobile”.

Qual è il suggerimento che dà sempre ai suoi uomini?

“A chi mi collabora dico sempre che nel nostro lavoro non ci sono battitori liberi ma, al contrario, è necessario essere e sentirsi parte di una squadra. Solo lavorando in team si possono ottenere risultati all’altezza delle attese di coloro che serviamo, cioè i cittadini affidati alle nostre cure. Nessuno deve restare indietro o essere messo da parte poiché tutti, anche coloro che hanno maggiori difficoltà, possono e devono essere messi in condizione di fornire il proprio apporto. Per ottenere il risultato che vogliamo dobbiamo confidare nella forza del gruppo e nella lealtà reciproca e, soprattutto, mai dobbiamo pensare che andrà tutto bene, confidando nella buona sorte. Al contrario, dico ai miei uomini, responsabilizzandoli, che tutto andrà come noi faremo in modo che vada”.

E quello che dà ai ragazzi che vengono attratti dai soldi facili?

“Mi permetto di ricordare ai giovani che la strada pianeggiante o, addirittura, in discesa non porta da nessuna parte anzi conduce spesso a successi illusori. Il crimine con le sue chimere, le sue ricchezze, i suoi modelli è fortemente attrattivo ma di norma conduce al carcere o addirittura alla morte. Basta guardarsi attorno: i criminali si uccidono tra loro, finiscono in carcere per tanti anni o, ben che gli vada, vivono nascondendosi come topi. Per far funzionare il cosiddetto “ascensore sociale” occorre rifuggire da questi modelli effimeri e con impegno e fatica seguire la strada più irta, rimboccandosi le maniche. D’altronde più si percorre il sentiero che inerpica, più si arriva in alto ed alla fine della dura salita il panorama sarà bellissimo. Ai giovani, quindi, dico: non abbandonate mai i vostri sogni, studiate e lavorate con impegno ed onestà, battetevi per una società più giusta e non mollate mai, neanche quando tutto potrebbe apparire perduto. Ricordate che c’è sempre un’altra via, mantenete la barra dritta, acquisite con passione gli strumenti culturali che vi necessitano ed i risultati verranno. Ricordate sempre che qualunque sia la posizione da cui partite sarete sempre e soltanto voi gli artefici del vostro futuro”.

Ci leggono anche dal Commissariato di Gela. Cosa vuole dire a chi l’ha conosciuta? 

“Ho un ottimo ricordo degli uomini che mi hanno collaborato a Gela. Non so, in considerazione degli anni che sono trascorsi, quanti di loro siano ancora in attività e quanti invece siano andati in pensione. Com’è normale che sia, di molti di loro ho ricordi nitidi, di altri un po’ più sfocati ma li saluto tutti affettuosamente e dico loro che sono convinto che, insieme, abbiamo fatto un buon lavoro per la città, i cittadini onesti e per la Polizia di Stato. Li ringrazio singolarmente per quello che hanno saputo dare ed auguro a tutti ogni bene per il futuro”.

Nel corso di questi anni, il dottor La Rosa ha ricevuto la nomina di cavaliere e quella di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. La sua bacheca è ricca di encomi solenni e lodi per attività di servizio conferiti dal Dipartimento della Polizia. 

Perché ha scelto di fare il poliziotto? 

“Le ragioni che mi hanno indotto a fare questa scelta, non solo lavorativa ma anche di vita, sono molteplici. Fin da ragazzo, ho sempre sentito forte la necessità di dare il mio contributo per costruire una società più giusta, di combattere le prevaricazioni e la disonestà. Accarezzavo, quindi, l’idea di entrare a far parte della Polizia o della Magistratura inquirente per dare il mio contributo. Gli eventi della seconda metà degli anni ’70, con riferimento al terrorismo, e degli anni ’80, con riferimento alla criminalità organizzata, hanno ulteriormente consolidato la mia determinazione. Per questo motivo scelsi di iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza per poi tentare quest’avventura. Fu poi la lettura del libro: “Mafia – l’atto di accusa dei giudici di Palermo”, a cura di Corrado Stajano, ad essere stata determinante per le mie scelte future. Si tratta, in buona sostanza, di uno stralcio della sentenza-ordinanza prodotta dall’Ufficio Istruzione di Palermo che condusse poi al maxi processo a “Cosa Nostra”. Fu una lettura appassionante e travolgente che ha definitivamente rafforzato la passione per questo mio lavoro. Da lì al concorso per Vice Commissario di Polizia il passo fu breve”.    

Se non fosse riuscito nell’intento di entrare a far parte della Polizia, cosa avrebbe fatto?

“Oggi come oggi, non riesco a vedermi in un altro ruolo. Tuttavia, se il progetto non si fosse realizzato, avendone la possibilità, avrei scelto un lavoro che potesse soddisfare, almeno in parte, la mia necessità di fornire un contributo per costruire una società migliore. Forse avrei scelto di fare il docente per cercare di indirizzare i giovani su una strada positiva”. 

Sicuramente contento per il Trapani che ha stravinto il campionato di serie D

“Sono arrivato a Trapani quando la squadra di calcio della città disputava la Serie B ed aveva, qualche anno prima, sfiorato la promozione nella massima serie. Purtroppo le cose non andarono bene negli anni a seguire con fallimenti e cancellazioni che avevano fatto sparire la città di Trapani dal calcio che conta. In quest’ultima stagione sportiva, con l’avvento di una nuova proprietà, la squadra e la città stanno vivendo un periodo straordinario. Lo stadio è tornato un grande luogo di ritrovo e divertimento, la squadra ha stravinto meritatamente il campionato di Serie D ed il prossimo anno si cimenterà tra i professionisti. Sotto il profilo dell’ordine pubblico è stato un impegno notevole ma, in onestà, devo dire che il tifo trapanese è sano e non può certo annoverarsi tra le piaghe che affliggono la città. Purtroppo non è mancato qualche idiota ma è stato subito isolato dalla società, che ha preso immediatamente le distanze, e dai veri tifosi, che vanno allo stadio solo per divertirsi e sostenere la propria squadra. Il resto lo hanno fatto i miei uomini che, individuando gli stupidi e i violenti, mi hanno consentito di emettere parecchi Daspo così da mettere in sicurezza lo stadio, i veri tifosi e lo spettacolo. Mi piace aggiungere che la città di Trapani sta vivendo quest’anno un’altra grande avventura sportiva nella pallacanestro. La squadra dei “Trapani Shark”, che disputa la Serie A2, è stata attrezzata per il salto nella massima serie e nelle gare casalinghe, spesso, si registra il sold-out con oltre 3500 spettatori che gremiscono il palasport. A breve inizieranno i play-off e questo sarà, senz’altro, un rinnovato impegno per la Questura di Trapani ma anche, e soprattutto, uno spettacolo sportivo di alto livello a disposizione degli appassionati di basket trapanesi. Per rispondere alla sua domanda dico, senz’altro, che sono sempre molto contento quando lo sport diventa protagonista della nostra società poiché attraverso la passione per lo sport si innesca un circolo virtuoso. Di norma, in questi casi, i giovani sono stimolati ad avvicinarsi all’ambiente sportivo che li induce ad intraprendere percorsi positivi, sani e formativi. Se riflettiamo, infatti, i ragazzi che fanno sport difficilmente li vediamo bivaccare per strade o bar. La mattina vanno a scuola, il pomeriggio lo dividono tra lo studio e l’allenamento. Lo sport aiuta a rispettare le regole, fa comprendere cosa sia la disciplina, il duro lavoro, la fatica ed il sacrificio per raggiungere un risultato agognato. Dire che “lo sport è scuola di vita” può sembrare una frase fatta ma non lo è affatto”.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
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