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Giudiziaria

TAR: Illegittima la decadenza dell’autorizzazione all’esercizio di una cava fondata sull’informativa antimafia   

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Il sig. L.L. fin dal 1995 è titolare di un’attività di cava regolarmente autorizzata e sita nel Comune di Sciacca.
Il padre del titolare della cava, nel 1996 era stato destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale disposta dal Tribunale di Agrigento  per la durata di quattro anni dal 1996 al 2000, ma dopo tale precedente ha osservato una condotta specchiata e lontana da frequentazioni controindicate.
Nondimeno, la Prefettura di Agrigento, a seguito di una verifica disposta dal distretto minerario nei confronti dei soggetti proprietari di talune aree su cui sorge la cava del sig. L.L., ha adottato un provvedimento interdittivo nei confronti del padre, soggetto che, se pure comproprietario di uno dei terreni interessati dall’attività di cava, non esercita alcuna attività di impresa e non ha alcun ruolo nella gestione dell’impresa del figlio.
A seguito del provvedimento interdittivo adottato nei confronti del padre del ricorrente, il Distretto Minerario di Caltanissetta, competente territorialmente, senza  attivare il necessario contraddittorio procedimentale ed in assenza di un provvedimento interdittivo diretto nei confronti dell’impresa del figlio, ha disposto l’immediata decadenza dell’autorizzazione di cava .
A questo punto il sig. L.L. si è rivolto agli Avv.ti Girolamo Rubino, Lucia Alfieri e Vincenzo Airo’, al fine di proporre ricorso innanzi al TAR Palermo.
In particolare, gli avv.ti Rubino, Alfieri ed Airo’ hanno sostenuto l’illegittimità del provvedimento di decadenza per l’assenza del preventivo contraddittorio e l’assenza dei presupposti in quanto secondo le previsioni del codice antimafia,
l’effetto interdittivo delle comunicazioni antimafia riguarda soltanto le imprese nei cui confronti sono rese, e non anche nei confronti di soggetti diversi che con esse hanno eventuali rapporti commerciali o parentali.
I legali del sig. L.L. hanno, altresì, contestato la fondatezza degli assunti posti a fondamento del provvedimento interdittivo adottato nei confronti del padre, il quale, proprio grazie alla propria buona condotta e la presa di distanza dagli ambienti criminali, nel frattempo ha ottenuto la piena riabilitazione dalla misura di prevenzione adottato oltre vent’anni addietro.
Il TAR Palermo, Sez.I, presieduto dal dott. Salvatore Veneziano e relatore la dott.ssa Maria Cappellano, ha accolto la domanda cautelare proposta e sospeso il provvedimento di decadenza dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di cava.
Il particolare, il TAR Palermo ha ritenuto che le censure dedotte dagli avv.ti Rubino, Alfieri ed Airo’: “presentano profili di fumus boni iuris avuto riguardo, in particolare, al provvedimento di decadenza, in quanto tale provvedimento – il quale non pare costituire di per sé un atto vincolato rispetto alla comunicazione antimafia, avente come destinataria una ditta terza – è stato adottato a distanza di molti anni dal rilascio dell’autorizzazione senza garantire il previo contraddittorio con il privato, pur incidendo in maniera definitiva sull’esercizio dell’attività lavorativa”.
Per effetto della pronuncia cautelare, il sig. L.L. potrà continuare ad esercitare la propria attività lavorativa nelle more della definizione del merito del giudizio ove, peraltro, verrà approfondita anche la questione dell’estensibilità degli effetti delle comunicazioni/informazioni antimafia a soggetti diversi dai diretti destinatari.

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Giudiziaria

Don Rugolo condannato anche in Appello

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Tre anni di reclusione: è la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Caltanissetta che ha condannato don Giuseppe Rugolo, il sacerdote ennese accusato di violenza sessuale su minorenni. I giudici hanno applicato l’attenuante della tenuità del fatto per due delle vittime individuate, rideterminando la sentenza di primo grado che era stata di quattro anni e sei mesi.

L’impianto dell’accusa ha retto anche in appello, come la credibilità del giovane archeologo Antonio Messina, sulla cui denuncia è stato incardinato il processo. La Corte d’appello ha estromesso la diocesi di Piazza Armerina dalla responsabilità civile

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Sentenza amianto killer: difesa condannata

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Roma – Amianto killer nelle navi della Marina: la Difesa condannata in via definitiva a risarcire 400mila euro la famiglia di Michele Cannavò morto di mesotelioma.

La vittima è stata esposta senza protezione per 34 anni nei cantieri e sulle navi .

Una nuova, pesante condanna, appena passata in giudicato, quindi definitiva, per il Ministero della Difesa: il Tribunale Civile di Roma ha stabilito un risarcimento di circa 400mila euro in favore dei familiari di Michele Cannavò, motorista navale della Marina Militare, deceduto a causa di un mesotelioma pleurico provocato dall’esposizione prolungata all’amianto.

Cannavò, originario della provincia di Catania, e residente a Siracusa, ha servito per 34 anni lo Stato tra il servizio militare e civile, operando in ambienti contaminati e privi di adeguate protezioni. Imbarcato su diverse unità navali – tra cui la Nave Albatros e il MOC 1201 – e impiegato nell’Arsenale Militare di Augusta, è stato quotidianamente a contatto con fibre di amianto: nei motori, nei corridoi, nei rivestimenti delle condotte, fino agli stessi ambienti di vita delle navi.

Un’esposizione continua, intensa e silenziosa, che gli è costata la vita. La diagnosi è arrivata nel 2019. La morte, appena due mesi dopo.L’INAIL ha riconosciuto il nesso causale tra l’infermità e le mansioni svolte in Marina, nel periodo del servizio civile. Una conferma ulteriore della gravità della negligenza istituzionale.

“Finalmente giustizia per la famiglia Cannavò” – commenta Ezio Bonanni, Presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto e legale dei familiari – “Questo risarcimento non potrà restituire Michele ai suoi cari, ma rappresenta un passo in avanti verso la tutela delle vittime e la bonifica definitiva dell’amianto da navi e arsenali militari.”

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Inchiesta Camaleonte: assolti gli imprenditori Luca e il dirigente di polizia Giudice

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Cade in primo grado l’impianto dell’inchiesta Camaleonte che ha coinvolto gli imprenditori Luca accusati di rapporti con clan mafiosi.

Il presidente del collegio penale Miriam D’Amore ha assolto tutti gli imputati perché il fatto non sussiste. Sono stati assolti il fondatore del gruppo Salvatore Luca, il figlio Rocco, il fratello Francesco, il genero Francesco Gallo, la moglie Concetta Lo Nigro, la figlia Maria Assunta Luca e la cognata Emanuela Lo Nigro. Tutti gli imputati hanno  respinto sempre l’accusa di legami con la mafia. I Luca si sono dichiarati, invece, vittime e hanno sostenuto che il loro patrimonio era frutto del lavoro. Lacrime,commozione e abbracci tra i componenti della famiglia Luca alla lettura del dispositivo di sentenza.

E’ stato assolto anche il dirigente di polizia Giovanni Giudice, che ha rinunciato alla prescrizione maturata. Era accusato di aver favorito i Luca, tesi sempre respinta.

La prescrizione, con esclusione dell’unica aggravante, è stata decisa per l’ altro poliziotto coinvolto Giovanni Arrogante. 

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