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Don Giuseppe Cafá, il sacerdote dal sorriso contagioso

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Contro ogni stortura, contro ogni imbarbarimento; sempre a fianco dei giovani e con i giovani. Don Giuseppe Cafà, 51 anni, gelese, è il classico sacerdote dal sorriso contagioso. Dal 2011, guida la parrocchia Sacro Cuore di Niscemi, trasmettendo la parola di Dio perché dona la sua vita per qualcosa di veramente grande che lo realizzi in tutto, che lo fa stare bene e che soprattutto serva a rendere bella la quotidianità  degli altri.

Hai conseguito il diploma di perito tecnico commerciale e quello di infermiere professionale. Nella vita, dunque, avresti potuto fare altro ed invece hai deciso di indossare l’abito talare. Qual è stato il motivo che ti ha portato a questa decisione?

“Certamente mi sarei potuto realizzare in tante altre cose, ma fu al conseguimento dei due rispettivi diplomi che entrai in una crisi profonda al centro della quale ci stava una grande domanda: “ma è davvero questo quello che voglio?”. Così mi feci aiutare dal mio parroco a capire e ad individuare la strada giusta. Scelsi il mio parroco perché già sentivo dentro di me, come quanto si sente la voce della coscienza, che diceva “vieni e seguimi”. E così, dopo un anno circa entrai nel Seminario di Piazza Armerina”

Cosa ti ha lasciato l’esperienza presso la casa di riposo per anziani e diversamente abili “Santa Lucia” di Enna, dove hai espletato l’anno di servizio militare come obiettore di coscienza?

“Durante il primo anno di Seminario, per un intoppo nella presentazione del rinvio militare per motivi di studio, fui chiamato a svolgere il servizio di leva che grazie a Dio convertii in obiettore di coscienza per potere svolgere il mio servizio con la Caritas Diocesana. Ad Enna ho trascorso uno degli anni più belli e formativi della mia vita. Il mio ruolo era quello di intrattenere gli anziani e di aiutarli in qualsiasi bisogno o richiesta. Dall’aiutarli durante i pasti o nel far loro compagnia durante una passeggiata accompagnandoli sotto braccio. Compleanni e piccole festicciole diventavano occasioni per strappare loro una risata e far dimenticare gli acciacchi dell’anzianità e della solitudine dagli affetti familiari. Ritengo fondamentale quest’esperienza perché mi ha fatto scoprire l’importanza di questi uomini e queste donne che analogamente ai nostri nonni erano alla ricerca di un abbraccio che fosse capace di non farli sentire un peso per la società e la famiglia”:

Il legame con i tuoi genitori (Vincenzo e Maria) è stato sempre forte. Quando hai comunicato che avresti scelto di intraprendere la via sacerdotale, cosa ti hanno detto?

“Non è stato facile per i miei genitori ingoiare la notizia del mio “lascio tutto e vado in seminario”. Nessuno dei due accettò all’inizio la mia scelta. Mi osteggiarono in tutti i modi. Per un breve tempo si incrinarono persino i rapporti. I nostri pranzi e le nostre cene erano divenuti luoghi di silenzi e di sguardi bassi. La discussione non doveva aver luogo. Il no dei miei genitori fu intransigente, e anche il mio si non fu da meno. Così il 19 settembre del 1994 entrai in Seminario accompagnato da due miei amici e senza salutare i miei genitori. Dopo qualche settimana, si sa come sono le mamme, mi chiama a telefono per dirmi se avevo bisogno di qualcosa e mi chiede come va. In quel momento capii che si stava sciogliendo una lastra di ghiaccio, e così piano piano ripresero i rapporti e mi vennero a trovare in seminario”.

Dal 1996 al 2002, hai studiato, su proposta del Vescovo di Piazza Armerina, Vincenzo Cirrincione, presso la Facoltà Teologica “San Tommaso d’Aquino” dell’Almo Collegio Alberoni di Piacenza dal quale sei uscito con il titolo di Baccalaureato.  Come sono stati i sei anni trascorsi nel capoluogo emiliano e come i piacentini ti hanno accolto?

“Potrei definirli anni meravigliosi e difficili allo stesso tempo. Meravigliosi perché mi fecero incontrare una realtà civile e religiosa totalmente diversa dalla nostra. La totale assenza di devozioni e di manifestazioni folcloristiche (tipiche delle nostre feste religiose siciliane) mi fece scoprire un mondo fatto di oratori, attività ludico ricreative, incontri fatti per ragazzi e famiglie, attività sociali volte al recupero dei tossicodipendenti, all’accoglienza delle ragazze madri, all’adozione temporanea di bambini con disagi familiari, alle mense caritative per i senza tetto e tanto altro ancora. La novità è che ogni parrocchia faceva vivere una o più esperienze tra questa ai vari gruppi parrocchiali. Non c’era mese che almeno una volta non si organizzasse un’attività sociale. Trasmissione della fede e attenzione all’uomo che soffre, erano i due pilastri di ogni parrocchia. La difficoltà all’inizio fu legata allo studio. Da uno che usciva da un tecnico trovarsi ad avere a che fare con materie umanistiche e lingue nuove furono una vera e propria montagna da scalare. La grazia di Dio e il mio forte temperamento mi diedero la forza di non mollare mai e di giungere fino alla fine”.

La tua ordinazione presbiterale ha già…spento le 20 candeline. Era il 2003 quando sei stato nominato, dal vescovo Michele Pennisi, vicario parrocchiale e vice parroco di Monsignor Grazio Alabiso, presso la chiesa Madre di Gela. E’ chiaro che in questi lunghi anni, sono stati tanti gli episodi piacevoli che ti hanno colpito. Ne vogliano raccontare uno in particolar modo?

“Noi sacerdoti spesso viviamo momenti che rimangono impressi come un memoriale per la nostra vita. Sono tanti e tutti importanti e dire così su due piedi quale sia stato il più piacevole, diventa difficile. Certamente ricordo la festa del papà che feci organizzare ai tanti giovani che frequentavano allora la Chiesa Madre. All’inizio la proposta fu accolta con diffidenza da parte dei giovani e dalle loro famiglie, e anche Monsignor Alabiso presentò qualche perplessità, a tal punto che mi disse, sorridendo, che “queste cose del Nord, qui non funzionano”…tuttavia mi lasciò fare e il risultato fu così inaspettato che tutti si ricredettero.  Ricordo ancora il pianto dei papà per la gioia nell’abbracciare i loro figli come mai avevano fatto”.

Qual è stato l’episodio che invece ti ha ferito?

“Allo stesso modo di prima ci sono altri episodi le cui cicatrici rimangono indelebili nel cuore. Mi torna in mente la storia di un giovane ragazzo, la cui mamma aveva contato su di me per aiutarlo ad uscire da una certa situazione. Forse mi addossò aspettative superiori alle mie capacità. Probabilmente sovrastata dal dolore e dall’ennesimo fallimento, mi sbattè la porta in faccia dicendomi di cambiare mestiere”.

Accennavi al compianto Monsignor Alabiso: chi è stato per te?

“All’inizio, come tutti i gelesi, conoscevo Monsignor Alabiso per la sua fama che, in certi ambienti, era positiva e in altri negativa. Mi avvicinai a lui con molto rispetto e altrettanto timore e non nego che le nostre due personalità (leader indiscusso lui, neo sacerdote emergente io in cerca di spazi propri), si scontrarono parecchie volte.  Tuttavia entrambi avevamo rispetto l’uno dell’altro e ciascuno era proteso al bene di tutta la comunità. Fu questa la carta vincente che ci fece vivere insieme per quasi 9 anni. Da lui ho imparato molte cose: la gestione di una parrocchia, il rapporto con le istituzioni locali, la sempre e costante attenzione a preparare tutto con cura, ma soprattutto a tenere la mente sempre attiva con lo studio e l’aggiornamento. Furono per me un tesoro prezioso i suoi racconti della chiesa gelese e delle tante storie e vicende da lui vissute da quando cominciò a fare il parroco dell’allora nascente complesso di Macchitella”.

Nel tuo percorso, hai avuto il privilegio di conoscere ben tre vescovi: Cirrincione, Pennisi e  Gisana. Quali differenze hai notato tra i tre prelati e cosa di loro tuttora custodisci nel tuo cuore?

“Più che delle differenze vorrei invece sottolineare ciò che li accomuna. Tutti e tre i vescovi hanno amato la nostra Chiesa locale con affetto paterno. Hanno dato il massimo che hanno potuto senza mai tirarsi indietro. A Monsignor Cirrincione, durante la visita Pastorale a Gela, gli chiesi una volta alla fine di una giornata, se fosse stanco e avesse bisogno di qualcosa. Mi rispose candidamente: “mi riposerò in Paradiso”. Così anche Monsignor Pennisi e l’attuale Monsignor Gisana non si sono mai fermati e sono stati sempre presenti e attenti ad ogni situazione. Di tutti e tre custodisco l’affetto paterno”.

Presso il Liceo “Leonardo da Vinci ” di Niscemi, ricopri la carica di vice preside e svolgi la professione di insegnante di religione così come già successo, anni prima, all’Istituto Sturzo di Gela (Commerciale e Alberghiero). Giornalmente hai la possibilità di colloquiare con gli studenti. Nel dettaglio, quali sono i timori e le paure che colpiscono i giovani?

“I giovani che incontro quotidianamente sono figli del loro tempo. Sono quelli che la sociologia chiama “Generazione Z”. Fortunatamente possiamo dividerli in due categorie: alla prima appartengono i figli dell’era digitale, circa l’80%, che vivono in ambienti virtuali. Passano da un social all’altro come si attraversano le stanze di una casa, senza uscire dalla loro cameretta. Desiderano qualcosa e immediatamente gli viene data, oppure se la procurano da soli con un click sul telefonino. Comprano su Amazon e guardano le serie Tv sul telefonino. Scommettono al calcio senza andare in ricevitoria o allo stadio e incontrano i loro amori spulciando sui profili dei coetanei. I giovani di questa categoria fanno le vacanze non per conoscere posti nuovi e crescere culturalmente, ma per frequentare le diverse movide notturne come quelle organizzate da Scuola Zoo. Alla domanda quali sono i timori e le paure che colpiscono questi giovani, rispondo con il perdere la connessione con il mondo virtuale. Il rimanere senza internet o senza telefonino. Il restante 20%, sono quei giovani che cercano sui libri o in generale nello studio la loro strada per essere protagonisti della storia e costruttori di una vita migliore. Si impegnano nel volontariato, nella politica e nello sport, crescendo sempre più nella cittadinanza attiva. Subito dopo il diploma scelgono sedi universitarie lontane capaci di poterli realizzare professionalmente e socialmente. Il loro timore? Essere isolati dalla massa… essere considerati uomini e donne dalla vita piatta e senza “divertimento”. Sono quelli che andando via dalla nostra amata Sicilia non torneranno più se non per visitare i familiari e trascorrere qualche settimana di vacanza”.

 E i loro desideri?

“In tutti i giovani c’è comunque un senso di insoddisfazione. Hanno tutto e non sono mai contenti. Nella maggior parte di loro c’è un senso di vuoto che per colmarlo spesso ricorrono a delle bravate che spesso pagano a caro prezzo”.

Se tu avessi la bacchetta magica, cosa risolveresti in primis per garantire ai ragazzi un futuro migliore?

“Non serve una bacchetta magica per garantire un futuro migliore ai giovani. Bisogna tornare ad investire sulla cultura. Ho una mia filosofia che sicuramente non è condivisa dalla maggioranza, ma io ai miei ragazzi trasmetto sempre un concetto: più sai e più avrai. Le mete migliori le puoi raggiungere solo se porti con te uno zaino pieno di conoscenze”.

In tema di malaffare, in più di un’occasione pubblica, non hai esitato a rivolgerti direttamente agli affiliati e ai semplici “carusi” al fine di deporre le armi del crimine. Il messaggio, purtroppo, non è stato raccolto e i fatti di cronaca, nel nostro territorio, sono all’ordine del giorno. Tutto questo, è chiaro, fa male. Non credi?

“Uomini grandi come i giudici Falcone e Borsellino e il Beato Rosario Livatino ci hanno insegnato che non bisogna mai smettere di educare alla legalità, anche quando attorno a noi sembra esserci un terreno arido e incapace di accogliere anche un piccolo seme. Certo che fa male… vedere ragazzi scivolare nel crimine è una sconfitta che lacera la coscienza e indigna sempre di più. Tuttavia bisogna anche aiutare la società sana a non abbassare mai la testa a chi vuole intimorire o spadroneggiare per le nostre città”.

Ma perché una parte consistente dei giovani è predisposta a delinquere?

“C’è un peccato nell’uomo che si chiama avidità, che può essere di denaro o di potere. Soldi facili e prepotenza diventano un binomio fondante per assoldare i nostri giovani”:

Gesualdo Bufalino sosteneva che “la mafia, se un giorno sarà sconfitta, sarà debellata da un esercito di maestri elementari che comunichino e insegnino ai bambini che la mafia è qualcosa di brutto e li allontani da adulti, dalla partecipazione alle organizzazioni mafiose”. D’accordo?

“Assolutamente si, come non essere d’accordo con il grande maestro. Da anni, a Niscemi, attraverso progetti e attività mi prodigo per abbassare la percentuale dei ragazzi in dispersione scolastica. La scuola è l’unico e insostituibile luogo per combattere mafia e povertà”.

Proprio a  Niscemi hai fondato assieme ad un gruppo di imprenditori, l’Associazione antiracket e antiusura dedicata alla memoria di Ninetta Burgio. L’obiettivo è quello di invitare le vittime dell’odioso ricatto di clan, ad intraprende un percorso di legalità e di presenza attiva nel territorio. I risultati ci sono?

“Fino al 2015 ho fatto parte del direttivo come socio fondatore di questa associazione e di risultati ne abbiamo conseguiti diversi. Tuttavia per ragioni che non sto qui a spiegare, da questa associazione ne siamo usciti io ed altri soci e abbiamo intrapreso un nuovo percorso con “Sos Impresa” con la quale abbiamo avviato diversi progetti. In città si avverte un senso di consapevolezza maggiore e gli imprenditori che fanno parte del nostro progetto si sentono molto più sicuri di non essere più soli”.

Per contrastare efficacemente la piaga della povertà e della ludopatia, hai aperto, sempre a Niscemi, nel 2016 un Centro di Ascolto Caritas. I fenomeni sono costanti o ci sono prospettive che vengano definitivamente estirpati?

“La piaga della ludopatia è sempre più drammaticamente dilagante. Siamo riusciti con il sindaco Massimiliano Conti e l’assessore alla Legalità Piero Stimolo a scrivere un protocollo per arginare il fenomeno, ma tuttavia è poca cosa. Anche il Centro di Ascolto della parrocchia ha individuato diversi casi aiutando le famiglie ad intraprendere un percorso riabilitativo. Purtroppo le sale slot crescono come i funghi e le strutture e il personale qualificato per disintossicarsi sono introvabili. Basti pensare che per l’intera area di Gela, Niscemi e Butera esiste un solo Sert con un ufficio e poco personale in via Parioli a Gela. Grazie ai servizi sociali di Niscemi abbiamo intrapreso un’attiva collaborazione con “Casa Famiglia Rosetta” di Caltanissetta aprendo con loro uno sportello di ascolto anche nelle scuole”.

Ritorniamo al tuo percorso sacerdotale. Cosa ti hanno lasciato i dodici anni alla guida diocesana dei gruppi ministranti e l’esperienza come membro del Consiglio Presbiterale Diocesano?

“Come dicevo prima sono stati anni meravigliosi. La realtà dei ministranti la conobbi in Chiesa Madre a Gela e da lì, grazie all’incarico datomi da Monsignor Pennsi, conobbi tutti i gruppi ministranti di molte parrocchie della Diocesi. Con essi mi divertii ad organizzare campi estivi, raduni diocesani con la partecipazione di oltre 500/600 giovani ministranti. Per due volte portai i gruppi ministranti della nostra diocesi a partecipare ai raduni mondiali a Roma che vedeva la partecipazione di circa 80 mila ministranti provenienti da oltre 175 nazioni. E ancora oggi molti di quei bambini diventati adulti (alcuni papà e mamma e altri preti) ricordano con grande entusiasmo.  Diverso è stato l’incarico di membro del Consiglio Presbiterale. Questo incarico non me l’aspettavo perché è l’organo dei più stretti collaboratori che consigliano il Vescovo nelle sue scelte pastorali per l’intera Diocesi. Certamente mi ha riempito di orgoglio, ma nello stesso tempo mi ha caricato di una grande responsabilità. Chiedo ogni giorno la grazia del discernimento per meglio leggere i bisogni di tutto il popolo credente della nostra realtà”:

Quattro anni fa, sei stato promotore dell’inserimento della tua parrocchia e della cittadina di Niscemi in un grande progetto con il distretto di Gela, Mazzarino e Butera con Fondazione Sud per attuare iniziative di inclusione sociale e dispersione scolastica attivando un Centro per bambini e famiglie. Il programma funziona?

“In parte si, perché nel momento in cui abbiamo iniziato il progetto ebbe un grande successo di partecipazione, ma poi il Covid ci ha fatto fermare per tutto il tempo del lockdown. Riprendere a scaglioni con meno bambini e famiglie, non è stato semplice. Nello stesso tempo abbiamo avviato un altro progetto creando un laboratorio di teatro ed uno di cinema e fotografia per adolescenti che ha coinvolto circa 80 ragazzi di scuola media e superiore ottenendo grandissimi consensi tra i cittadini. A distanza di due anni dalla fine del progetto i ragazzi stanno continuando. Adesso sempre con il distretto Gela Niscemi Butera e Mazzarino siamo in fase di programmazione per un nuovo piano di lavoro”.

In due occasioni, hai partecipato nelle vesti di cantante al programma televisivo di Canale 5, “The winner is”. Cosa ti ha spinto a farlo?

“Preferirei non rispondere a questa domanda, ma tuttavia lo faccio per una ragione: onore alla verità. A me piace da sempre cantare. Non l’ho mai fatto professionalmente ma da dilettante. Quella volta mi spinse l’idea di voler fare qualcosa di utile per la mia città, ma quando arrivai negli studi di Mediaset mi resi conto del grande bluff che c’era dietro. L’audience valeva più delle persone. Bisognava dire e fare quello che loro dicevano. Anche le canzoni mi furono imposte senza assolutamente valorizzare i miei gusti o le mie capacità vocali”.

Qual è la canzone a cui sei più legato?

“Una vera e propria canzone non ce l’ho.  Ho alcuni brani che mi piacciono più di altri: Perdere l’amore di Massimo Ranieri; Tanta voglia di lei dei Pooh; L’acrobata di Michele Zarrillo e Vivo per lei di Andrea Boccelli. Solitamente durante una festa mi diletto a cantare e animare le serate”.

Se di quelle appena elencate dovessi sceglierne una, quale sarebbe e a chi la dedicheresti?

“Scelgo Vivo per lei. La musica è come la fede. Da quando l’ho incontrata mi è entrata dentro e c’è restata. Mi fa vibrare forte l’anima ed è come musa ispiratrice per tutte le cose che faccio. Attraverso la mia voce si espande e amore produce. È la protagonista principale della mia vita e oggi la dedico alla mia meravigliosa parrocchia del Sacro Cuore di Gesù di Niscemi e a tutti i miei collaboratori, senza i quali forse avrei fatto meno della metà delle cose che vi ho raccontato in questa intervista”.

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“La politica deve stare lontana dalla mafia. A Gela, esperienza di valore”

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Il prossimo 6 maggio, a Roma, assumerà il ruolo di Consigliere Ministeriale presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza. E’ stato nominato direttamente dal Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: gli sono state ampiamente riconosciute elevate attitudini investigative, frutto di un percorso professionale contraddistinto dalla lotta alla mafia in territori difficili del Sud Italia e per essere riuscito a gestire eventi e fenomeni assai complessi e complicati sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica. Nato a Messina, sessantadue anni appena compiuti, il dottore Salvatore La Rosa, laureato in Giurisprudenza ed abilitato alla professione di avvocato, ha conseguito i titoli dell’Alta Formazione ed il Master di II livello in “Sicurezza, Coordinamento Interforze e Cooperazione Internazionale” e quello in “Scienze Criminologico Forensi” presso l’Università di Roma “La Sapienza” e, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, la Laurea specialistica in “Scienze delle Pubbliche Amministrazioni”. Dal 2019 e fino ai giorni nostri, ha diretto la Questura di Trapani e prima ancora quella di Ragusa. Tra gli altri incarichi, è stato anche vicario del Questore di Messina. Dal 2005 al 2007 è stato a capo del Commissariato di Gela. 

“E’ stato un biennio intenso e di grandi soddisfazioni professionali – ci tiene a precisare -. Ricordo che l’impatto fu davvero complicato: il primo giorno, subito un intervento per un omicidio a Mazzarino e, a seguire, la partecipazione al Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica in ragione della partita di calcio di Serie C Gela – Napoli, che si sarebbe tenuta la domenica seguente con la previsione dell’arrivo di 1000 tifosi partenopei. Ma ero già discretamente “strutturato”. Arrivavo a Gela dopo un triennio passato a Lamezia Terme, dove era in corso una guerra di mafia, ed in precedenza avevo lavorato in Sicilia, nel siracusano, per una dozzina d’anni tra la Squadra Mobile e i Commissariati distaccati. A Gela ho trovato un ufficio ben organizzato, composto da tante persone perbene che non si sono mai risparmiate. Il lavoro era tanto, sia nell’ambito della Polizia Giudiziaria che sotto il profilo del controllo del territorio, ma gli uomini erano disponibili e professionali. Peraltro, in quel periodo, il Commissariato di Gela era impegnato in parecchi servizi di scorta e tutela che assorbivano un gran numero di personale. Per me è stata un’esperienza molto positiva che mi ha ulteriormente rafforzato”.

In quel periodo di tempo a Gela, è stato fatto tutto oppure si poteva fare di più?

“Si può sempre fare di più e meglio ma, certamente, non possiamo rimproverarci nulla, almeno sotto il profilo dell’impegno. Grande è stata la collaborazione con la Squadra Mobile di Caltanissetta e con le Procure pur nella consapevolezza degli impegni sempre maggiori. Proprio in ragione della palpabile sofferenza dovuta al grande carico di lavoro, l’Amministrazione, nel periodo in cui io ho diretto l’Ufficio, ha spostato al Commissariato di Gela quasi 50 uomini che già prestavano servizio in quel territorio ma nell’ambito delle specialità della Polizia di Stato e che, verosimilmente, erano sottoimpiegate. La soppressione degli Uffici di Polizia di Frontiera Marittima e del Posto di Polizia Ferroviaria, con conseguente trasferimento del personale al Commissariato di Ps. fu di grande aiuto non solo sul piano pratico ma anche su quello psicologico, soprattutto per gli uomini che già prestavano il loro servizio al Commissariato di via Calogero Zucchetto”

A Gela convivono due se non tre consorterie mafiose: Cosa Nostra, Stidda e gruppo Alferi. Andando specificatamente nel dettaglio, come sono organizzate – secondo la sua esperienza sul campo – e come riescono (nonostante i numerosi arresti) ad infiltrarsi nel tessuto locale?

“La domanda dovrebbe essere rivolta a chi ha oggi il polso della situazione. Io sono andato via da Gela nel 2007 e a distanza di 17 dalla chiusura della mia esperienza nel territorio sarei, a dir poco, presuntuoso a cimentarmi in un’analisi di questo tipo. Posso solo dire che, nel periodo della mia permanenza, tra “Cosa Nostra” e “Stidda” vi era un patto di “sospettosa” non belligeranza, condito da una equa spartizione dei profitti. La situazione era, a mio modo di vedere, determinata dalla necessità delle consorterie mafiose di mantenere una posizione più defilata in ragione del gran numero di carcerazioni e condanne subite, che le avevano fortemente indebolite ed, ancora, dall’esigenza di evitare di innalzare troppo il livello dell’attenzione da parte delle Forze di Polizia in ragione della presenza nell’area di importanti latitanti. Con riferimento al cosiddetto gruppo “Alfieri” posso dire che “u Ierru”, (Giuseppe Alfieri, ndr) capo dell’organizzazione, già all’epoca era attivo e riusciva a convivere con le consorterie mafiose più strutturate sul territorio per le identiche ragioni che ho esposto e anche perché si occupava di segmenti del malaffare cui non erano direttamente interessate “Cosa Nostra” e “Stidda”.

C’è voglia di cambiamento, di ribellione all’oppressione mafiosa in Sicilia. Almeno così sembra.  La gente, però, scende in piazza solo a seguito di fatti emergenziali. Come mai secondo lei?

“Si, è vero. I grandi movimenti di massa contro la mafia, in Sicilia come altrove, si percepiscono solo quando succede qualcosa di veramente eclatante e questa è la risultante di una percezione attenuata, se non addirittura assente, del fenomeno. Dalla stagione delle stragi son passati 30 anni e più e le giovani generazioni non hanno vissuto quei momenti tragici. Il ricordo è labile o del tutto mancante. La necessità di fare memoria dei fatti accaduti e dei martiri della mafia nonchè di spiegare il fenomeno ai giovani è oggi ancor più importante che in passato. Noi della Polizia di Stato siamo, purtroppo, “azionisti di maggioranza” nella triste graduatoria di operatori uccisi dalla ferocia mafiosa e ci impegniamo in ogni parte del territorio nazionale a dare il nostro contributo a quest’opera di sensibilizzazione delle coscienze nella lotta al crimine organizzato. Purtroppo non tutte le agenzie e le formazioni sociali che, a vario titolo, si occupano dell’educazione dei nostri giovani si stanno dimostrando all’altezza del compito. Molto di più si potrebbe fare sia nell’ambito scolastico, dove sarebbe opportuno dare più spazio allo studio della nostra storia recente e ai valori che ispirano la Carta Costituzionale, che in quello familiare, dove spesso si educano i figli non ai valori su cui si fonda la nostra società ma, piuttosto, all’utilizzo di espedienti e prepotenze per ottenere guadagni e successo. Per formare una “cultura antimafia” occorre intervenire sui giovani, anzi sui giovanissimi, con un’attività di formazione ed informazione che deve, affondando le radici nella storia, spesso misconosciuta, della mafia e dell’antimafia, servire ad educare ai valori della giustizia, della solidarietà, dei diritti e dei doveri che sono il distillato della nostra Costituzione. Lo dico da padre di tre figli, tutti nati dopo le stagioni delle stragi e che hanno un posto di osservazione privilegiato derivante proprio dall’essere figli di un operatore impegnato “per mestiere” nella lotta alla mafia, ma mi raccontano della assoluta assenza di conoscenza del fenomeno da parte di molti dei loro amici e compagni. In una parola: occorre una rivoluzione copernicana per fornire ai giovani gli strumenti culturali per costruire una società libera da condizionamenti”.       

Le cronache raccontano di un intreccio tra mafia e politica. E’ la mafia ad avere bisogno della politica o l’esatto contrario?

“La politica vera è esclusivamente “servizio” ed ha quindi bisogno solo di valori positivi da mettere in campo nel quotidiano a favore dei cittadini. Dato ciò e considerato che la mafia è solo disvalore, sono convinto che è la politica che debba stare lontano. La criminalità, di contro, diventa mafiosa proprio perché si infiltra nel tessuto sociale contaminandone le strutture, in primis quelle politico/amministrative. La mafia non sarebbe mafia senza infiltrarsi nella politica condizionandone l’operato. Se questa contaminazione non ci fosse saremmo di fronte ad organizzazioni criminali ma non alla mafia. Fatto questo breve quadro di riferimento, non posso che affermare che la politica che ha bisogno della mafia per affermarsi non è più politica ma essa stessa è mafia. Quindi, ad esempio, pensare che di fronte a 10 o 10000 voti che puzzano di mafia non prenderli equivarrebbe a farli prendere ad altri non significa ragionare pragmaticamente ma pensare da mafioso”.

Con quali mezzi potrà essere limitato se non completamente sradicato, questo subdolo legame che persiste nel Sud Italia e soprattutto in Sicilia?

“Come ho già detto, è solo una questione culturale. Occorre informare e formare le nuove generazioni fornendo loro gli strumenti culturali. La normativa di settore credo sia più che adeguata nonchè tra le più avanzate nel mondo. L’attività della Magistratura e delle Forze di Polizia è forte e determinata ma pensare che con la sola repressione si possa debellare il fenomeno è pia illusione”.   

Quando il 16 gennaio del 2023, ha saputo che il boss dei boss Matteo Messina Denaro era stato arrestato, cosa ha provato?

“E’ stato un importante momento di riscatto e di liberazione per la nostra terra di Sicilia e, credo, per tutta l’Italia. Si trattava del latitante in cima alla lista dei maggiori ricercati d’Europa e nella top five mondiale. Un successo strepitoso per lo Stato, anche se avvenuto dopo 30 anni di ricerche. Per quanto mi riguarda mi è dispiaciuto che non sia stato rintracciato dalla Polizia di Stato ma la cosa che ho subito pensato è che la sua cattura avrebbe determinato una profonda rivisitazione degli equilibri all’interno dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra”, non solo trapanese ma nel suo complesso, e che occorreva tracciare, senza ritardo ed in perfetta sinergia con la Magistratura inquirente e con la altre Forze di Polizia, una nuova strategia per individuare, per tempo, i percorsi che l’organizzazione mafiosa avrebbe potuto seguire dopo l’arresto”.

Anche voi eravate sulle tracce del padrino?

“Lo sforzo della Polizia di Stato per individuare il latitante è stato grande e ininterrotto. Il risultato, purtroppo, non ci ha premiato ma non abbiamo nulla da rimproverarci. Onore al merito, oltre che alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo che ha coordinato le attività di ricerca, ai colleghi che hanno materialmente proceduto alla cattura. Mi preme sottolineare che, comunque, questa è la risultante dello sforzo, prolungato e determinato, che tutti gli Enti che si occupano di Polizia Giudiziaria sul territorio hanno prodotto. L’attività dispiegata negli anni nei confronti della famiglia del latitante e dei suoi sodali è sotto gli occhi di tutti. Una pletora di arresti e fermi, con le conseguenti condanne, nonchè di sequestri di beni di ingente valore, che sono stati sottratti alla famiglia e ai suoi fiancheggiatori, danno la dimensione dello sforzo prodotto dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia, nessuna esclusa, e della determinazione con cui è stata indebolita la rete di protezione che era posizionata attorno al ricercato”.

Ha sperato che, dopo il suo arresto, Matteo Messina Denaro cominciasse a collaborare?

“Certamente. Tutti coloro che stanno dalla parte della verità e della giustizia lo hanno auspicato”.

Quanto sono importanti le rivelazioni dei pentiti?

“L’apporto fornito alle indagini dai collaboratori di giustizia è stato ed è determinante per penetrare fino in fondo nei gangli delle famiglie mafiose e nelle poliedriche interessenze criminali che le riguardano. Si tratta di uno strumento irrinunciabile per combattere le mafie”.

Delle tante tappe lavorative, qual è stata l’esperienza che l’ha formata e fortificata e perché?

“Non saprei dare una risposta secca. Ho affrontato l’avventura professionale con umiltà e tanta voglia di imparare, anche dagli inevitabili errori fatti. Dal punto di vista della mia formazione si è trattato di una sorta di “working in progress” e, quindi, posso affermare che tutto è stato importante. Tuttavia, il periodo che, dal punto di vista operativo, mi ha più di altri formato è stato quello trascorso, nella prima metà degli anni ’90, alla Squadra Mobile di Siracusa. Eravamo nel bel mezzo della guerra di mafia e l’attività di investigazione e di repressione era febbrile ed appassionante. I risultati investigativi furono eccellenti. Si dormiva poco o nulla ma bisognava restare lucidi e soprattutto umani. Il rischio più rilevante era, infatti, quello di perdere, di fronte ai tanti orrori che si presentavano frequentemente davanti agli occhi, la sensibilità che, invece, deve essere la caratteristica principale per un poliziotto che, per mestiere, è chiamato ad intervenire lì dove c’è il dolore. Dal punto di vista organizzativo, invece, ho ricevuto tanto dall’esperienza fatta, subito dopo il periodo trascorso a Gela, quale Capo di Gabinetto della Questura di Siracusa (dall’agosto 2007 all’ottobre 2012). Sono stati 5 anni intensi durante i quali abbiamo affrontato tante situazioni emergenziali come ad esempio, e senza la pretesa di essere esaustivi, i tanti sbarchi di immigrati, i frequenti scioperi che coinvolgevano il Polo Petrolchimico, i confronti, talvolta anche serrati ma sempre costruttivi, con le Organizzazioni Sindacali. Ma, soprattutto, nel 2009 abbiamo organizzato in modo inappuntabile, e lo dico con un pizzico di immodestia, il G8 dei Ministri dell’Ambiente. La pianificazione e la gestione dei complessi servizi di ordine e sicurezza pubblica correlati a quell’importante evento hanno segnato senz’altro il mio percorso e mi hanno completato professionalmente, atteso che sino ad allora mi ero misurato con uffici più prettamente “operativi”, segnatamente i Commissariati distaccati e la Squadra Mobile”.

Qual è il suggerimento che dà sempre ai suoi uomini?

“A chi mi collabora dico sempre che nel nostro lavoro non ci sono battitori liberi ma, al contrario, è necessario essere e sentirsi parte di una squadra. Solo lavorando in team si possono ottenere risultati all’altezza delle attese di coloro che serviamo, cioè i cittadini affidati alle nostre cure. Nessuno deve restare indietro o essere messo da parte poiché tutti, anche coloro che hanno maggiori difficoltà, possono e devono essere messi in condizione di fornire il proprio apporto. Per ottenere il risultato che vogliamo dobbiamo confidare nella forza del gruppo e nella lealtà reciproca e, soprattutto, mai dobbiamo pensare che andrà tutto bene, confidando nella buona sorte. Al contrario, dico ai miei uomini, responsabilizzandoli, che tutto andrà come noi faremo in modo che vada”.

E quello che dà ai ragazzi che vengono attratti dai soldi facili?

“Mi permetto di ricordare ai giovani che la strada pianeggiante o, addirittura, in discesa non porta da nessuna parte anzi conduce spesso a successi illusori. Il crimine con le sue chimere, le sue ricchezze, i suoi modelli è fortemente attrattivo ma di norma conduce al carcere o addirittura alla morte. Basta guardarsi attorno: i criminali si uccidono tra loro, finiscono in carcere per tanti anni o, ben che gli vada, vivono nascondendosi come topi. Per far funzionare il cosiddetto “ascensore sociale” occorre rifuggire da questi modelli effimeri e con impegno e fatica seguire la strada più irta, rimboccandosi le maniche. D’altronde più si percorre il sentiero che inerpica, più si arriva in alto ed alla fine della dura salita il panorama sarà bellissimo. Ai giovani, quindi, dico: non abbandonate mai i vostri sogni, studiate e lavorate con impegno ed onestà, battetevi per una società più giusta e non mollate mai, neanche quando tutto potrebbe apparire perduto. Ricordate che c’è sempre un’altra via, mantenete la barra dritta, acquisite con passione gli strumenti culturali che vi necessitano ed i risultati verranno. Ricordate sempre che qualunque sia la posizione da cui partite sarete sempre e soltanto voi gli artefici del vostro futuro”.

Ci leggono anche dal Commissariato di Gela. Cosa vuole dire a chi l’ha conosciuta? 

“Ho un ottimo ricordo degli uomini che mi hanno collaborato a Gela. Non so, in considerazione degli anni che sono trascorsi, quanti di loro siano ancora in attività e quanti invece siano andati in pensione. Com’è normale che sia, di molti di loro ho ricordi nitidi, di altri un po’ più sfocati ma li saluto tutti affettuosamente e dico loro che sono convinto che, insieme, abbiamo fatto un buon lavoro per la città, i cittadini onesti e per la Polizia di Stato. Li ringrazio singolarmente per quello che hanno saputo dare ed auguro a tutti ogni bene per il futuro”.

Nel corso di questi anni, il dottor La Rosa ha ricevuto la nomina di cavaliere e quella di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. La sua bacheca è ricca di encomi solenni e lodi per attività di servizio conferiti dal Dipartimento della Polizia. 

Perché ha scelto di fare il poliziotto? 

“Le ragioni che mi hanno indotto a fare questa scelta, non solo lavorativa ma anche di vita, sono molteplici. Fin da ragazzo, ho sempre sentito forte la necessità di dare il mio contributo per costruire una società più giusta, di combattere le prevaricazioni e la disonestà. Accarezzavo, quindi, l’idea di entrare a far parte della Polizia o della Magistratura inquirente per dare il mio contributo. Gli eventi della seconda metà degli anni ’70, con riferimento al terrorismo, e degli anni ’80, con riferimento alla criminalità organizzata, hanno ulteriormente consolidato la mia determinazione. Per questo motivo scelsi di iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza per poi tentare quest’avventura. Fu poi la lettura del libro: “Mafia – l’atto di accusa dei giudici di Palermo”, a cura di Corrado Stajano, ad essere stata determinante per le mie scelte future. Si tratta, in buona sostanza, di uno stralcio della sentenza-ordinanza prodotta dall’Ufficio Istruzione di Palermo che condusse poi al maxi processo a “Cosa Nostra”. Fu una lettura appassionante e travolgente che ha definitivamente rafforzato la passione per questo mio lavoro. Da lì al concorso per Vice Commissario di Polizia il passo fu breve”.    

Se non fosse riuscito nell’intento di entrare a far parte della Polizia, cosa avrebbe fatto?

“Oggi come oggi, non riesco a vedermi in un altro ruolo. Tuttavia, se il progetto non si fosse realizzato, avendone la possibilità, avrei scelto un lavoro che potesse soddisfare, almeno in parte, la mia necessità di fornire un contributo per costruire una società migliore. Forse avrei scelto di fare il docente per cercare di indirizzare i giovani su una strada positiva”. 

Sicuramente contento per il Trapani che ha stravinto il campionato di serie D

“Sono arrivato a Trapani quando la squadra di calcio della città disputava la Serie B ed aveva, qualche anno prima, sfiorato la promozione nella massima serie. Purtroppo le cose non andarono bene negli anni a seguire con fallimenti e cancellazioni che avevano fatto sparire la città di Trapani dal calcio che conta. In quest’ultima stagione sportiva, con l’avvento di una nuova proprietà, la squadra e la città stanno vivendo un periodo straordinario. Lo stadio è tornato un grande luogo di ritrovo e divertimento, la squadra ha stravinto meritatamente il campionato di Serie D ed il prossimo anno si cimenterà tra i professionisti. Sotto il profilo dell’ordine pubblico è stato un impegno notevole ma, in onestà, devo dire che il tifo trapanese è sano e non può certo annoverarsi tra le piaghe che affliggono la città. Purtroppo non è mancato qualche idiota ma è stato subito isolato dalla società, che ha preso immediatamente le distanze, e dai veri tifosi, che vanno allo stadio solo per divertirsi e sostenere la propria squadra. Il resto lo hanno fatto i miei uomini che, individuando gli stupidi e i violenti, mi hanno consentito di emettere parecchi Daspo così da mettere in sicurezza lo stadio, i veri tifosi e lo spettacolo. Mi piace aggiungere che la città di Trapani sta vivendo quest’anno un’altra grande avventura sportiva nella pallacanestro. La squadra dei “Trapani Shark”, che disputa la Serie A2, è stata attrezzata per il salto nella massima serie e nelle gare casalinghe, spesso, si registra il sold-out con oltre 3500 spettatori che gremiscono il palasport. A breve inizieranno i play-off e questo sarà, senz’altro, un rinnovato impegno per la Questura di Trapani ma anche, e soprattutto, uno spettacolo sportivo di alto livello a disposizione degli appassionati di basket trapanesi. Per rispondere alla sua domanda dico, senz’altro, che sono sempre molto contento quando lo sport diventa protagonista della nostra società poiché attraverso la passione per lo sport si innesca un circolo virtuoso. Di norma, in questi casi, i giovani sono stimolati ad avvicinarsi all’ambiente sportivo che li induce ad intraprendere percorsi positivi, sani e formativi. Se riflettiamo, infatti, i ragazzi che fanno sport difficilmente li vediamo bivaccare per strade o bar. La mattina vanno a scuola, il pomeriggio lo dividono tra lo studio e l’allenamento. Lo sport aiuta a rispettare le regole, fa comprendere cosa sia la disciplina, il duro lavoro, la fatica ed il sacrificio per raggiungere un risultato agognato. Dire che “lo sport è scuola di vita” può sembrare una frase fatta ma non lo è affatto”.

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Ipse Dixit

Giuliana Fraglica, l’estro e la fantasia per i giovani

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“Noi adulti abbiamo bisogno di parlare ai giovani, di offrire modelli positivi e alternativi a quelli che loro seguono sui social per farli crescere consapevolmente. Dobbiamo ispirare i giovani con le nostre vittorie o attraverso il come siamo riusciti a superare momenti bui e difficili! Invece pretendiamo e basta senza ascoltare ciò di cui loro hanno bisogno. È inutile paragonare la nostra generazione a quella di oggi. Che senso ha paragonare? Bisogna avere soluzioni per affrontare il cambiamento, non esiste una generazione superiore ad un’ altra, esiste l’umanità che cambia e noi dobbiamo stare al passo, offrendo ai giovani un contributo, una mano, fiducia e amore!”

A primo impatto, potrebbe essere l’incipit di una narrazione dei tanti libri di sociologia che invadono gli scaffali impolverati dei negozi; niente di tutto questo. E’ invece il pensiero composto, dettagliato e preciso di Giuliana Fraglica. Favolista, intrattenitrice, cantante. Iperattiva, sempre sorridente. E’ riuscita a trasformare la sua passione per la scrittura, in una vera vocazione.

“Ho sempre scritto, sin da bambina, già alle elementari. Nonostante la dislessia e le difficoltà che da essa derivano, leggere e scrivere sono sempre state attività meravigliose che mi hanno regalato sempre tanta gioia!”

E’ più difficile scrivere testi musicali o quelli teatrali?

“Non è una questione di difficoltà ma di tempi di realizzazione che per quanto riguarda il teatro sono sicuramente più lunghi”.

I tuoi lavori (mi riferisco ai ibri) sono delle proprie narrative scolastiche ritenute altamente educative. Da cosa prendi spunto per scriverli?

“Mi piace guardarmi attorno, ascoltare tanto le persone soprattutto i bambini e i ragazzi, leggo molto e poi ogni cosa diventa un pretesto per raccontarla attraverso la lente delle mia fantasia”.

Quotidianamente sei a stretto contatto con i bambini. Quali sono le loro fragilità, le loro problematiche?

“Molti bambini sentono il peso delle aspettative degli adulti. Ho scritto due serie di  “Tu sei una meraviglia” proprio per puntare un faro su questi argomenti”. 

Secondo te, i bambini vengono ascoltati dagli adulti oppure si tratta di casi rari quando ciò accade?

“Non posso generalizzare, però è sempre la qualità dell’ascolto che fa la differenza. Avere un dialogo di qualità con un reale livello d’ascolto, che tu sia bambino, adulto o ragazzo, oggi è difficile”. 

Quando un bambino sale sul palco, cosa prova?

“I bambini sul palco si divertono. Sono un esempio costante per me”.

E tu cosa provi?

“Quando guardo loro sul palco, sono felice e mi emoziono. Sono eccezionali! Così come anche gli adolescenti, perché non lavoro solo coi bambini. I ragazzi sono una potenza incredibile. Io credo nelle future generazioni! Cosa provo io quando sto sul palco? Mi diverto molto da sempre!”

Cosa ricordi della tua prima apparizione datata 1994 dinnanzi al pubblico, in occasione dei concerti live?

“Sono passati 30 anni…. Di quella sera sul palco del Royal mi ricordo che ero felice perché stavo facendo la cosa che mi piaceva di più ovvero cantare e poi tutta la gente in piedi ad applaudire. All’ inizio non mi sono resa conto poi è stata una emozione incredibile. Da lì è nato tutto”.

Un altro anno importante è il 2002 quando prendi parte al progetto Flanders del concittadino Vincenzo Callea. Come è nata la collaborazione con il dj e producer di fama internazionale?

“Vincenzo seguiva il nostro progetto da lontano conoscendo già me e gli altri componenti della band da molto tempo, poi quando ha sentito alcune nostre produzioni che lo hanno convinto ha deciso di collaborare con noi. È stata una collaborazione meravigliosa anche da un punto di vista umano!”

Più facile scrivere testi musicali in italiano o in inglese? 

“Per me è più facile scrivere testi musicali in inglese perché ascolto musica americana da sempre e parlo fluentemente l’inglese. La lingua inglese è stata anch’essa una passione che ho coltivato studiando da sola con l’ausilio di libri, audiocassette e soprattutto ascoltando musica”.

Che sensazione hai provato quando nel 2008 il singolo Behind è balzato al primo posto della classifica americana Billboard Airplay?

“Ero incredula ma molto felice soprattutto quando sono andata negli Stati Uniti e le persone cantavano la mia canzone. Ho vissuto tutto con grande serenità, cantare, scrivere, recitare sono attività come qualsiasi altra, bisogna sempre stare coi piedi per terra”.

Chi è stato per te Antonio Caruso?

“Il mio maestro di recitazione e mentore nella scrittura teatrale. Il mio primo esempio”.

Tutti i lavori che hai fatto, sono figli del forte attaccamento e dedizione alla tua professione e come i figli sono tutti belli. Sei d’accordo?

“Assolutamente si. Mi chiedono sempre quale delle mie attività mi piaccia fare di più, capisco che la risposta può suonare banale ma mi piacciono tutte. Spesso mi manca il tempo però e vorrei averne di più”.

Qual è il miglior complimento che hai ricevuto?

“Me lo ha fatto una bambina in un tema che ha scritto per la scuola e che la maestra mi ha condiviso. Scrisse così: “ vorrei essere Giuliana Fraglíca che fa tante cose: è un’attrice, canta, gioca coi bambini, ha scritto quattro libri ed è sempre felice e ama quello che fa”. Penso che nessuno mi abbia mai descritto così efficacemente”.

Solo complimenti o anche critiche?

“Mi hanno dato tanti consigli nella vita e di questi consigli ho sempre preso quello che mi serviva ed è stato importante”

Perché a Gela è così difficile emergere, soprattutto in ambito teatrale e musicale? 

“Perché non abbiamo una tradizione culturale in tal senso”.

Quando con i tuoi amici parli di Gela, cosa dici?

“Io parlo di Gela sempre con grandissimo amore. Cerco di rendere onore e omaggio a questa città cercando sempre di fare del mio meglio. Le difficoltà ci stanno dappertutto, soprattutto al meridione. Penso che singolarmente ognuno possa fare la differenza”.

Il tuo ultimo libro letto?

“Ninfee nere di Michel Bussi”

Progetti per il futuro?

“Per adesso voglio solo portare in scena i miei allievi del laboratorio di teatro educativo Opláb. Il mio futuro è sempre il presente. Ho la fortuna di lavorare coi ragazzi e sento che loro sono in cerca sempre di nuovi stimoli per superare i loro limiti. Hanno delle bellissime idee, visione, progetti e sanno ancora sognare grandi cose. Bisogna amare i giovani!! Dovremmo dare più fiducia ai giovani e criticarli meno e noi adulti dovremmo essere sempre più un esempio e invece stiamo perdendo questa incredibile opportunità. Perché, come diceva il grande Sandro Pertini,  “I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo.”

Chiudiamo con una tua poesia?

“Miei cari giovani. Fate emergere

Il coraggio nelle sfide quotidiane:

Gli eroi dimorano nei vostri cuori!

Realizzate una vittoria dopo l’altra

e piantate semi di pace!”

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Ipse Dixit

“Bisogna continuare a lavorare nelle scuole per veicolare e diffondere la cultura della legalità”

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Desidero sapere, come premessa iniziale, se cortesemente preferisce essere chiamata Questore o Questora?

“Pur essendo una forte sostenitrice del rispetto dei generi, tuttavia, ci sono degli incarichi che non hanno bisogno di essere declinati al femminile, anche per un fatto di orecchiabilità. Signora Questore mi piace di più”.

Pinuccia Albertina Agnello, il prossimo 15 maggio, compirà un anno alla guida della Questura di Caltanissetta. Nata a Scordia, graziosa cittadina in provincia di Catania, circondata da agrumeti e uliveti, il Dirigente Superiore della Polizia di Stato si è laureata con lode in Scienze Politiche nel 1986 e in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni nel 2007 presso l’Università degli Studi di Catania. Ha sempre avuto una vocazione per la legalità e per la giustizia. 

Quale bilancio traccia a quasi un anno dal suo insediamento alla Questura nissena?

“Un bilancio positivo in termini di rimodulazione del controllo del territorio a cura delle pattuglie preposte sia nel Capoluogo che nei territori di competenza dei Commissariati distaccati di Gela e Niscemi col costante supporto delle pattuglie del Reparto Prevenzione Crimine di Palermo o di Catania, messe a disposizione dal Servizio Controllo del Territorio di Roma; progetti di realizzazione di adeguati spazi per uffici deputati alla ricezione pubblico; istituzione di presidi di polizia presso i Pronto Soccorso di Caltanissetta, Gela e Niscemi; organizzazione di seminari formativi per tutto il personale della Polizia di Stato, allargati alle altre forze di polizia, su temi importanti quali il Codice rosso, il disagio psico sociale ed altro ancora.  Nel bilancio positivo ci tengo a inserire il consolidato ottimale rapporto interistituzionale che intercorre con la locale Prefettura, con i comandi delle altre forze di polizia e con altri importanti enti istituzionali operanti sul territorio della provincia”.

La pianta organica della Polizia nel Nisseno è sufficiente o bisognerebbe incrementarla?

“Dopo il lungo blocco del cosiddetto turn over a causa della legge di stabilità che aveva anche impedito di indire concorsi per l’assunzione di giovani leve per i ruoli degli agenti e degli ispettori, da qualche anno la ripresa dei concorsi pubblici ha cominciato a dare linfa vitale agli uffici di polizia. Non abbiamo ancora del tutto coperto le previste piante organiche ma siamo a buon punto. Peraltro, ogni 6 mesi, in coincidenza con la fine dei corsi di formazione per agenti della polizia di stato e all’incirca ogni 12/18 mesi, in coincidenza con la fine dei corsi di formazione per vice ispettori, il Dipartimento della pubblica sicurezza prevede il potenziamento costante di personale anche per la Questura di Caltanissetta”.

Quali sono i reati più diffusi in provincia e dove e come bisogna intervenire?

“Quella di Caltanissetta è una provincia vasta con una concentrazione urbanistica variegata e per niente   uniforme rispetto al territorio complessivo. Anche i fenomeni criminosi hanno questo aspetto disgregato, concentrandosi di più in alcune zone rispetto ad altre. L’attenzione degli uffici investigativi è dedicata alle zone dove ancora insistono storiche famiglie mafiose (sia quelle vicine alla Stidda che quelle facenti capo a Cosa Nostra) che purtroppo sono dedite al traffico di sostanze stupefacenti. Tuttavia, si dedica molta attenzione agli aspetti di prevenzione dei reati attraverso il pedissequo controllo del territorio, sia con i servizi ordinari che con la predisposizione di servizi straordinari, alcune volte interforze sulla base di intese raggiunte in sede di Riunioni tecniche di coordinamento presiedute dal Prefetto”.

Più volte è stato rimarcato che bisogna segnalare ogni fatto delinquenziale di cui si è vittima. Il vostro appello è stato recepito dal cittadino?

“Bisogna continuare a lavorare nelle scuole o attraverso i mass media per veicolare e diffondere la cultura della legalità, intesa anche nei termini di una sicurezza partecipata che passa anche attraverso le segnalazioni del cittadino. In questo ambito, buoni risultati si stanno ottenendo attraverso la conoscenza dell’utilizzo dell’App YouPol, sulla quale l’utente gratuitamente anche in forma anonima può denunciare dei fatti di cui è venuto a conoscenza ovvero chiedere aiuto”.

In provincia di Caltanissetta, sono presenti quattro mandamenti mafiosi. Tanti sono stati negli anni gli arresti e le successive condanne.  Si sbaglia quando si pensa che le “famiglie” e i loro intrecci siano stati definitivamente debellati?

“Tantissimo è stato fatto dalla Polizia di Stato e dalle altre forze di polizia preposte alle attività di polizia giudiziaria già a partire dai primi anni ’90 nel territorio della provincia avverso le organizzazioni mafiose ma non bisogna demordere o allentare le attenzioni investigative. La mafia sa come adeguarsi alle nuove economie ovvero al tessuto socio-economico del territorio su cui punta i propri illeciti interessi; pertanto, è importante che si continui a studiare l’evoluzione del fenomeno e affrontarlo di conseguenza”.

Per decenni, all’ingresso della città, abbiamo letto il cartello “Gela città videosorvegliata”. Nei fatti non è stato mai così.  Poche settimane addietro, in Commissariato, avete presentato l’impianto di videosorveglianza, immediatamente attivo. Cosa prevede il nuovo (e finora unico) occhio del grande fratello?

“Il Prefetto, proprio in occasione della presentazione del nuovo sistema di videosorveglianza cittadina non ha avuto alcuna remora a sottolineare quel paradosso ma ha anche rimarcato l’importanza di guardare oltre e andare avanti per il bene della società pulita della città di Gela. Come autorità di pubblica sicurezza tecnico operativa della provincia, posso aggiungere che si tratta di un sistema di videosorveglianza di alti livelli che consentirà alle forze di polizia e alla magistratura di perfezionare la ricerca e quindi la raccolta di prove oggettive di reati da perseguire”.

Ci sono le condizioni per riavere a Gela un’associazione antiracket dopo la cancellazione di quella precedente?

“Perché no? Siamo pronti a collaborare il Prefetto, nell’ambito della sua specifica competenza, a valutare l’attendibilità delle richieste e l’aderenza ai criteri previsti dalla normativa vigente”.

Inchieste hanno permesso di sgominare a Gela numerosi soggetti dediti alla detenzione e allo spaccio di sostanze stupefacenti. Nonostante tutto, il flusso della droga è in continuo aumento. Come mai?

“Tutto dipende purtroppo dalla elevata domanda e, come una qualsiasi legge di mercato, l’offerta va di pari passo alla domanda…Ecco perché è importante lavorare a 360 gradi in rete tutti gli attori istituzionali, ognuno per la parte di specifica competenza, al fine di consentire alle giovani generazioni di crescere in un ambiente sano, non degradato, culturalmente alto, con buone occasioni di impiego facendo di tutto per non indurli a entrare nella macchina infernale della dipendenza”.

Perché tanti ragazzini, soprattutto nelle piccole realtà della provincia, abbandonano gli studi?

“In certo qual modo, la risposta che le ho dato prima fornisce una chiave di lettura adeguata a quello che mi sta chiedendo. La povertà culturale di una società si ripercuote soprattutto sui giovani. Le istituzioni preposte ai controlli della frequenza scolastica non possono mollare la presa perché la dispersione scolastica è già la punta di un iceberg che non lascia intravedere nulla di buono”.

Lasciando la scuola e non trovando lavoro, non sono facilmente appetibili dalla malavita?

“Sono sicuramente più a rischio, anche perché la malavita attira con la falsa illusione del facile guadagno che darebbe la possibilità di ostentare una qualità della vita basata soltanto sulle cose materiali, prive di valori e fondamenti etici e morali”.

Troppi femminicidi in Italia, le cronache sono all’ordine del giorno. Nonostante le giornate di sensibilizzazione e di approfondimento sul tema della violenza di genere, si continua ad uccidere. Perché tanta violenza?

“Da qualche tempo, mi sembra di leggere un bollettino di guerra che dovrebbe sconvolgere tutti e che dovrebbe indurre la società sana a reagire con un “no…basta”. Tanto si sta facendo nelle scuole, così come all’interno dei nostri ranghi per una formazione quanto più adeguata ad affrontare situazioni che lasciano intravedere il pericolo della violenza di genere. Tuttavia, bisogna puntare sulla informazione/formazione dei giovani, sin dalle scuole primarie, degli insegnanti e dei genitori. Infatti, tra gli incontri calendarizzati dalla Questura con l’Ufficio provinciale scolastico ne sono previsti alcuni specifici con gli insegnanti e con i genitori. Quello che diciamo sempre ai ragazzi è di non nascondere il disagio e di confidarsi con un genitore, con un/a amico/a, con un insegnante per farsi aiutare ad uscire allo scoperto davanti a qualificate figure professionali (psicologi, avvocati dei centri antiviolenza, poliziotti) per affrontare la delicata situazione in tempo utile”.  

Il Questore Agnello, è entrata nel ruolo dei Commissari della Polizia di Stato nel 1987 dopo aver vinto il concorso per Vice Commissari.  Dall’agosto del 1988 al gennaio del 1990 ha rivestito l’incarico di funzionario addetto presso la Squadra Mobile della Questura di Agrigento, coordinando le Squadre Volanti, mentre da marzo a luglio dello stesso anno, è stata reggente del Commissariato di Palma di Montechiaro, ricoprendo la carica di dirigente dall’agosto del 1990 al luglio del 1992.

Lei ha rivestito diversi ruoli che hanno impreziosito il suo bagaglio personale per le parecchie esperienze professionali in diverse comunità in cui ha operato. Quale città le ha lasciato un ricordo indelebile e perché?

“La città che mi ha lasciato più ricordi indelebili sia da un punto di vista professionale che personale è stata senz’altro Palma di Montechiaro. Da giovanissima Commissario Capo, ho diretto il Commissariato in un periodo terribile per la guerra apertasi tra Cosa Nostra e Stidda che mieteva ogni anno decine di vittime. Avevo un gruppo di poliziotti giovani come me con i quali facemmo squadra, compatti, uniti, forti della responsabilità che avevamo di perseguire i criminali ma allo stesso tempo di restituire alla cittadinanza sana una adeguata percezione della sicurezza. Sono stati due anni e mezzo di sacrifici, sotto tanti punti di vista ma alla fine, collaborando anche la Squadra Mobile di Agrigento, arrivammo a concludere una operazione di polizia (denominata Gattopardo) che è rimasta tra gli annali della polizia giudiziaria di quella provincia e non solo, ma, soprattutto, avevamo riportato la gente di Palma ad avere fiducia nelle istituzioni e a riprendersi spazi cittadini, come il centro storico e le piazze, che per anni avevano visto il coprifuoco a partire dalle prime ore del pomeriggio. Personalmente, mi ha arricchito il rapporto che instaurammo con i ragazzi del locale liceo, con un coraggioso Comitato spontaneo di cittadini che chiedevano sicurezza dicendo basta alla mafia e soprattutto il riconoscimento della gente comune che ci fermava anche per strada per chiederci qualunque tipo di informazioni. Ricordo che davanti alle perplessità dei miei agenti a tale ultimo proposito, dicevo che mai avrebbero dovuto rispondere di non esserne competenti ma di attivarsi comunque per indirizzare chiunque ne avesse avuto bisogno”.

Nel luglio del 1992, mese terribile per la strage di via D’Amelio a Palermo, è entrata a far parte della Direzione Investigativa Antimafia di Roma dove ha ricoperto l’incarico di funzionario addetto del Reparto Relazioni Internazionali, con compiti di coordinamento di unità organiche anche all’estero.

Come giudica quell’esperienza che l’ha portata a lavorare anche fuori dall’Italia?

“Straordinaria. Avevo partecipato a quel concorso interno forte dell’esperienza maturata tra Squadra Mobile di Agrigento prima e Commissariato di Polizia di Palma Montechiaro dopo e perché determinata a contribuire alla causa, secondo i criteri condivisi dal Dipartimento della Ps con il giudice Giovanni Falcone. Fui chiamata a Roma subito dopo le stragi del 1992 e ancora di più capii che quella era la mia strada, almeno per qualche anno. Rifarei tutto, anche se per parecchi anni mi allontanai dalla mia famiglia (che ha sempre condiviso e rispettato le mie scelte) e dai sentimenti; tuttavia, ero troppo entusiasta di condividere quel nuovo modo di fare investigazioni, a fianco di qualificati funzionari e ufficiali provenienti da tutti i reparti del territorio nazionale”.

Nel suo vasto curriculum, la dottoressa Agnello ha diretto la Sezione Operativa della Dia di Agrigento. Portano la sua firma, svariate e delicate operazioni di Polizia Giudiziaria eseguite sia sul territorio agrigentino che all’estero. Ha lasciato la sua impronta anche alla Questura di Catania e in quella di Ragusa. E non solo.

 “Sono stata la vice Dirigente del Compartimento della Polizia Ferroviaria per la Calabria tra il 2006 e parte del 2010. Erano anni in cui col Servizio Polizia Ferroviaria di Roma si studiavano nuovi moduli operativi, sia per evitare la devastazione dei treni che puntualmente avveniva durante le trasferte dei tifosi ultras delle squadre di calcio sia per garantire più sicurezza nelle stazioni ferroviari e sui treni. L’impegno è stato notevole ma anche la soddisfazione di riuscire ad applicare nuovi metodi di approccio con i tifosi e con l’utenza non è stata da meno. Quello è stato un periodo in cui mi sono confrontata spesso con la gestione dell’ordine pubblico in concorso con la Questura di Reggio Calabria ed è stata un’esperienza di certo concreta e utile per il prosieguo del mio percorso di carriera, specialmente quando ho ricoperto l’incarico di Vicario del Questore di Siracusa”.

Cosa porta dentro di sé della permanenza in Sardegna dove ha diretto il Compartimento della Polizia Stradale?

“La Sardegna è una terra magica che ti ammalia e quando la lasci senti che ti manca. E’ stato un periodo intenso di lavoro e di conoscenze su tutto il territorio dell’isola; la competente Direzione Centrale mi aveva affidato il compito di intensificare la presenza della Polizia Stradale su quel territorio, curando anche i rapporti con le Questure e con le Prefetture. Ho trovato dei validissimi collaboratori che mi hanno sostenuta e consentito di raggiungere gli obiettivi prefissati”.

Divaghiamo un attimo: quando ha la possibilità, che musica ascolta?

“Sono un’appassionata di musica lirica (adoro Tosca e la Cavalleria Rusticana) ma ascolto molto volentieri la musica leggera e pop. Continuo ad ascoltare alcuni tra i più grandi cantautori italiani, quali Pino Daniele, Lucio Dalla e Fabrizio De Andrè”.

Qual è il complimento più bello che ha ricevuto in ambito lavorativo?

“Più che di un complimento vero e proprio, si è trattato di un grazie particolarmente sentito da parte di una madre per aver trattato con professionalità e trasporto umano il delicato caso di una figlia vessata dal convivente”.

Cosa vuole dire al personale della polizia che opera in provincia di Caltanissetta?

“Direi loro un grazie senza fine per il lavoro costante e spesso sacrificante che svolgono al servizio dei cittadini, qualche volte in condizioni non del tutto favorevoli. E chiederei loro di ringraziare le proprie famiglie per il sostegno morale e materiale che garantiscono e che consente loro di lavorare più serenamente per portare avanti la nostra importante mission: servire il cittadino e farlo sentire al sicuro”.

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Direttore Responsabile: Giuseppe D'Onchia
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